Racconto vincitore della VI edizione del Concorso letterario “L’esperienza migratoria dei Sammarinesi”, sezione Racconti.
SOCCHIUDO GLI OCCHI…
I Borgo Maggiore, 2 aprile 1996
«Nonno, nonno, perché ti lamentavi così tanto nel sonno, questa notte?», osserva Francesca, mia nipote di sette anni, chiedendomi cosa mai sia successo.
«Parlavi, ti agitavi tutto. Mi hai svegliata. Mica come le altre volte, che russavi forte forte.»
«Che dicevo, piccola, che dicevo?»
A volte non ricordo più nulla, sogni, incubi, memorie… E così la mattina devo ricominciare daccapo a ricostruirmi un passato.
Sarà la vecchiaia.
«Chiamavi qualcuno, in dialetto, sembravi pregare, ti raccomandavi. Piangevi…»
Oddio, spero di non averla spaventata. Ne ho viste talmente tante, durante la guerra, anche se ero ancora un bambino.
«Razulein, dicevi, vieni qui, nu va via, sta sa me!»
Mi cade il cucchiaio nella tazza del caffelatte e faccio trasalire anche sua madre. Sono passati, quanto, trent’anni? No, sono ancora di più. È tanto che non penso a lui, a Giuliano, detto Razulein per via della sua costituzione minuta. Mi copro il volto con le mani nel tentativo di rivedere il suo muso annerito dal carbone. Sento mia figlia sedermi accanto, il calore della mano sulla spalla.
«Babbo, che hai, stai male?» Teresa non si può ricordare di Giuliano, i racconti di quella vicenda si sono esauriti prima ancora della sua nascita.
«No, non ti preoccupare, non spaventiamo Francesca con questi ricordi.»
«Chi è Razulein , nonno, l’hai visto in televisione?»
Le sorrido, cerco di minimizzare, poi arriva mio genero e l’accompagna a scuola. Resto solo col mio peso sul cuore e lo sguardo interrogativo di mia figlia.
Forse è tempo di fare riaffiorare il ricordo. Devo provarci. Socchiudo gli occhi e lui mi sorride, un lampo candido scolpito sul muso nero…
II
Borgo Maggiore, 16 gennaio 56.
«Alora, a partém ?» Guido, detto Marnetta, si frega le mani per scaldarle, con un rumore di corteccia rinsecchita. Appena ieri ha rotto il contratto col padrone e oggi ha la valigia pronta.
Come gli altri, del resto.
«A so’ prount, ustrigacia! Ai starem, tla curiera?», sbotta Maréin ad Minghini, detto Caplòun .
Siamo talmente abituati a chiamarci per soprannome, che il vero cognome, spesso, non me lo ricordo subito.
È ancora presto, ci sta un bicchiere di mistrà prima di prendere la corriera delle sei e un quarto.
In sette od otto ci avviamo verso le grotte Venturini, dove troviamo già altri quattro avventori. Sisto Forcellini guarda le nostre valigie scalcagnate, affetta pane e salame, versa il vino e il mistrà, ma sta zitto. Si passa la mano ora sulla parananza, ora sui baffi. Non sorride come di solito, oggi, Sisto. Vede partire tanti amici.
«A maracmànd, burdell», ci fa, rifiutando i soldi. «Turnéd prest e tutt sén! Bon viag .»
Ringraziamo in fretta, non siamo avvezzi ai convenevoli.
Alle sei ci presentiamo davanti alla fermata della corriera, speriamo di partire. Solo in Borgo siamo una ventina, so di almeno altri quindici a Serravalle. Vociamo allegri per dissimulare il dispiacere di questo distacco.
Nonostante il buio riconosco Funtanéla, i fratelli Parlanti, Ciapòun e Panzarvolta, che discutono ad alta voce.
Alzo gli occhi alle torri, appena si distinguono dal Monte, freddo e scuro nell’ultimo scorcio della notte.
Il campanile della Beata Vergine della Consolazione batte il quarto alle nostre spalle, quando la corriera appare dalla sottomontana e in breve ci raggiunge.
Benedettini sacramenta, vedendo tanta gente. È già mezzo pieno e nel bagagliaio ha le damigiane dell’olio da lasciare a Serravalle, al frantoio Belluzzi.
Ci dobbiamo tenere le valigie addosso.
Ci spintoniamo per la fretta di salire, ansia di lasciare questa vita di stenti, ansia di lasciare velocemente gli affetti, prima che la nostalgia prenda il sopravvento.
Suntina …
La lascio qua.
Due anni di fidanzamento e la promessa di sposarci.
Un anno appena, vedrai, poi torno e ti sposo!
Mi pesano le sue lacrime disperate. D’altronde non ho nemmeno i soldi per comprarmi un paio di scarpe, non ce la faccio a mantenerla.
C’eravamo incontrati durante una mietitura dalle parti di Chiesanuova, al podere dei Massari. Io stavo alla pula , perché ero giovane e inesperto e lei ci portava da bere. La grande trebbiatrice di legno gemeva e si dimenava, strattonata dalla lunga cinghia di cuoio mossa dal trattore.
«A vlid bé ?»
I suoi occhi neri m’erano rimasti dentro per il resto della giornata, come carboni ardenti.
A sera, rinfrescatomi alla meno peggio al grande abbeveratoio per il bestiame, avevo gli occhi rossi per la polvere e la gola arida nonostante il fazzolettaccio che m’ero legato attorno, che parevo un brigante.
Ci diedero coniglio e faraona, vino e pane bianco, e mangiammo tutti assieme nell’aia, dove erano stati portati tavolacci e sedie per tutti. La sera allungava le ombre e io osservavo le facce rugose dei contadini sorridere, ascoltavo le battute frizzanti, le canzoni, intonate con voci chiare e melodiose.
Oggi, spesso mi chiedo dove sia finita quell’allegria, quella spensieratezza…
Suntina mi allungò il boccale e versò il vino, strizzandomi l’occhio.
«Bivìd, l’è che bùn !»
In effetti, era fresco e dal sapore gradevole, mentre quello di prima aveva una punta d’aceto.
Il sole era calato alle nostre spalle, ma sullo sfondo ancora la sua luce risplendeva sulla Città, dilungandosi sulle facciate arse dei palazzi e delle Rocche.
Non avevo mai visto il Monte da questa parte, e rimasi per qualche istante incantato ad osservarlo.
«Ia, am cém Suntina, e vò ?»
Stava al mio fianco, che nemmeno me n’ero accorto, ancora col boccale mezzo vuoto fra le mani.
Le sorrisi.
«Olindo, am cém, Olindo de Borg .»
Subito arrivò sua madre a richiamarla e lei corse via, rossa in viso. Sostenni lo sguardo della donna, senza timore, senza subirne il rimprovero. Lei lesse nel mio solo sincerità e non disse nulla.
Quando mi voltai, il sole era ormai tramontato, e sul Monte si vedeva appena qualche fioco lume a rischiarare la via…
III
Finalmente la corriera si avvia lungo la strada polverosa. Non riesco a resistere e mi devo voltare per guardare un’ultima volta le vecchie case del Borgo.
Lo vedo sbucare trafelato fra il Fontanone e la banca, quasi volando sui gradini sconnessi.
«Ferma, ferma!», grido alzandomi in piedi e barcollando per la brusca frenata. Voci, bestemmie e Caplòun che mi apostrofa: «Tut tsi già pintìd, Gudanzòun ?»
Gli altri ridono.
«Nu fa ‘e pataca, Maréin, u jè Giuliano cl’ariva ad corsa! »
«’E Razulein? Ma lu u n’è miga bòun da fé gnìnt !» Gli allungo una botta sul braccio per farlo smettere, ma ormai il ragazzo è arrivato e lascio perdere. Siede accanto a me, la piccola valigia di cartone sulle ginocchia.
«Grazie, Olindo, grazie. I m’eva majied al schérpi, pri nu fém partì! »
Sua madre.
Ha pianto per due giorni, quando gliel’ha detto, che non ci voleva credere. In famiglia sono in sette e non ce la fanno più a tirare avanti.
Gli altri paesani gli tirano la giacca e lo apostrofano bonariamente. Solo quell’attaccabrighe di Caplòun gli tiene il muso.
Vecchie questioni di famiglia.
Lungo la strada raccogliamo altri emigranti, da riempire la corriera, poi filiamo verso la stazione di Rimini. La nostra ferrovia non l’hanno ancora ricostruita, però i politici avevano promesso di sistemarla, durante le ultime elezioni. Speriamo che si decidano…
Ci allineiamo lungo la banchina, in attesa del treno. C’è poca gente in giro, stamattina, forse non hanno voglia di vedere tanti pezzenti tutti assieme.
La nostra frenesia s’è calmata di botto: fuori dai nostri confini ci sentiamo già persi, già stranieri.
Tasto con le dita dei piedi il cartoccio di giornale dove ho nascosto due carte da mille lire, per le prime necessità. Mi hanno detto di mettere i soldi nelle scarpe, che sennò te li fregano durante il sonno.
Dalla tasca interna della giacca tiro fuori il passaporto e guardo quella fotografia seria, che stento a riconoscere. Non mi piace farmi fotografare, stare in posa.
L’è da pataca !
Un foglio scivola a terra e rischia di cadermi sui binari. Lo raccolgo subito: è il permesso di soggiorno per lavorare in Francia. Senza di quello diventa più difficile espatriare verso i luoghi dove cercano manovalanza, anche se in tanti scrivono di partire lo stesso. Noialtri siamo destinati a Bilancourt, per costruire l’ampliamento di una fabbrica per macchine e camion. Mi pare sia la Renò, o la Renòl o come cavolo si chiama! Preferirei quasi una miniera di carbone. Magari. Dentro fa caldo, mentre a fare il muratore si muore per il freddo e l’umidità.
L’inverno è ancora lungo, da passare…
Speriamo che alla visita medica, a Milano, non mi trovino niente, non mi va di ritornare a fare questa vita di miseria.
Il treno si muove, allungando un pennacchio di fumo nero frammisto al vapore. Le ruote di ferro sbatacchiano sugli scambi e fanno un rumore infernale, soffocando le nostre parole di reciproco augurio.
Scavalchiamo il Marecchia tutti appiccicati al finestrino: sullo sfondo ci saluta il nostro Monte, la nostra vita. Amori, amici e parenti, fatica e terra dura da lavorare, per conto di padroni che nemmeno il sudore addosso ci lasciano per campare. Gli amici già emigrati ci hanno illuso con i soldi che si possono guadagnare all’estero. Dobbiamo tentare. In tanti sono andati e si sono trovati bene, e ci hanno chiamato. La Francia non è lontana, in fondo, non è come andare in America o in Argentina. Poi il francese è facile, ci hanno detto che assomiglia tanto al nostro dialetto e lo impareremo in breve tempo.
Già cerchiamo di convincerci a vicenda che stiamo facendo la cosa giusta, ma intanto siamo incollati al finestrino, muti, gli occhi lucidi e col groppo in gola a guardare il Monte che si allontana pian piano.
Razulein piange sommessamente e nessuno questa volta se la sente di prenderlo in giro. Dentro mi sento bruciare, fatico a respirare e mi si vela la vista.
Sarà il fumo del treno.
Poi una curva, e il Monte scompare…
IV
Marcinelle, 4 febbraio 1957.
«Alè, vit, vit, les garçons!» Dài, presto, ragazzi! Come lo odio, Bernard, il sovrintendente della nostra squadra. Per lui siamo sempre lenti. Lenti a iniziare il nostro turno, lenti a scavare, lenti nel parlare. Ci sprona rudemente a radunarci nei pressi delle torri degli ascensori, sospinti dalla marea umana del cambio di turno, ognuno col suo lumicino in testa, gli attrezzi, la gavetta e le spalle già stanche. Oggi ci hanno dato le maschere antigas, speriamo di non doverle usare mai.
Ci scansiamo per fare uscire dal nostro ascensore gli operai del turno in chiusura. Non servono le parole: le loro facce stravolte la dicono lunga su quel che m’aspetta, un saluto con le labbra gonfie, un’alzata di spalle e tanta fretta di andarsene.
Sono solo venti giorni che scendo in miniera e sono venti giorni che mi maledico di avere seguito Marnetta, Giuliano e Caplòun in Belgio, a scavare il carbone dove sono morte tutte quelle persone. Uno lo conoscevo anche di vista, poveretto. Siamo rimasti appena un anno a Bilancourt, a costruire una fabbrica della Renault, poi ci hanno chiamato qui, per prendere il posto dei morti.
Dopo la prima settimana passata in una specie di pensione, qui a Marcinelle, abbiamo capito che si approfittavano di noi, derubandoci di buona parte dello stipendio. Allora noi del gruppo dei sammarinesi abbiamo cercato alloggio altrove, trovandolo grazie ad alcuni bergamaschi che ci hanno preso in simpatia. Stiamo in quattro in una stanza, per gabinetto abbiamo un buco nel campo dietro il porcile e dobbiamo farci un paio di chilometri a piedi, andata e ritorno, con questo freddo, ma almeno spendiamo in quattro quanto ci costava ognuno l’alloggio di prima.
Marnetta non ci voleva rimanere: Rue de Cimitiére, aveva letto sulla tabella attaccata al muro della casa, e lui aveva paura dei morti. Ma a Montigny sur Sambre la gente è cordiale e non ti guarda come uno straniero, poi è pieno d’italiani.
Adesso ho un permesso di lavoro per un anno e mi hanno passato a scavatore, visto che sono robusto e me la cavo bene.
Ma non c’è tempo per pensare, l’ascensore sembra precipitare verso il fondo dell’inferno, cinque, seicento metri in un minuto scarso, e ogni volta mi sento mancare il fiato.
Man mano che scendiamo, la temperatura si alza come ci avvicinassimo a una fornace, poi la frenata e le porte si spalancano sulla galleria principale, dalla quale si dipartono i rami secondari, più stretti e male armati, fino alla taglia. L’aria è soffocante e già iniziamo a sudare, una passeggiata di un centinaio di metri e mi mettono in mano il martello pneumatico ancora rovente, ‘e motopécc. Mi affretto ad infilarmi nel budello nero che mi hanno assegnato, per trapanare la vena.
Turni di otto ore, a rotazione, senza mai fermare i carrelli, i nastri trasportatori, i treni carichi di carbone, senza mai raffreddare ‘e motopécc.
Anche Razulein è venuto con noi, però sta a un livello più basso. Lui ci va a nozze, qua dentro: l’hanno scelto subito grazie alla sua statura minuta e i nervi d’acciaio. Riesce a scavare dove io nemmeno infilo la testa. E poi fa caldo, a dispetto dell’inverno. Anche sopra i quaranta gradi, e lavoriamo mezzi nudi per non soffocare.
Il mio numero di medaglietta è il settecentoventisei. Ne hanno dovute stampare delle altre, dopo l’incidente…
‘E motopécc, fa un baccano del diavolo e mi rintrona tutto, ma dopo mezz’ora non si sente più niente, né fatica, né la polvere nera che ti raspa la gola, né il rumore, e sei in un lago di sudore. Quando riprendi l’ascensore, dopo otto ore passate nel fondo della montagna, pensi all’indomani, e che sarà peggio.
A fine mese mi daranno la prima paga, ho già debiti con tutti quanti, spero mi rimanga qualcosa da mandare a casa.
Casa…
Non ho ancora scritto, da quando sono qua, però avevo avvisato. È un inverno rigido e so che a San Marino va anche peggio. Almeno in miniera fa caldo, otto ore d’inferno caldo.
Due volte per turno faccio cambio con Caplòun, per mangiare qualcosa, che ‘e motopécc non si deve mai fermare, sennò arriva quel patacca del sovrintendente e ci fa la ramanzina.
E ci toglie un quintale dal peso della giornata.
Da bere prendo il vino e l’acqua. Qualcuno beve anche la grappa, per darsi forza, ma a me secca la gola ancor più della polvere di carbone.
Io scavo nella taglia e Caplòun riempie il carrello. Quasi non ci vediamo, confusi nella polvere, e dobbiamo urlare per sentirci sopra il rumore del motopécc.
Oggi non mi gira, non vorrei ammalarmi. La discesa in ascensore, poi, mi ha ribaltato lo stomaco più del solito: pare di precipitare senza freni. Da una mezz’ora mi sento strano, un ronzio alle orecchie non mi dà pace, spero solo che non dipenda dal rumore del motopécc.
M’infilo carponi nella taglia, dopo averla liberata dal carbone che ho appena frantumato, cercando un angolo riparato per la lampada, che il budello sarà alto nemmeno mezzo metro. Man mano che perforo la vena, il carbone mi cade attorno fino a riempire il cunicolo, poi lo scalcio fuori.
Tossisco, lo faccio spesso per sputare la polvere che si ferma in gola e nei polmoni. A volte sputo tutta la notte, e Caplòun mi prende in giro dicendo che potremmo riscaldarci gratis, sputando direttamente dentro la stufa…
Poi mi coglie un senso di stordimento più forte. Osservo la fiamma della lampada schermata tremolare. È il segnale.
«Grisou!», sento gridare alle spalle, ma mi manca il fiato, annaspo. Casco bocconi sui frammenti di carbone che ho sotto i piedi.
Caplòun è stato bene istruito: mi mette subito la maschera appena tirato fuori, poi mi trascina verso l’imboccatura della nostra galleria, dove ci sono altri compagni. Mi sorride, storpiato dal vetro traslucido.
«Nu fa miga ‘e pataca, Olindo, rispira! »
Dobbiamo avere liberato una grossa sacca di gas, non c’è più nessuno che sta perforando, qua attorno. Ci hanno detto di stare buoni, in questi casi, che coi tubi lo pompano fuori tutto, questione di minuti.
Dopo qualche minuto la galleria sembra ribaltarsi, un lampo e lo spostamento d’aria dell’esplosione ci fa rotolare sul carbone. Urla, bestemmie, poi qualcuno impone il silenzio.
Controlliamo…
Siamo bloccati, sono saltati via un sacco di puntelli ed è crollata la volta a metà galleria. I tubi dell’aria sono stati tranciati. Un brivido mi corre lungo la schiena nonostante il caldo soffocante: Marnetta, mentre si tampona un taglio alla fronte, dice che appena un minuto prima aveva visto Bernard parlare con un paio di minatori proprio da quelle parti…
Il mio pensiero torna alla tragedia di pochi mesi prima, tutti quei morti e non avere potuto fare niente per salvarli.
Ora sarebbe toccato a noi?
V
La gomma della maschera antigas s’incolla alla pelle e mi fa sudare ancora di più, ma perlomeno tiene lontano il gas, anche se i filtri non dureranno in eterno.
«Che facciamo, Gudanzòun?» Caplòun mi aiuta a rialzarmi, poi ci guardiamo attorno, smarriti, incontrando gli occhi sbarrati di altre dodici persone, rischiarate dalla misera luce dell’acetilene.
«Ci verranno a salvare, vedrete, toglieranno le macerie e ce ne andremo a ubriacarci all’osteria entro stasera!» Marnetta inizia a spostare le pietre accumulate dalla frana, dalla cui sommità scende un inquietante rivolo d’acqua, che nessuna macchina sta più pompando fuori.
Mentre scaviamo per tentare di aprire un varco nella frana, a mani nude, coi badili e con le punte dei motopécc ormai ammutoliti, osservo preoccupato il fango che si deposita ai nostri piedi.
Ogni respiro è un rantolo, ogni movimento un’agonia.
Le gallerie sono cieche, se l’acqua sale faremo la fine dei topi…
Il mio pensiero sembra essersi fatto spazio anche nelle menti degli altri, che iniziano a scavare con più fervore. Ogni tanto ci riposiamo, tutti assieme, restando in silenzio per captare i rumori emessi dai nostri salvatori.
Dopo tre ore non si sente ancora nessuno.
Porru, il sardo, viene preso dallo sconforto e si toglie la maschera, ma il gas sembra scomparso, l’aria frizza appena, meglio risparmiare i filtri.
Le pause si fanno sempre più frequenti e le mani sono ridotte a brandelli, nere e gonfie.
Decidiamo di dividerci in due squadre, una scava, l’altra dà il cambio ogni ora.
Siamo stremati.
«Fate silenzio!» La voce stridula di Fernand ci blocca tutti come macigni.
Si sente uno sferragliare lontano, quasi impercettibile.
«Stanno scavando una galleria per soccorrerci!»
In cuor mio penso che sia una missione impossibile: l’altro livello si trova trenta metri sopra ed è spostato di almeno dieci, sperare di centrare in tempo la nostra galleria con uno scavo d’emergenza mi sembra follia. Da sotto potrebbe essere anche peggio. Però l’illusione ci dà forza. Ci scagliamo tutti con le orecchie alle pareti, per cercare di individuare la fonte, la direzione di quella vibrazione. Ognuno la sente in un luogo diverso e l’euforia cade all’improvviso.
Mi siedo su un grosso sasso, i piedi nell’acqua fino alla caviglia, la testa fra le mani. Prego, piango, invoco i Santi, i miei morti, gli amici lontani…
Lento, l’inutile trapano perfora la pietra, scavando una breccia per arrivare a noi, ma è come una mano lontana tesa tra loro e il nostro infinito.
«Io scrivo un biglietto ai miei!» Caplòun mi guarda rassegnato, cava di tasca una lettera spiegazzata, vergata solo davanti.
«Ma dài, mat, o chi c’trova o chi c’splésc ! Se non ci trovano, non la leggerà nessuno, se ci salvano, non serve a niente. Metti via e non portare scalogna!»
Il tarlo d’acciaio sembra non fermarsi mai, salvo che per brevi pause, forse per liberare l’area di scavo.
«È da questa parte!» Marnetta ha un sorriso, appena distinguibile nel buio della galleria e nel nero della sua faccia. Per risparmiarle, abbiamo spento le lampade tranne una, che sfrigola dentro la centina.
Nuovamente appoggiamo l’orecchio alla parete e finalmente percepiamo distinto quel respiro che pare salire dal basso.
«Sono ancora lontani, mettetevi buoni.» Non c’è altro da fare. Li faccio sedere in alto, sulla frana, che quaggiù l’acqua sfiora le ginocchia.
«Caplòun, racounta ad cla volta che tu tsi arbélt se camion! » Magari li tengo occupati una mezz’ora coi soliti racconti d’osteria. Dopo Caplòun ne verrà fuori un altro poi un altro ancora, e riusciremo a tenere lontano questo silenzio mortale che ci circonda.
«Va là, oramai a la savìd a memoria! Av racount ad quand avem fat sparì ‘e parghér ma Teréinz ‘è prim d’avril! Avém lavuréd tut la nota, pri tri che parghér cima l’anosh! La matéina, Tereinz l’è scap dad chésa e un l’ha più vést. Ac sirmi majed dria ‘e paer, in set o ot. L’ha gired cima l’éra, l’ha guers tla capana, e pu l’ha trov la corda cla pindeva da l’anosh, l’ha guers sora e u l’ha vist, alghéd ma la brancadura. Cum che biastmeva! A sirmi propri dli canai !»
Ridiamo qualche istante, poi il morso gelido dell’acqua ci toglie il fiato, a causa del forte scompenso fra l’aria rovente che ci circonda e la temperatura in fondo mite della pozza che sta crescendo.
In confronto, sembra di ghiaccio.
Tutte le storie sono cessate da almeno mezz’ora, al punto esatto in cui il canto del motopécc s’è smorzato.
Hanno rinunciato!
No, no staranno rifacendo i calcoli.
Chi apia rot ‘e motopécc?
Crist, e ades cus-ca fém?
Malidétt, ic lascia cripé quagiù sotta !
Grossi colpi di maglio sembrano spaccarci i timpani, fanno cadere blocchi di pietra dalla frana e smuovono l’aria.
«Dinamite!»
Siamo spacciati, tanto ormai l’ho capito.
Devono avere scavato lungo una vena di carbone, notevolmente più friabile della dura pietra, la cui barriera, alla fine si sono ritrovati davanti. Ora staranno cercando di spaccare la montagna con gli esplosivi, con l’unico risultato di generare altri crolli.
Marnetta sta dormendo con la testa posata su un sasso, magari spera di morire nel sonno, senza rendersene conto.
Io no, non ce la faccio a piegare il capo e lasciarmi morire. Spererò fino alla fine, almeno avrò fatto del mio meglio per resistere.
‘E motopécc riprende a scavare, mentre il gelo mi stritola la pancia e blocca sempre più il respiro…
VI
C’è silenzio in galleria, da qualche minuto; tutti ascoltano quella speranza lontana, seguendo il ritmo e lo sbuffare rovente del motopécc.
Penso a casa mia, per confortarmi un poco, finché la mente me lo consente.
Vedo nel buio i volti della Suntina e di sua madre: m’immagineranno intento a scavare questo maledetto carbone, e non sul punto di rendere l’anima.
E poi, queste esplosioni improvvise mi ricordano tanto i bombardamenti di quand’ero ragazzino, le corse per i campi, per salire su un’altura o un albero, a far gara con gli altri compagni a chi ne contava di più, dei caccia inglesi. Dopo i primi tempi di paura, avevamo smesso di scappare nei rifugi o nelle gallerie del treno, ad attendere che cessasse il passaggio dei bombardieri.
Tanto non ci avrebbero attaccato, assicuravano i politici: San Marino era rimasto neutrale e c’erano pochi tedeschi in giro: non fregava a nessuno dei nostri greppi.
Non c’era nemmeno la sirena, sentivamo rombare i motori degli aerei senza vederli e poi arrivavano, col loro carico di morte, passando sempre oltre, a buttare le bombe lontano.
Pesaro, Rimini, poi su, su.
Un pomeriggio ero alla fonte di Valdragone per prendere un orcio d’acqua, quando è iniziato l’ennesimo passaggio di bombardieri. Eravamo in settembre, del ’44. Sono corso a vedere, salendo sul ponte della ferrovia, sopra il lavatoio. Gli aerei passavano e ripassavano sopra Serravalle, Dogana e sul Monte, avanti e indietro, come avessero perso la strada.
Oggi mi dico pazzo, ma all’epoca non lo sapevo di stare proprio sopra uno dei loro obiettivi prescelti!
Nel cielo, più alti dei colpi che i pochi ardimentosi tedeschi o fascisti potessero sparare, luccicavano le ali e le fusoliere dei bombardieri.
Una, due, tre ondate.
Io li seguivo incredulo con la mano sugli occhi, per ripararmi dal sole, mentre l’aria tremava per il loro ronzio e poi scoppiava per le bombe. Dapprima i sibili, poi le esplosioni, sempre più vicine.
Fumo, disorientamento, i cani che abbaiavano, la gente che correva e scappava verso i rifugi.
«Vin via, mat! », mi urlava Bumbòun dall’imboccatura della galleria, ma io niente, stordito dalla forza di quello che mi pareva uno spettacolo.
Tornando a casa, incontrai della gente radunata attorno alla buca scavata dall’esplosione di una bomba. Un vecchio piangeva, seduto su una pietra. Mi portarono via, dicendo che era stata colpita una mandria di mucche, ma non gli credetti.
Attorno si scorgevano case distrutte e il fumo di piccoli incendi. Giunto nei pressi di casa mia vidi che nemmeno la Chiesa della Madonna della Consolazione era stata risparmiata, e mostrava le sue ferite.
Poi mi sono reso conto della tragedia e ho pianto. Erano morti in parecchi, a Borgo e dall’altra parte del Monte, mentre io guardavo affascinato quegli aerei assassini.
Negli anni, ho anche saputo i loro nomi: Spitfire, Marauder, Baltimore…
Non ho più guardato un aereo, in seguito, senza provare vergogna per la mia leggerezza…
VII
Nuove cariche, stavolta più vicine.
«Allontaniamoci dalla frana.» Grossi blocchi sono rotolati giù e anche Marnetta ha preferito il metro d’acqua al rimanere schiacciato. Saliamo quattro per volta sull’unico vagoncino rimasto da questa parte della galleria, per stare mezz’ora all’asciutto.
Dopo tre turni d’asciutto un nuovo boato spezza ancora il silenzio. Stavolta è tanto vicino da smuovere l’acqua.
Ma non ci porta abbastanza gioia: il livello dell’acqua ha tracimato e sta riempiendo il vagone.
L’aria inizia a scarseggiare e l’acqua nera non smette di salire. Poche ore ancora e saremo morti.
«Dobbiamo rimettere a posto i sassi sulla frana, per abbassare il livello dell’acqua e liberare la zona di scavo per quando arriveranno i soccorsi, finché siamo in tempo!» Raccolgo solo sguardi rassegnati e stanchi.
«Arcamaména, av digh da stè sù !» Afferro il più vicino per un braccio e lo spingo a forza verso la zona del crollo. Con passo incerto e tanto freddo nel cuore, i miei compagni formano una catena umana e nelle ore seguenti i sassi vengono ributtati nel mucchio.
Ormai siamo alla fine.
Stanchi, bagnati fradici e rosi dalla fame, ci abbandoniamo dove siamo, appena la testa fuori dall’acqua, dove galleggiano cose innominabili che il freddo ha espulso dai nostri corpi stremati.
L’ultima lampada si è spenta, meglio così, non voglio più vedere gli sguardi spaventati dei miei compagni e il bianco degli occhi bucare il buio e il nero della pelle.
Mi appoggio alla parete e cerco di concentrarmi sul perforare ritmato che ci solletica i piedi. Ora lo sento distintamente e mi sforzo di credere che faranno in tempo.
Stringo i pugni contro la montagna, per non cedere. Penso alla Suntina che mi aspetta, mi figuro nella mente noi due col vestito buono davanti la chiesa di Monte Maggio, mentre i parenti ci tirano il riso. Ma l’immagine sfuma all’improvviso, qualcuno sta male e deve essere sorretto.
«Marnetta, cerca di capire da dove arrivano. Ci dovremo spostare, quando sarà il momento, oppure faranno saltare anche noi!» Sento Guido muovere l’acqua, masticando qualcosa fra i denti. Scivola a tentoni lungo la parete, calpestando i compagni. Nessuno si lamenta, risparmiamo le forze per lottare fino all’ultimo.
All’ultimo respiro…
Pare che stiano arrivando dalla parte del vagone, e allora tutti si spostano verso la mia zona.
«Coraggio, amici, coraggio, manca poco…» Per dirlo mi sono dovuto rizzare in piedi, l’acqua mi sta superando le spalle. Qualcuno mi preme contro il braccio, non so chi è, non ha importanza.
Contiamo i minuti in silenzio. Anche ‘e motopécc tace, staranno preparando un’altra carica. Infatti brilla qualche tempo dopo, non so dire se mezz’ora o più.
Un crampo mi sta prendendo allo stomaco e le gambe iniziano a tremarmi. L’acqua ormai fredda ci toglie il fiato e le forze. Già qualcuno s’è sentito male e lo stiamo reggendo a braccia. Non vogliamo perdere nessuno dei compagni sopravvissuti e ci stringiamo l’un l’altro.
Poi il boato.
Ci ritroviamo sommersi, a rotolare fra le pietre smosse della frana, travolti dallo scoppio e dal mulinello dell’acqua che scema attraverso la forra. A stento riusciamo a non farci risucchiare, tenendoci contro il vagone, avvinghiati a uno spuntone di roccia, aggrappati furiosamente alla vita.
Un pensiero mi corre verso gli uomini che hanno lavorato per liberarci, non vedo l’ora di abbracciarli e baciarli tutti.
Tutti!
Il frastuono del torrente che scola finalmente si smorza, fino a diventare un lento percolare. Non osiamo muoverci al buio, sarebbe sciocco precipitare in un pozzo o buscarsi un macigno in testa.
«Alors, ça va bien?» Una voce lontana giunge fino a noi, poi un alone di luce pare tremolare da qualche parte sul fondo della galleria.
«Siamo qui!», urliamo, per farci sentire, ancora increduli di stare a un passo dalla salvezza.
La luce torna di nuovo a gettare ombre sulla nostra spelonca: due uomini si affacciano dall’orlo della galleria che hanno scavato, illuminando occhi arrossati e labbra tremanti.
«Ce la fate a calarvi?»
Ci giocheremmo a scopa il diritto di scendere per primi, ci facciamo avanti tutti assieme. Butto uno sguardo sul pozzo, largo dove hanno messo la mina, poi uno stretto budello che pende di traverso.
Aiutandoci l’un l’altro, scendiamo passo a passo lungo quella che ci sembra la più larga delle strade per tornare a casa.
Ora scherziamo, facciamo progetti e ci promettiamo grandi bevute. In testa al gruppo, i due uomini con le lanterne ci precedono in silenzio, appena attenti che non scivoliamo. Forse giudicheranno male la nostra euforia, egoista e fuori luogo al pensiero dei compagni morti sotto il crollo. Bernard, Pierre e credo Martini, quello di Perugia, forse tanti altri. Erano di un’altra compagnia e li conoscevo poco.
Io o loro: solo questione di fortuna.
Sul fondo, la galleria si fa più dolce, per sbucare quasi in piano su quella principale. Avevo visto giusto: da una vena di carbone esaurita era stata tracciata una linea per raggiungerci. E l’avevano fatto in tempo.
La forte luce ci fa sbattere le palpebre, ma è cosa di un momento. Trasciniamo i piedi nella melma che si è formata, il grosso dell’acqua è defluito altrove, richiamato dall’abisso.
Finalmente ci portano all’ascensore, quello a valle, l’altra tratta dev’essere conciata male. È mentre saliamo che ci assale la paura, la consapevolezza che ce la siamo cavata per un niente. Inizia Caplòun con un lungo sospiro per cacciare indietro le lacrime, lo seguono Porru, Marnetta e tutti gli altri. È un pianto liberatorio, poi ci abbracciamo.
L’aria diventa subito più fresca man mano che lo sbatacchiare dell’ascensore ci riporta in superficie. Sembra non finire mai: centinaia di metri sotto terra sono lunghi da risalire, ma alla fine siamo fuori.
È ancora notte.
M’immaginavo fosse mattino, magari di mezzogiorno, per scendere al Café e mangiare una bistecca, così, bagnato fradicio e sporco da fare schifo.
Un fiasco di vino avrebbe completato il banchetto.
C’è tanta gente, attorno, ci festeggiano, ci battono le mani sulle spalle, spalancando i denti corrosi, gli occhi arrossati. Mi offrono una sigaretta. Accetto, anche se non mi piace fumare, ma stavolta quella Gauloises ha un sapore diverso e ne aspiro tutto l’aroma, pare una carezza. Un tipo ci chiede nome e numero di medaglietta: spunta i vivi, cancellandoci dai dispersi. Sono morte otto persone, otto medagliette che non torneranno più…
Un caporale si avvicina e mi tira per un braccio. Mi sussurra all’orecchio e il mondo mi crolla addosso.
«Marnetta, Caplòun, vnid sa mé!» Corro via, incurante se mi seguono o no.
Devo far presto…
VIII
Borgo Maggiore, 2 aprile 1996
Ecco, ce l’ho fatta a ricordare tutto, a rivedere la sua faccia nera, il suo sorriso, il bianco dei suoi occhi.
Mi trema la mano, mentre rimesto nella tazza del caffè latte, ormai freddo.
«E così, fu lui a salvarvi!» Mia figlia mi guarda con gli occhi lucidi, comprendendo il mio dolore.
«Testone di un ragazzo! Razulein convinse i padroni della fabbrica a tentare quell’opera assurda. C’erano le planimetrie delle gallerie appese nel capanno del direttore, e lui le conosceva bene. Aveva scavato quella vena là sotto, per quindici giorni, fino all’esaurimento. Gli ingegneri gli avevano dato una direzione e una bussola. Trenta, quaranta metri fra il suo motopécc e noi. Mi dissero che era rimasto al suo posto per dieci ore di fila, prima di crollare. Dopo tre ore di riposo era tornato nuovamente a scavare. Per lui era più facile infilarsi nella galleria e manovrare. Eppoi era molto bravo, rendeva la metà di più degli altri.»
Mi prende un groppo alla gola, che stempero bevendo un sorso. Questo caffelatte mi ricorda quell’acqua scura, e mi va di traverso.
«Alla fine del secondo giorno di scavo è scivolato giù per la galleria per una decina di metri, forse per la stanchezza, forse un cedimento, e magari non si sarebbe nemmeno fatto niente. Quel maledetto motopécc! Gli era andato dietro colpendolo in pieno petto, spaccandogli non so quante costole. Quando giunsi in infermeria era in fin di vita. Sorrise al mio arrivo, nonostante il dolore che lo lancinava. Lo baciai lieve sulla fronte, sulle guance, mormorando parole di ringraziamento e di biasimo.»
Mariola…
Era la sua fidanzata, anche loro si erano promessi di sposarsi al suo rientro. E se andava bene, se la sarebbe portata in Francia o in Belgio, a star meglio.
E adesso mi moriva fra le mani.
Mi occupo io di lei, non ti agitare…
Almeno è morto tranquillo.
«Poi, cosa avete fatto?» Teresa mi sorride, grata.
«Siamo tornati tutti a San Marino, per il suo funerale. Ci avevano assegnato un vagone solo per noi. Io, Marnetta e Caplòun l’abbiamo vegliato per tutto il viaggio, lui dentro la cassa, noi a guardare le assi inchiodate. Noi fuori, lui al nostro posto. Gli altri senza più la voglia di parlare. »
C’era anche il vecchio arciprete, a tenere la funzione al cimitero di Montalbo. Pioveva e ci siamo riparati tutti sotto il loggiato che corre attorno all’altare centrale. Io me ne stavo appoggiato a un leone di pietra, pensando che a Giuliano l’avrei immaginato così, in cielo: un leone addormentato dopo una caccia faticosa.
Vederlo calare nella fossa in mezzo metro d’acqua m’ha fatto star male: m’è parso di tornare in quella miniera allagata, di risentire il morso gelido della morte, cui solo un angelo dal muso nero mi aveva strappato.
L’ho sognato decine di volte, chiuso in quella cassa, ma come mi avvicinavo, lui prendeva la mia faccia. Non sono più tornato in Belgio, mi hanno dato un posto da cantoniere, un lavoro all’aria aperta.
Ci sarei morto, in quella miniera, se la miseria mi avesse costretto a tornare.
Lancio un lungo sospiro e guardo il cielo oltre la finestra. Pare che pioverà, finalmente, grosse nuvole scavalcano la sommità del Monte.
«Chiama la mamma, che andiamo a portare dei fiori sulla sua tomba, voglio vedere la fotografia e pregare per lui…» Mia figlia mi supplica con lo sguardo.
Mi alzo stancamente.
«Mariola?» Mi affaccio per le scale, l’ho sentita rimestare in camera.
«Ariv, Olindo…»
Mariola l’ho sposata l’anno dopo. Abbiamo unito il nostro dolore e ne abbiamo fatto una solida famiglia.
Suntina, al mio ritorno, non era là ad aspettarmi.
«Però andiamo a piedi, Teresa, per le gallerie, ho bisogno di camminare…»
Non è vero. Ho solo voglia di entrare in quei budelli, per respirare l’aria umida e guardare le pareti traslucide.
C’è un punto, a metà curva della galleria del treno più lunga, dove non si vedono i due sbocchi. Il buio è quasi assoluto, tranne per qualche bagliore che si stempera lontano, e si rischia di inciampare sulle vecchie rotaie. Quando ci vado da solo, mi fermo qualche minuto e appoggio la fronte alla parete. Socchiudo gli occhi e mi pare di sentire ancora quel pulsare rabbioso frantumare la roccia. Allora lo vedo, Razulein, lottare come un gigante contro il tempo, lui e il suo motopécc contro la montagna, le labbra serrate in un sorriso che mi è rimasto cucito dentro.
Ariv, Giuliano, eccomi…
Walter Serra