Totò interpreta Umberto Pennazzuto, detto “Infortunio”, mentre Anna Magnani è Gioia Fabricotti, detta “Tortorella”: la pellicola “Risate di gioia” del 1960, diretta da Mario Monicelli, è ricordata come la rara occasione in cui i due grandi interpreti del cinema italiano del dopoguerra abbiano potuto lavorare insieme. Umberto vive di espedienti e di truffe assicurative mentre Gioia è un’attrice in cerca di successo. I due si imbattono in un ladro di professione, Lello, che vuole usarli per intrufolarsi in vari cenoni di capodanno e derubare così i convenuti. Insomma l’occasione fa l’uomo ladro anche perché, per dirla con le parole di Alberto Moravia che ha ideato il soggetto del film, «trovarsi senza soldi in un giorno qualsiasi è male, ma a capodanno è peggio».
La scena clou, quella della mezzanotte, vede Gioia lasciata da Umberto e Lello su un vagone della metropolitana diretta al capolinea, in compagnia dei pochi passeggeri rimasti e dei conducenti che brindano con bottiglia e lenticchie sul treno in corsa. «Tu guarda dove dovevo finire l’anno: roba da matti», è l’amaro commento di Gioia mentre i suoi due “amici” sono ormai in strada alle prese coi petardi e con il consueto – a quei tempi – lancio di oggetti vecchi dalle finestre. I vizi consumistici degli italiani negli anni del “boom economico” divengono insomma oggetto di sfottò da parte delle macchine da presa.
Seguirà il genio fantozziano, diretto da Luciano Salce nel 1975, quello in grado di cogliere, quasi con impressionistica pennellata, il tratto di un ceto medio impiegatizio alle prese con la monotonia della routine quotidiana e con l’isterica rincorsa alla carriera e al cartellino da timbrare contro il tempo. Ed è proprio il fattore tempo a rincorrere, come fosse un’ineluttabile nemesi, la famiglia del ragionier Ugo Fantozzi – magistralmente interpretato dall’intramontabile Paolo Villaggio – anche durante il veglione di capodanno organizzato in una sorta di scantinato glaciale dal collega d’ufficio Filini (Gigi Reder). Dunque l’orchestra, poiché impegnata altrove, accelera i tempi manomettendo l’orologio della sala per far credere ai commensali che è già mezzanotte: «alle 10.30 scarse, finita la cena, il maestro Canello, che aveva un altro impegno in un altro veglione, barò bassamente annunciando al microfono che mancavano tre minuti alla mezzanotte», spiega la voce narrante di Fantozzi dopo che lo stesso era stato più volte oggetto degli scivoloni e degli incidenti di percorso del solito e sbadato cameriere, che aveva così trasformato la giacca dello sfigato ragioniere in una poltiglia di pietanze varie. Anche il tentativo di Fantozzi di brindare con la signorina Silvani (Anna Mazzamauro) si tramuta nel consueto flop.
Quindi l’apice della tinta fantozziana si celebra all’uscita dal locale, alla mezzanotte stavolta reale, quando la città esplode in fuochi d’artificio e – come nel film precedente – nel lancio di oggetti vecchi dalle finestre: un elettrodomestico colpisce la malcapitata “Bianchina” del ragioniere.
Gli anni Ottanta sono invece quelli del nascente e campanilistico divario tra nord e sud, in chiave naturalmente goliardica e comica; è indubbio che la componente calcistica nostrana abbia giocato un ruolo forte, se non altro perché in quegli anni la Roma e il Napoli riescono a contrastare lo storico strapotere delle squadre del nord.
Il post cenone della famiglia Covelli, nel primo e inimitabile “Vacanze di Natale” diretto dai fratelli Vanzina nel 1983, è scandito dal dilemma del secolo posto dal tifoso giallorosso Luca Covelli alla ragazza, con un sottofondo tutt’altro casuale di “Grazie Roma”: «Secondo te dove lo passa il capodanno Toninho Cerezo? Secondo me dorme perché è un professionista». Al rientro in casa l’avvocato Giovanni Covelli (Riccardo Garrone) e la moglie trovano il figlio Luca già a letto, un po’ come il centrocampista romanista Cerezo, mentre l’altro figlio Roberto (Christian De Sica) viene beccato sotto le coperte insieme al maestro di sci Zartolin. A quel punto Roberto non può fare a meno di confessare ai genitori di essere bisessuale tra le urla di papà e mamma, concludendo questa scena madre con l’epico lancio della mutanda all’imbarazzatissimo Zartolin farfugliante come un mantra «che sputtanamento».
Tra il serio e il faceto quest’ultima parte del film, toccando un tema per nulla banale, smaschera la finta ipocrisia della società borghese dell’epoca. «Mamma il mondo va avanti, tu sei rimasta agli anni Cinquanta. E poi la colpa è vostra: m’avete fatto viaggiare, m’avete mandato nei collegi svizzeri ed ecco che adesso mi trovate a letto con Zartolin».
Questa breve carrellata si conclude con il regalo di fine millennio elargito dal Nino D’Angelo tutto “anema e core” in Vacanze di Natale 2000: una poesia recitata rigorosamente in napoletano dal palco, durante il concerto per il veglione, e incentrata sul tema “ricchi contro poveri”. Essa riprende un topos tipico della saga dei cinepanettoni e sovrapponibile a quello “nord contro sud”.
Qui viene ancora una volta messa in ridicolo con arguzia una certa società, che ruota attorno ad un atavico e teatrale scontro: quello tra apparire ed essere. «Tu che ne sai; tu che sei ricca e senz’anima, tu che hai potuto volare da un cielo facile ci vedi tutti così: persone inutili. Noi non abbiamo niente, per noi domani è sempre come ieri: fa freddo quando piove, fa caldo d’estate. Però non ce la prendiamo con nessuno, tanto nessuno poi ci ascolta. E invece tu; tu che cambi un vestito al giorno, tu che mangi la carne di primo taglio, mi dici che fa schifo questa vita? Guardati bene attorno: non bestemmiare che se siamo noi a dire che la vita è bella, vuol dire che la vita è bella davvero. Sennò, non ci creava il Padreterno».
Buon 2019 a tutti voi lettori di Zoomma.
Simone Sperduto