21“Ti amo”, sussurrò mentre ansimava e si muoveva sopra di me.
Rimasi di sasso. Istintivamente strinsi più forte i suoi fianchi.
Ruppi una pausa che altrimenti sarebbe stata eterna e risposi meccanicamente la stessa cosa.
Nell’oscurità della sua camera da letto sentivo chiaramente di non credere a nessuno dei due.
Un puntino emerse fischiando all’orizzonte, stagliandosi via via più prepotentemente nel chiarore di un mattino d’agosto.
Frugavo avidamente la fiumana che invadeva la banchina, ansioso ed eccitato, ma preoccupato di apparire disinvolto.
Fu lei a trovarmi, sorridendo e venendomi incontro con gli occhi fissi nei miei.
Era mora e bassettina: uno scricioletto riccio sul metro e sessanta, col visino da Biancaneve (pallida con le guanciotte rosse), formosetta e sensuale.
Passeggiammo mano nella mano sul lungomare, finché una sconosciuta si sedette a sorpresa sulla panchina con noi.
“Siete proprio una bella coppia, state insieme da molto?”
“Ci siamo visti oggi per la prima volta”, risposi raggiante e per niente seccato.
“Che c’è?”, sussurrai al cellulare. Era la classica situazione in cui si conosce già la risposta, e quella risposta è in quel momento la cosa che più al mondo vorresti evitare. Non servirono parole: bastò il muto brusio del cellulare.
In pigiama di fronte al computer mi sembrò che qualcosa si fosse spezzato. Solo tre ore prima avevo incontrato il fratello, primo baluardo da espugnare verso l’approvazione della famiglia.
Lei i miei li aveva invece già conosciuti. Un mese e mezzo fa aveva passato il week-end a casa mia. Eravamo andati alla fiera di San Nicola e in spiaggia.
“Ma dai, figurati se sono quel tipo di persona… scherzi?”, abbozzai. Di nuovo il brusio del cellulare. “Facciamo così: adesso andiamo a nanna, che è tardi, domattina ne parliamo con calma,ok?” Ancora il brusio di sottofondo.
“Buonanotte cucciolina”, esclamai sforzandomi di essere il più dolce possibile.
“Buonanotte”, buttò lì lei nel modo più freddo possibile.
Una settimana più tardi, una domenica sera di inizio novembre, sarebbe finito tutto. Sempre lì davanti al computer, in pigiama, sempre al cellulare, ma in un’esplosione di insulti e grida.
Non mi sembrava vero: ce l’avevo fatta anche a portarla al mare! Era metà settembre, avevamo acciuffato la stagione per il rotto della cuffia. Il bagnino stava schermando i gabbiotti con grandi pannelli di legno; gli ombrelloni non c’erano più e la porzione di spiaggia su cui avevo scorrazzato per tutta l’estate di colpo sembrava immensa, sconfinata.
Stendemmo gli asciugamani vicino alla riva. Il sole non era più troppo vorace. Io rimasi in maglietta, lei indossava un bikini a fiorellini rosa e viola.
Mi guardai furtivamente in giro: il bagnante più vicino era un vecchietto a una trentina di metri. Appoggiai dolcemente la mano sulla sua pancia e la tenni ferma lì qualche secondo. Lei aprì gli occhi e mi sorrise. La mossi piano verso il seno, inebriandomi di ogni centimetro bianco e liscio. Mi fermai al triangolo del costume e strinsi un po’ il palmo. Come lo sentii riempirsi spostai di colpo la mano sulla coscia destra. Di scatto sollevò le spalle e mi scoccò un bacio sulla bocca. Strinsi la coscia e iniziai a salire, lentamente ma con decisione. Mi prese la mano e me la appoggiò sull’asciugamano, in territorio neutro.
“Facciamo una passeggiata?”, mi sorrise.
“Non mi toccare lì!!!”, urlò. Trasalii quasi spaventato. Erano le due, eravamo a tavola a casa sua. Sui piatti qualche sparuto avanzo di hamburger e uova strapazzate. Le rivolsi uno sguardo supplichevole. Scusa, non so cos’ho fatto ma scusa lo stesso… è per quello?! Non può essere tanto terribile un pizzicotto sul fianco…
“Non voglio, mi dà fastidio lì!”, gridò ancora più forte. Qualcosa si spense, qualcosa si ruppe. Un’altra piccola crepa che cammina mezzo centimetro. E lei che due settimane prima mi aveva detto, stesa di fianco a me, i vestiti e le lenzuola gettati a terra dal caldo:
“Tanto tu ti stuferai di me, lo so… ho un caratteraccio…”
“Eh… un po’ sì”, avrei dovuto rispondere, se solo non avessimo appena fatto l’amore.
“Sta’ attento che con questa non ci arrivi a Natale”, aveva sentenziato. Seduto sul divano, con lei sulle ginocchia, non sapevo dove guardare. Non si somigliavano per niente: l’oracolo della situazione era suo fratello, alto e magrissimo, con lunghi capelli castani. Anche gli occhi erano più chiari, sul nocciola.
Aveva dribblato tremila impegni apposta per conoscermi e tirarmela, che onore! Di colpo mi sentii invaso dall’amarezza e dall’imbarazzo.
La profezia si sarebbe avverata la settimana più tardi. Gentilmente scansai la mia metà, la mia gamba iniziava a cedere sotto il suo dolce peso. Le accarezzai un ginocchio sperando che mi confortasse, che dicesse: “Ma no, dai, non è vero…”, che mi desse anche un bacetto magari, sulla guancia eh… niente di sconveniente di fronte al fratello, per carità…
Ma non disse nulla. Silenzio assenso. Eh sì, ha ragione mio fratello, preparati a passarne delle belle! Aveva pienamente ragione infatti. Aggrappandomi all’ultimo cinereo refolo di speranza, tentai di esorcizzare la sciagura concentrandomi sulla TV e sui piloti del motomondiale che si davano battaglia negli ultimi giri.
Era la cosa più trasgressiva che avessi mai fatto. Avevo inchiavato, ma se qualcuno avesse provato a entrare in camera mia, avrebbe subito capito cosa c’era da vedere. Ogni tanto mi voltavo in direzione della porta, pur sapendo che era perfettamente inutile. I miei dormivano nella stanza accanto, dovevamo fare piano. Era come se il buio quella sera amplificasse tutti i rumori. Come se le voci della casa sopita, di solito sommesse, fossero filtrate da un megafono. Fu una botta di adrenalina pazzesca! Non per il sesso in sé per sé, ma per la situazione molto intrigante, per la paura di essere scoperti.
Mi svegliai abbracciato a lei. Alla fine non ero andato da mia nonna. Spostai il suo braccio dal mio petto e mi sollevai bruscamente, sperando si svegliasse, ma dormiva profondamente. Ci pensai un attimo, poi spensi la luce e rimasi lì. Il ritmo del suo respiro, nel buio, mi scaldava. E al buio sorrisi, sentendomi l’uomo più felice del mondo.
L’indomani saremmo andati alla Fiera di San Nicola e sabato l’avrei portata al mare, alla spiaggia delle Poste.
Com’era diversa, ora, la stessa stazione. Il mattino assolato di tre mesi prima aveva lasciato il posto a una giornata uggiosa. Il cielo plumbeo minacciava pioggia. Si sarebbe meritata di venire a riprendere le sue cose a casa mia. Non l’avrei fatta salire, gliele avrei lasciate fuori, davanti al garage! Ma quando un bravo ragazzo incontra una ragazza come quella, le cose vanno sempre in un modo solo. Lei aveva già voltato pagina, così, da un giorno all’altro. Si vedeva dall’incedere sprezzante sulla banchina e dal ghigno che mi rivolse quando mi fu di fronte. Fumava. Non le avevo mai visto una sigaretta.
Non era truccata, sembrava sciupata, in viso. Avvolta in un ampio cappotto blu aveva un’aria vagamente trasandata.
“Succede, succede”, ripeteva stringata e acida, come un’ossessa, se mi scappava un’allusione, un ricordo o una speranza sulla nostra storia. Per me non era possibile spegnere tutto in un click, per me è impensabile. Come per ogni bravo ragazzo, suppongo. Di certo non per donne come lei. Donne- interruttore: on/off, relazione accesa/relazione finita, oggi amore scopiamo/domani chi sei-che vuoi? addio. Così funzionava. Le donne-interruttore non indugiano mai, non hanno tempo da perdere, perché “succede succede” e bisogna andare oltre, proseguire fino a fregare qualcun altro.
Il lungo giubbotto di pelle marrone mi svolazzava contro i jeans mentre scendevo a passi rapidi le scale del sottopasso. Dalle stelle alle stalle in un battito di ciglia.
A ogni gradino mi sentivo più disperato.
“Sì, sì”, pensai, “succede succede, tutto succede. Ma tu sei una stronza. E una zoccola.”