Vivan Maier, la bambinaia con un talento straordinario per la fotografia. La tata dalla doppia vita che girava sempre con la macchina fotografica al collo, pronta a fermare sulla pellicola qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione. Donna eccentrica, colta, enigmatica, con sfumature al limite dell’inquietante, riservatissima sulla sua vita privata. La sua storia, così perfetta per essere romanzata, di primo acchito è in grado di offuscare il suo senso per la fotografia che l’ha portata a essere annoverata fra i grandi fotografi del Novecento. Madre della street photography, il suo lavoro emerge per caso, quando è già morta. Il merito è di un ragazzo, tale John Mallof, che per un pugno di dollari si aggiudica all’asta un container pieno di negativi e di altri suoi effetti personali. Incuriosito cerca di ricostruirne la storia. Impresa solo parzialmente riuscita, perché il mistero sulla vita della Maier è proprio fitto. Per lei parlano i suoi scatti, non foto qualunque, non foto banali. Vivan Maier ha qualcosa in più: sapeva catturare il “momento decisivo” mentre ritraeva volti, dettagli, scene di vita quotidiana, miserie e immagini di mondi lontani.
La sua storia appassiona, i suoi scatti parlano, il mistero ovviamente amplifica il tutto. Arrivano un libro fotografico e il documentario “Alla Ricerca di Vivan Maier” che conquista una menzione agli Oscar 2005. In America come in Europa le mostre a lei dedicate mettono d’accordo pubblico e critica. Le iniziative per fare conoscere il suo lavoro si moltiplicano. A Rimini, in questi giorni, è stato merito della proprietà del cinema Settebello (unica sala cinematografica della città che ha retto all’avvento delle multisale grazie a pregevoli serate a tema e a programmazioni mirate) organizzare una serata dedicata alla Maier: aperitivo, contest fotografico ispirato alla street photography e proiezione del documentario. La serata all’insegna della qualità porta il pieno in sala. Al contest sono arrivati circa una settantina gli scatti. A selezionare i migliori dieci e i tre vincitori sono il fotografo Enrico De Luigi e Maria Teresa Romolo dell’Associazione Fotografica t.club . Si tratta di Falvio Ricci, Francesca Piras, Melissa Iannace premiati con una copia del libro “Vivan Maier: una fotografa ritrovata”. Poi la visione del film nel quale Mallof tratteggia la sua figura attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuta, fra cui i bambini – ora adulti – di cui si era presa cura. Parte integrante del racconto il ritrovamento e lo sviluppo dell’enorme materiale fotografico ritrovato.
I punti fermi sono sempre quelli. Di Vivan Maier si sa che era una donna molto discreta, niente famiglia, niente marito, niente amicizie, nessuno conosceva il suo lato artistico e quello che stava facendo, nemmeno coloro che vi vivevano insieme. Quando si stabiliva da una famiglia la sua stanza diventava territorio off limits. Nata nel 1926 a New York, Vivan Maier è vissuta fra la Francia, New York e Chicago. La sua enorme produzione emerge solo nel 2009 per una caso completamente fortuito. Era un’accumulatrice seriale di inutilità: pile di giornali che arrivavano fino al soffitto, ricevute, montagne di negativi e tanto altro materiale che per un periodo di tempo viene conservato in un container preso in affitto, a New York. Poi quando smette di pagare, tutto quanto va all’asta. E’ il 2007, due anni prima della sua scomparsa, ad aggiudicarsi per 380 dollari tutti quegli scatoloni è un giovane, John Mallof. Una volta aperti gli parve chiaro che si era imbattuto in una vero tesoro e che gli scatti di quella donna hanno lasciato un segno profondo. Circa centomila negativi ancora da sviluppare, insieme ad appunti, registrazioni, filmati in super 8 e 16 millimetri. Da quel momento inizia tutto un lavoro di riscoperta della sua figura. Mallof la cerca, ma la ritrova solo da morta in un necrologio apparso su un giornale. Morta in silenzio, senza clamori, senza che si sapesse nulla del suo senso spiccato per la fotografia.
Vivan Maier attraverso i suoi scatti ha contributi a raccontare la Golden Age delle grandi metropoli americane, fra gli anni ’50 e ’60. Sono ritratti soprattutto in bianco nero, solo nell’ultimo periodo si apre al colore. Il suo occhio si sofferma sulla vita di strada, la quotidianità, le persone comuni rese inconsapevoli protagoniste e su se stessa, riflessa in specchi e vetrine, anticipando i contemporanei selfie. Una storia affascinante, ma lei resta difficile da decifrare. Un esempio per tutti: scattava foto di continuo eppure non si preoccupava di sviluppare i rullini. Poi la figura di questo giovane che ne riconosce il valore artistico e inizia a farla conoscere al mondo. Lei non c’è più ma forse avrebbe voluto che andasse proprio così.