“Sostiene Pereira” è un grande romanzo d’impegno politico e civile edito da Feltrinelli nel 1994: è stato vincitore del premio Viareggio-Rèpaci, del Campiello, nonché del Prix Européen “Jean Monnet”; con questo capolavoro di narrativa, Antonio Tabucchi viene consacrato quale una delle penne più importanti della letteratura italiana ed europea del Novecento.
Nell’aprile del 1995 esce nelle sale la versione cinematografica; il regista Roberto Faenza traspone magistralmente l’opera sul grande schermo, in una coproduzione italo-francese, avvalendosi di attori di primissimo piano: Daniel Auteuil, Stefano Dionisi, Nicoletta Braschi ma soprattutto un eccelso Marcello Mastroianni in una delle sue ultime apparizioni.
Gli ingredienti ci sono tutti per ottenere un film destinato a lasciare un segno indelebile, considerato di interesse culturale dal dipartimento per lo spettacolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri; il fil rouge della pellicola, come d’altronde quello del libro, è la maturazione di una persona già avanti con gli anni in un dialogo costante e spesso contraddittorio tra passato e presente: è la storia di un uomo che riesce a lasciarsi alle spalle decenni vissuti stando in un recinto asettico, quasi viziato dall’apatia, e al margine degli eventi politici e sociali della sua comunità. «La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro», è il monito rivolto a Pereira dal medico curante che lo aiuterà a scoprire un nuovo “io dominante”.
Il giornalista Pereira infatti è un uomo solo e problematico: un anziano cardiopatico, abitudinario e ossessionato dal pensiero della morte e dal ritratto della moglie deceduta, con il quale intrattiene dei monologhi per confessare le sue più intime angosce. In portoghese Pereira significa “albero del pero” e, come tutti i nomi degli alberi da frutto, anch’esso è di origine ebraica. Dopo aver trascorso diversi anni facendo cronaca, Pereira approda finalmente alla direzione della pagina culturale di un importante quotidiano lusitano: il “Lisbóa”.
Qui si occupa di traduzioni di scrittori stranieri e della stesura di necrologi anticipati dei più grandi letterati europei. Si può parlare, nell’affascinante caso di Pereira, come di una sorta di progressiva emersione di una coscienza oppositiva rispetto al potere dominante, che era rimasta latente per tanto tempo. Questa coscienza civile e politica trova lo spazio per venire a galla quando il giornalista incontra un giovane neolaureato di origini italiane, che vorrebbe approcciarsi a questa professione collaborando proprio con la pagina culturale del “Lisbóa”; il ragazzo si chiama Francesco Monteiro Rossi ed è in realtà un militante antifascista, fidanzato con una ragazza altrettanto combattiva: i due giovani trascineranno Pereira in una storia della quale l’attempato giornalista diventerà protagonista. La vicenda si svolge alla fine degli anni Trenta in Portogallo, in una nazione ormai alle prese da circa dieci anni con la dittatura di Antonio de Oliveira Salazar, mentre il resto d’Europa registra l’avanzata inarrestabile del nazifascismo.
Nel film si possono isolare tre diversi momenti che sanciscono il passaggio dal distacco passivo alla partecipazione attiva di Pereira contro i soprusi del governo portoghese. In una delle scene iniziali il giornalista assiste, dal finestrino di un tram, al pestaggio di alcuni manifestanti ad opera della polizia salazarista: non ha alcuna reazione se non osservare, con una sorta di rassegnazione, una tale degenerazione politica del suo Paese.
Al centro della pellicola si posiziona l’incontro nel vagone ristorante di un treno tra Pereira e una signora ebrea tedesca, di origini portoghesi, in attesa del visto per espatriare negli Stati Uniti: qui il giornalista, incalzato dalla commensale, ammette per la prima volta di non essere felice per quello che sta accadendo in Portogallo, ma giustifica il suo distacco rassegnato sostenendo di essere in fin dei conti solo un semplice curatore di una pagina culturale, essendo altresì consapevole delle simpatie politiche piuttosto reazionarie del suo direttore.
«Lei è un giornalista, faccia sentire che non è d’accordo con quello che sta accadendo: tutto si può fare, basta averne la volontà», è l’invito della signora che produce una scintilla nel suo interlocutore. Ormai Pereira è come una miccia accesa che ha innescato un ordigno intellettuale, pronto a colpire attraverso l’inchiostro della sua brillante penna: gli occorre solo l’evento in grado di scatenare il nuovo e atteso “io dominante”, portato a galla grazie anche al supporto psicologico del dottor Cardoso.
L’evento non tarda ad arrivare e si consuma proprio in casa di Pereira dove si è rifugiato l’antifascista Monteiro Rossi, ricercato dalle autorità salazariste. Tre loschi figuri, presentandosi come agenti della polizia politica, irrompono nell’appartamento e uccidono il ragazzo, minacciando inoltre il giornalista affinché taccia sull’accaduto; tuttavia la notizia dell’agguato viene pubblicata in prima pagina sul “Lisbóa”, firmata da Pereira in persona che riesce a beffare con astuzia i controlli della censura.
Chi è nella realtà Pereira? In un testo pubblicato su “Il Gazzettino” nel 1994, Antonio Tabucchi spiega come dietro al personaggio letterario si celi un vero giornalista, da lui stesso conosciuto a Parigi alla fine degli anni Sessanta: un esiliato portoghese che scriveva su un giornale francese dopo aver esercitato il mestiere, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, proprio sotto la dittatura salazarista.
Egli, come il Pereira del romanzo, è riuscito a farsi beffa del regime e della censura pubblicando su un giornale lusitano un articolo feroce contro il governo dittatoriale e reazionario di Salazar. «Il dottor Pereira mi visitò per la prima volta in una sera di settembre del 1992. A quell’epoca lui non si chiamava ancora Pereira, non aveva ancora i tratti definiti, era un qualcosa di vago, di sfuggente e di sfumato, ma aveva già la voglia di essere protagonista di un libro. Era solo un personaggio in cerca d’autore. Non so perché scelse proprio me per essere raccontato. Un’ipotesi possibile è che il mese prima, in una torrida giornata d’agosto di Lisbona, anch’io avevo fatto una visita», spiegherà Tabucchi ricordando di aver visitato la camera mortuaria di un ospedale di Lisbona per dare l’ultimo saluto proprio a quel giornalista portoghese esiliato, conosciuto molti anni prima in Francia.
Simone Sperduto