Ritorno alle mura
Sul lato sinistro della strada brecciata che conduceva alla parte bassa del paese di Monteroduni, distanti una decina di metri l’uno dall’altro, giacevano due alberi rinsecchiti. Orlando rimase stupito, quando li notò. Dieci anni prima, nello stesso luogo, svettavano due pini le cui rispettive fronde erano così rigogliose da toccarsi e mischiarsi tra loro, fino a formare un arco naturale, che dava il benvenuto o l’arrivederci a chi transitava, in auto, per Monteroduni.
Anche le campagne della Contrada dell’Eusanio apparvero a Orlando stranamente abuliche. Incolte piante sembravano condannate ad attendere, nella solitudine più nera, gli scossoni del primo freddo di stagione; le foglie di alcuni pini boccheggiavano di sete e pendevano come la lingua di un cane affamato.
Orlando proseguì la marcia su una carreggiata di logoro asfalto. Si lasciò alle spalle i campi, percorse una manciata di chilometri in blanda pendenza. Dopo una curva ad amplio raggio, ammirò le prime costruzioni del borgo, arroccate su una collina dalla fitta vegetazione. Qualche metro più avanti, la scritta “Benvenuti a Monteroduni” in diverse lingue del mondo, impressa su un cartellone giallo, lo spinse ad aumentare considerevolmente l’andatura: egli aveva fretta di arrivare nel luogo in cui aveva vissuto fino al periodo della prima maturità, prima di trasferirsi in una città metropolitana, moderna, agli antipodi di quel mondo di antiche civiltà nel quale, assieme ai suoi due bambini e alla moglie, avrebbe trascorso una parte delle proprie vacanze.
L’ultimo tratto che Orlando percorse fu un viale che a ogni metro si faceva più stretto. Accedette così alla parte vecchia del paese, quella raccolta tra le mura che si dipanavano da un grande castello, a quattro torri merlate, d’epoca normanna. L’autovettura la parcheggiò su un marciapiede sbriciolato. Sceso, rivolse lo sguardo verso uno spilungone di cemento a base esagonale, con un tetto a punta, un crocefisso su una facciata, dei mattoni separati da robuste e irregolari gettate di malta. Repentinamente, le sue pupille si arrossarono. La trecentesca Chiesa di San Biagio era stata, infatti, negli anni in cui aveva abitato a Monterotae, la visuale di ogni risveglio di Orlando. Non era il panorama più intrigante che un uomo potesse desiderare, ma quel bambino, ora uomo, si affacciava alla finestra sempre con il sorriso francobollato sul volto, in ragione del fatto che, dai vicoli vicini, risaliva il profumo di forni a legna, di pentole impregnate di fritto, di farina che, lavorata da sapienti mani, diventava crespa e pastosa come scolorina, fino a spezzettarsi in morbidi maccheroni, da estrarre dagli abissi di un pozzo d’alluminio, riempito di ragù di carne.
Per godersi in pieno, di nuovo, quel prelibato aroma, Orlando arricciò il naso e respirò profondamente.
Inaspettatamente, non percepì alcun odore, nonostante fosse domenica, giorni in cui, quando era giovane, congiunti e amici di ogni generazione si riunivano e si ingozzavano all’agape familiare, come se per una settimana avessero praticato il più rigido dei digiuni. Pensò allora, per un attimo, che la vita di città e l’alimentazione della grande distribuzione avessero annacquato il suo fiuto per i sapori autentici. Purtroppo per lui, invece, nella via chiamata “del Sole”, i fornelli erano davvero freddi. Tra i vicoli regnava il silenzio, interrotto solo dal miagolio di due gatti in amore e dal latrato di randagi che guardavano in direzione dei monti del Matese.
Orlando rimase di sasso, nel momento in cui si accorse del vuoto d’anime che lo circondava: un cassetto che avrebbe volentieri riaperto del suo armadio dei ricordi conteneva scene di gioiosa e teatrale vivacità domenicale delle vie del paese, tra massaie indaffarate in cucina e furibonde coi mariti sfaticatati, fanciulli che schiamazzavano dietro a un pallone a spicchi rossi e neri, cani che si inseguivano e si azzuffavano senza vincoli di guinzaglio, dignitosi contadini che tornavano dal lavoro, eleganti signore, fasciate da abiti di seta e sorrette da tacchi tozzi, che si spostavano verso la Chiesa.
Siccome la Messa sarebbe iniziata di lì a poco, il Monterodunese di ritorno pensò allora che, per udire almeno un pezzetto di quel frastuono esuberante e smaccato che tanto gli mancava, dovesse recarsi nel cuore del borgo. Aprì quindi frettolosamente la porta della casa che era stata sua, salutò una coppia di zii che l’abitava, depose le valigie nello sgabuzzino, appese, su un gancio che stava accanto al letto dell’adolescenza, l’orologio a cipolla che portava ovunque con sé e uscì di nuovo, tenendo per mano il più giovane della sua famiglia.
Padre e figlio salirono la rampa di scale che portava a San Biagio. Spinsero insieme la porta d’accesso alla Chiesa, che però non si aprì. Ragnatele e nidi di api sulla costruzione lasciavano intendere che, in quel luogo Sacro, non si celebrassero più funzioni e non si recitassero più rosari da tempo immemore. I due proseguirono allora verso la piazza centrale, ove stava la Chiesa madre, attraversando un’angusta strada di ciottolato, che solcava due ali di case in muratura. A ogni passo, nell’animo del pargolo, abituato alle vaste e rumorose carreggiate di città, trasalì inquietudine.
Portoni ad arco che riportavano date di costruzione del diciottesimo e diciannovesimo secolo, finestre basse che lasciavano filtrare solo il pacato bisbiglìo di un televisore sintonizzato sul canale religioso, un paio di calzini scuri che gocciolavano da un tubicino di plastica adibito ad attaccapanni, apparivano, nella sua mente innocente, sintomatici di una civiltà che giaceva ormai sul filo del crepuscolo, in attesa che la notte calasse definitivamente a eclissarla, per non farla rinascere mai più.
Stringendo il padre con tutta la forza che aveva nelle sue braccia gentili, il piccolo chiese di andare ove ci fosse più aria per respirare. Orlando promise al figlio che presto gli avrebbe fatto scoprire un luogo ideale per coltivare amicizie: la piazza Sant’Angelo. Mentre si avvicinavano alla stessa, anticipò che si trattava di uno spiazzo circolare di mattoni, che spartiva il Municipio dalla Chiesa Madre, e che ospitava partite di calcio che cominciavano di primo mattino e proseguivano a oltranza, senza vincoli di cronometro, fino a quando le ginocchia degli atleti non diventavano madide di sangue e le maglie lacerate di trattenute e ruzzoloni. Due lampioni e due mattoni facevano da porte, una finestrella sulla parete della Chiesa fungeva da bersaglio per i calci di precisione.
Purtroppo, l’unico pallone visibile agli occhi dei due, quando si fermarono al centro dello spiazzo, giaceva floscio tra una ringhiera arrugginita e una finestra chiusa, al secondo piano di un’abitazione con fulmini di intonaco.
<<Ma che razza di posto è questo, papà? Non c’è anima che l’abiti>>, si lamentò allora il piccolo e chiese di tornare a casa. Per consolarlo, il grande pensò di prenderlo per la gola, portandolo al bar del Bersagliere a consumare quella che non aveva timore di definire la più gustosa granita al mandarino che ci fosse, una bevanda della quale narrava le virtù ogni volta che, in qualsiasi angolo del mondo, assaggiava qualcosa di fresco.
Padre e figlio aumentarono la frequenza dei passi, per raggiungere in fretta il locale. Quando però si avvide dell’insegna “Bar del Bersagliere”, Orlando fu costretto a rallentare: il cuore gli pulsava con tanta vivacità in gola che temette di stramazzare a terra per un malanno, figlio della trepidazione. Si trascinò così, a passo felpato, all’ingresso di un posto tanto pittoresco quanto bizzarro, che più di ogni altro aveva amato nei suoi trascorsi a Monteroduni. Prima di entrarvi, si sforzò di ricordarne le caratteristiche peculiari, per capire se la scure del tempo le avesse alterate o meno. Gli sovvenne che il Bar si componeva di due stanze, separate da una tramezzatura che sembrava riprodurre gli incastri del gioco del tetris. Nella prima, trovavano posto il bancone di alluminio e acciaio, tre mensole, il frigorifero dei gelati e un mobile di faggio, nei cui scompartimenti campeggiavano biscotti che ignoravano il significato della dicitura “da consumarsi preferibilmente entro…”, stampata sulle confezioni, giacché nessuno si era mai interessato al loro acquisto. La seconda stanza era, invece, riservata ai passatempi. Dominava, in essa, un gran biliardo di mogano che nelle sere più fredde diventava quasi impossibile vedere da lontano per via della nuvola di fumo di Nazionali senza filtro che gli si accumulava intorno e, se l’umidità superava il limite di guardia, scaricava pure una lieve pioggerellina. Intorno, stavano cinque tavoli verdi di colori grigio, riservati ai giuochi di carte e d’osteria, e due flipper. Quando l’afflusso di avventori oltrepassava la capienza tollerabile, accadeva che il virtuoso della carambola invadesse, col suo posteriore siliconato di colesterolo, lo spazio sopra ai tavoli da gioco e mischiasse le carte già fuori dal mazzo; allo stesso modo, un mammasantissima del tressette, sbattendo un asso per la gioia di aver fatto undici punti decisivi, poteva assestare un involontario colpo alla base della stecca e danneggiare l’imbucata di una otto al bersaglio centrale del biliardo. Focolai di rissa, perciò, facevano da coreografia necessaria alle giornate, specie se festive: deviare uno shot di sponda da tramandare ai posteri, così come impedire il ratto dell’asso di tressette, costituivano mossa oltremodo oltraggiosa verso chiunque la subisse.
A evitare, vivaddio, che la tensione sfociasse in tafferugli e decimasse periodicamente la flotta di avventori, provvedeva il grande orologio che dominava la parete sinistra della sala dei giochi. I suoi rintocchi disciplinavano le partite di biliardo, le quali, da regolamento interno del Bersagliere, non potevano durare oltre trenta minuti. Perdersi in zuffe avrebbe tolto spazi preziosi alla contesa.
<<L’orologio, ah quell’orologio!>>, sospirò Orlando e spiegò al figlio che l’orologio, ah l’orologio, rappresentava il totem del bar, un oggetto che veniva omaggiato con un inchino da chiunque lo mirasse. Gli anziani, al suo cospetto, si toccavano addirittura il bavero del cappello in segno di rispetto, mentre i distratti che involontariamente urtavano la sua cassa, gli porgevano scuse con voce sommessa.
Tanta stima derivava dalla fedeltà incondizionata dell’orologio al Bersagliere e dalle sue peculiari virtù. Innanzitutto, dal primo giorno di apertura, il segnatempo aveva cadenzato le attività del bar, senza mai lamentarsi o avanzare istanza di cambio batteria. Lo stesso, inoltre, attraeva curiosi, studiosi, rigattieri, collezionisti di reliquie, servizi segreti, più prosaicamente clienti, da tutta Italia, in ragione del fatto che rappresentava un unicum nel mondo occidentale, il solo prodotto che aveva ballato sulla cortina di ferro nell’immediato dopoguerra, assemblato com’era stato nella Repubblica Popolare di Corea e con vano batterie fabbricato nella Germania occidentale. Dal punto di vista architettonico, lo zoccolo duro del Bersagliere aveva forma di grande uovo alla coque, giacché faceva la réclame a un liquore tonificante e confortante. Il suo colore, in origine, secondo le memorie dei decani del bancone, era albume uovo sodo; la mutazione in tuorlo fu merito del catrame di milioni di antiche bionde. Anche le lancette avevano mutato inesorabilmente forma nel corso degli anni. Da perfettamente rettangolari, si erano divelte e piegate, fino a formare ali di poiana, per via delle continue sollecitazioni di spregevoli giocatori di stecca, che le spostavano indietro per guadagnare minuti preziosi di gioco. Il barista, che soleva appisolarsi se il locale latitava di avventori, raramente si accorgeva dell’inganno. Poi, però, anche a distanza di mesi, apriva un quadernone che teneva nel cassetto dei gessetti del biliardo, faceva due conti a mente, approssimava per estremo eccesso e salassava un caffè e una carambola con importo da cena in ristorante stellato. A chi gli chiedeva spiegazioni sul sovraccarico economico, il Bersagliere rispondeva con minacce di decreti ingiuntivi e, soprattutto, di sospensione ab aeterno dalle attività ricreative del locale. Come il barista riuscisse a stimare il danno subìto e a individuare i truffaldini, a nessuno era dato saperlo. Si azzardavano soltanto ipotesi. Forse un cliente faceva da spia, forse una telecamera registrava le attività del locale da una buca ad angolo o da un pacco di biscotti “da consumarsi preferibilmente entro…”, forse un vecchio mangianastri ad alta definizione conservava le voci della sala. I più fantasiosi sostenevano addirittura che il totem avesse un meccanismo di funzionamento futuristico e sperimentale in tempi di guerra fredda, in grado di registrare i dati di gioco e metterli a disposizione del suo mentore.
<<Dovrai inchinarti anche tu all’orologio, eh, e salutare con riverenza il Bersagliere, uomo che, per la mia generazione, non è stato un semplice barista, ma un amico, un signore per bene, un nonno gentile, appassionato del lavoro, un mirabile esempio di vita >>, raccomandò, un attimo prima di entrare, il padre al figlio. Poi, aprì la porta del bar. Apparve un enorme ed esteso ammasso di muraglie bianche e calcinacci.
Orlando, assorto come in preghiera, rimase a contemplare le macerie del bar per lunghi minuti, fino a che non sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Era quella dello zio, il quale comunicò: <<Il bar non c’è più. Da tre anni, ormai>>.
Fu questa una dura novella per il cittadino ritrovato, che pianse d’amarezza. Guardando in direzione del castello normanno, che immaginò ormai ridotto a una fatiscente cattedrale nel deserto, singhiozzò di rabbia: <<Che fine ha fatto il mio bel borgo?>> e, per una volta, strinse lui la grande mano verso la piccola, come fosse un fanciullo che cercava conforto dopo un brutto sogno. Altre lacrime, stavolta di pura commozione, Orlando versò davanti alle case dei nonni e degli altri parenti di cui gli restavano solo le fotografie nel portafoglio.
Orlando riaprì la porta di casa che era mezzogiorno. I suoi zii stavano apparecchiando.
Dopo il pranzo, la famiglia riunita dormì di stanchezza. Mise la testa fuori dall’uscio solo di sera, per una visita al borgo. Il papà aveva un aneddoto da raccontare per ogni casa, ogni piazza, ogni fontana, ogni persona che incontrava.
Il dietrofront scattò quando una bava di vento solleticò il collo del pivellino della ciurma. Solo Orlando rimase in strada. Aveva un appuntamento con un vecchio amico, uno dei pochi che non si era ancora arreso alla comodità della vicina città e viveva in quel borgo che, in epoche gloriose, conteneva più di tremila anime. I due percorsero la strada extramuraria, chiamata “Nuova via”, una salita ogni metro più arcigna e dalla quale, a ogni tornante, le case diventavano meno visibili, sovrastate dalle luci artificiali e dal bagliore della luna. Dall’alto, Monteroduni apparve finalmente come Orlando l’aveva sempre descritto ai figli: un’imponente colomba pasquale, avvolta da uno scialle dorato, con le quattro torri del castello che la decoravano sul guscio. <<Il panorama, almeno quello, non è cambiato>>, disse il cittadino di ritorno tra sé e sé e prese la via di casa. In soggiorno, si accese una sigaretta e si affacciò alla finestra. Indugiò a guardare verso un terrapieno dove un suo vecchio amico stava sempre appollaiato su una sedia di legno e vimini.
Staccò gli occhi solo dopo l’ultima boccata di fumo e salì al piano delle camere. Invece di infilarsi nel letto matrimoniale e regalare alla moglie e ai figli il consueto abbraccio della buonanotte, Orlando preferì il suo giaciglio di gioventù.
Prima di chiudere gli occhi, il Monterodunese ritrovato diede la carica al suo grande orologio a cipolla e si disse che avrebbe ronfato fino a che, al più tardi all’alba, quella che lui chiamava “la Regina del vicolo” non avrebbe inveito contro il marito poltrone, dando involontariamente la sveglia a tutto il rione. Ma subito gli sovvenne che la Signora Gina non c’era più, viveva lontana, coi figli. Rimaneva solo lo scheletro tumefatto della sua abitazione, da cui mai si sarebbe più dipanato odore di pizzette fritte e pollastri galleggianti nell’olio, come in passato accadeva quasi ogni giorno, specie d’estate.
Nonostante la stanchezza, Orlando non rovinò lieve tra le braccia a Morfeo.
In meno di ventiquattro ore, aveva ingoiato troppi bocconi amari in quel fazzoletto di rocciosa umanità che non immaginava calato verso l’oblio e del quale, pensò, presto nessuno avrebbe più udito novella. Dopo dieci minuti senza sonno, si rimise nuovamente in piedi e tornò in soggiorno. Da lì, raggiunse uno scantinato esterno all’abitazione. Si fece largo tra tocchi acerbi di legna, fiaschi senza vino, damigiane vuote d’olio, scavò tra vecchie cartacce e libri consunti, scansò taccuini, fino a che non ne trovò uno di colore verde a righe strette e coi bordi gialli: era quello su cui aveva scritto e rielaborato frammenti di storie, frammenti di memorie, direttamente vissute o apprese negli anni trascorsi tra le mura.
Appena risalito in camera, Orlando iniziò a leggere il suo vecchio quaderno. Dopo qualche minuto, sentì finalmente le fauci del sonno azzannargli le tempie. Sbadigliò e chiuse gli occhi. Crollò di un sonno profondo e animato da un sogno. Dopo una manciata di minuti, però, si scosse nuovamente: l’orologio a cipolla aveva battuto la mezzanotte.
Seppur un po’ frastornato dal subitaneo risveglio, Orlando corse col pensiero corse agli attimi di riposo che si era goduto. Aveva sognato una storia accennata negli appunti ritrovati, una storia ormai d’epoca, “vintage” come dice chi ha paura del tempo, ambientata negli anni in cui Monteroduni era una comunità operosa e brillante, popolata da persone semplici, sincere e un po’ naif. Se ci fosse stato qualcuno ad ascoltarlo, egli non avrebbe avuto difficoltà a narrarla in maniera amplia, con dovizia di particolari, come se l’avesse vissuta o udita qualche ora prima, come se la distanza temporale fosse un ponte leggero, incapace di reggere la forza dei ricordi più belli. Orlando capì allora che le persone, i luoghi, le abitudini che hanno accompagnato le stagioni più spensierate del nostro viaggio sulla terra, quelle della fanciullezza innocente, dell’adolescenza scanzonata, delle prime responsabilità, resistono allo scorrere del tempo, dell’età adulta, delle necessità incipienti dei giorni e della realtà che spesso siamo costretti a patire, invece che a vivere; costituiscono un contorno dolce di un piatto di salata malinconia e raccontarne è agevole anche per chi è usualmente parco di parole.
Orlando volle continuare a sfogliare il taccuino. Lo aprì su un’altra pagina. Poi, richiuse gli occhi, pensando a ciò che aveva appena letto.
Sperava che, come per magia, il pensiero diventasse nuovamente sogno, fino a un nuovo rintocco del grande orologio a cipolla, fino a un nuovo risveglio, fino a una nuova pagina, fino a che non avrebbe sfogliato tutte le pagine, fino a che non sarebbe arrivata l’alba del nuovo giorno, fino a che non avrebbe incontrato qualcuno a cui narrare ciò che aveva appuntato su quel taccuino, riempito negli anni più lieti della sua ancora giovane esistenza, vissuti in un piccolo borgo di collina, chiamato Monteroduni.
Carmine Tedeschi