Rama
di Renata Rusca Zargar
Racconto vincitore del Primo Premio al Concorso Letterario Internazionale IL CONVIVIO di Giardini Naxos, Taormina nel 2003.
Rama era fiero del suo nuovo lavoro. Per tutto il giorno, dalle dieci del mattino alle sette di sera, vestito di un bel completo grigio con le bande rosse e il berretto duro in testa, apriva e chiudeva le porte al passaggio dei clienti del “Pandit Shop”, uno splendido negozio di abbigliamento maschile della città di Delhi.
Gli avevano insegnato –ma egli lo sapeva già prima- che, all’avvicinarsi di un probabile cliente sulla popolosa Road, egli doveva inchinarsi e spalancare la porta di vetro, introducendolo nel fresco climatizzato del locale; e così pure quando gli avventori stavano per uscire, carichi magari di sacchetti di plastica verdi con il nome “Pandit Shop” scritto in nero. Veramente, Rama non sapeva leggere, ma aveva subito capito che “Pandit Shop” era proprio ciò che c’era scritto.
Poi, dopo le venti, bisognava ripulire il pavimento, inginocchiati per terra a passare lo straccio perché tutto ritornasse lucido e in ordine per il giorno dopo. Chissà, pensava Rama, forse, tra qualche tempo, potrò diventare commesso, porgere ossequioso gli indumenti da indossare, infilare nei sacchetti ciò che viene scelto, consegnare tutto alla cassa e, la sera, riordinare negli scaffali, invece di pulire il pavimento. Ah, i sogni! Eppure qualche volta si avverano, come era successo proprio a lui.
Rama, infatti, aveva più o meno otto anni (di preciso non lo sapeva neppure la mamma) e, da almeno tre, passava con i fratellini davanti a quello splendido negozio, perché abitava nelle baracche che si trovavano proprio al di là della zona centrale della città. Ogni volta, guardava il vetro trasparente e pulito, le luci, la merce ordinata negli scaffali e, subito dopo, quei ragazzi che aprivano e chiudevano le porte, così belli nelle loro divise! Rama era, invece, vestito di stracci ma, con i soldi che guadagnava –poche rupie al mese- vendendo il tè, aiutava la famiglia a vivere.
Un giorno, aveva incontrato il padrone dello splendido negozio per la strada e, rosso come un peperoncino dalla vergogna, gli aveva chiesto di prenderlo a lavorare. Shri Balu non gli aveva neppure risposto e, con la sua pancia prominente, aveva proseguito il cammino. Ma Rama gliel’aveva chiesto ancora e ancora, ogni volta che lo incontrava per caso, anche se non riceveva mai nessuna risposta. Tutte le mattine, dunque, prima di prendere servizio al banchetto dove vendeva il tè ai passanti, puntualmente si fermava ad ammirare incantato quelle belle vetrine luminose lucidate con gli stracci puliti dei boy nelle loro uniformi impeccabili. Il banchetto, invece, constava di un carrettino con un fornello e, sopra, due pentoloni grigi con il fondo annerito dal fuoco che contenevano l’acqua bollente e il latte. Niente a che vedere, insomma, con quel piccolo Paradiso che si apriva sulla lussuosa Chandni Chowk –piazza della Luna-!
Ma un giorno il miracolo era avvenuto.
Per qualche motivo, uno dei ragazzi con l’incarico di aprire e chiudere le porte non si era presentato al lavoro, proprio in una giornata di soldes –saldi- in cui si prevedeva un’enorme ressa di clienti.
Rama era là davanti, come tutte le mattine, con la bocca aperta ad ammirare il locale e gli indumenti, e il padrone aveva detto sbrigativamente a uno dei commessi di prenderlo, ripulirlo per bene, vestirlo con l’uniforme e insegnargli ad aprire e chiudere la porta d’ingresso.
-Ma fate presto! -aveva aggiunto – Tra un’ora qui ci sarà tanta gente da non potersi girare.-
Rama aveva capito subito ciò che doveva fare, anche perché l’aveva osservato tante volte. Quando sbirciava nello specchio del locale (ah, veramente, i sogni si avverano!), pettinato, pulito, senza la solita canottiera stracciata ma con la bella giacca grigia a bordi rossi, nel fresco climatizzato di quel luogo meraviglioso, non credeva ai suoi occhi!
E poi, le novecento rupie al mese avrebbero permesso a tutta la famiglia di mangiare un po’ di riso –e forse anche qualche verdura con cui condirlo- due volte al giorno. Eh sì, perché il ragazzo che si era assentato non era mai tornato al lavoro e il padrone, soddisfatto del suo comportamento impeccabile, l’aveva tenuto volentieri (è proprio vero, dunque, che i sogni si avverano!).
Un pomeriggio di relativa calma, mentre molti, per il caldo stancante, non si erano ancora avventurati a far shopping, un signore di media età, molto distinto, si attardava, invece, tra gli scaffali. Ogni tanto, mentre chiacchierava con il commesso che lo serviva ossequioso, lanciava a Rama delle curiose occhiate.
Infine, l’uomo aveva comprato diversi capi di vestiario e aveva chiesto che il bambino che si trovava alla porta lo accompagnasse in albergo con i pacchi. Il facoltoso cliente era, infatti, straniero e si sapeva che veniva almeno una volta l’anno in India, proveniente da un paese europeo. Non potendo negargli quel favore, nonostante si avvicinasse l’ora di punta dello shopping e si prevedesse un affollamento di clienti, a Rama era stato affidato l’incarico di accompagnarlo e di tornare il più presto possibile.
L’albergo non era molto lontano, ma agli occhi incantati di Rama si era presentato qualcosa che non conosceva: nella hall vi erano magnifiche poltrone ricoperte di velluto rosso, dal soffitto pendevano lampadari sfarzosi che scintillavano alla luce con vivaci bagliori, in terra, il pavimento era ricoperto di soffice moquette blu.
Rama non era mai entrato in un posto simile e non riusciva a nascondere lo stupore. L’uomo, poi, che gli aveva detto di chiamarsi Antonio, gli aveva offerto un enorme gelato guarnito di fragoline e infine lo aveva rimandato al negozio.
Il cuore di Rama tremava dall’emozione: chissà se un giorno, quando sarebbe stato un po’ più grande, avrebbe potuto anch’egli lavorare in un posto simile, ancora più splendido di quanto non fosse già il negozio!
L’uomo era tornato a fare acquisti dopo un paio di giorni: non appena l’aveva visto, il cuore di Rama si era messo a battere più forte. Chissà se si sarebbe fatto accompagnare all’albergo ancora da lui! Distrattamente, o almeno così sembrava, ogni tanto il bambino lo sbirciava per vedere se acquistasse molto e avesse bisogno di un accompagnatore. Ma quella volta Antonio non sembrava soddisfatto: di qualcosa non c’era la misura, di un altro capo non c’era il colore adatto… insomma, le compere non andavano a buon fine e se n’era andato via, acquistando solo una sciarpetta. Rama c’era rimasto male: niente passeggiata all’albergo dove, magari, avrebbe potuto, chissà, gustare un altro gelato e soprattutto contemplare tutte le meraviglie che si trovavano là!
Alla fine della giornata, prima di tornare a casa, non aveva potuto fare a meno di passare davanti all’hotel. Antonio, casualmente, in quel momento, si trovava proprio in strada là davanti.
-Namasté- aveva salutato l’uomo e subito l’aveva invitato all’interno per prendere un gelato.
Rama, ammaliato e felice, lo aveva seguito.
-Anzi, guarda, Rama,-aveva aggiunto Antonio- il gelato lo andremo ad assaporare nella mia camera, così potrai sederti, riposare e raccontarmi un po’ della tua vita.-
La porta della stanza –238- si apriva su di uno spazio ordinato e pulito dove si trovavano un letto matrimoniale dal copriletto ricamato di seta di Benares, due comodini con la loro abat-jour lavorata in sottili strisce di bambù e pendagli colorati, un divano di velluto azzurro, un tavolino di legno intarsiato con la cartella dei fogli da scrivere, la penna e due cassettini per riporre chissà quali segreti. A lato del tavolino, c’era il frigorifero per tenere al fresco (faceva tanto caldo a Delhi!) l’acqua e le bibite, poi un altro tavolo per gli eventuali pasti. Rama osservava ammutolito tutto quanto e lo paragonava con la baracca in cui viveva, senza letto né altri mobili. Là, infatti, in un angolo c’era il fornello per cucinare e in un altro gli stracci che si stendevano a terra la notte per dormire…
Un cameriere in livrea verde aveva portato due enormi coppe di gelato misto: alla frutta, al cioccolato, alla nocciola e torroncino. Antonio e Rama lo gustavano in un silenzio interrotto solo da qualche domanda dell’uomo.
-E così, tua madre lava i panni per qualche famiglia. Certo, guadagnerà poco. E tuo padre?
-Mio padre è morto qualche anno fa. Ha avuto un incidente sul lavoro. Siamo rimasti soli.
-Quanti siete?-
-Cinque. Io sono il più grande, poi c’è mia sorella e un altro fratello. Con noi vive anche la madre di mio padre che è vecchia e non riesce più a camminare. Però aiuta la mamma a stirare i panni.
-Quanto guadagni al Pandit Shop? Scommetto che prendi poche rupie al mese…
-No, il salario è migliore di quello che avevo come venditore di tè. Mi danno novecento rupie al mese.
-Insomma, sarebbero venti euro, una sciocchezza! Vieni, ti faccio vedere il bagno.-
La stanzetta da bagno non era nulla di speciale (così come l’albergo in genere, che era solo di terza categoria) ma Rama non ne aveva mai vista una in vita sua, se non lo sgabuzzino sporco del negozio (riservato solo a chi lavorava là e non certo ai clienti!). A casa sua i bisogni si andavano a fare in strada, in un angolo dietro la baracca. Lì, invece, c’era una grande vasca da bagno rosa, i rubinetti della doccia, il lavabo con uno specchio grande, dove ci si poteva vedere interamente, e poi c’erano le confezioni monodose di shampoo e di sapone fasciate con le loro belle carte colorate…
-Puoi provare il sapone, se ti piace tanto. Anzi, potresti fare la doccia. Vedi, di lassù scende l’acqua calda, è bellissimo, ti puoi insaponare con questo sapone morbido e farti la schiuma nei capelli…-
Intanto che Antonio diceva così, le sue lunghe mani toglievano la giacchetta grigia con le bande rosse (il cappello duro era già stato posato prima su di una sedia) e la camicia bianca a Rama.
Il bambino avrebbe voluto sì provare tutte quelle delizie, ma sperava che l’uomo uscisse dalla stanza e lo lasciasse solo. Invece, Antonio, come un vecchio amico, continuava a spogliarlo: i calzoni anch’essi con le eleganti bande rosse, le calze bianche (le scarpe, come d’uso, Rama le aveva lasciate fuori della porta), le mutande.
Rama era rimasto nudo, mentre l’acqua tiepida scorreva dal distributore in alto e Antonio lo insaponava fregando tutto il suo corpicino magro… Poi lo aveva sciacquato, sempre accarezzandolo dappertutto. Dalla fronte di Antonio gocciolava il sudore ed egli era visibilmente agitato.
-Aspetta, -gli aveva detto- stai ancora un po’ sotto l’acqua, è fantastico vero? Non l’avevi mai fatta prima una doccia così! Mentre tu te ne stai sotto l’acqua tiepida, ti farò qualche fotografia. –
E preso l’apparecchio fotografico, aveva iniziato a scattare. Il flash mandava lampi nell’aria umida della stanza. Rama conosceva le macchine fotografiche, per averle viste nelle mani di numerosi clienti al negozio, ma nessuno lo aveva mai ripreso! Certo, gli sarebbe piaciuto vedere la sua immagine su quei pezzi di carta che uscivano, poi, dopo aver fatto le foto! Ma non così. Lo specchio gli rimandava la sua scarna immagine senza vestiti, nessun altro gli aveva mai mostrato una sua foto senza vestiti addosso!
Antonio, poi, era sempre più agitato mentre gli girava intorno per riprenderlo da ogni lato. Infine, gli aveva detto di rivestirsi in fretta, gli aveva messo in mano una banconota da cento rupie –l’equivalente di due euro, più o meno- e l’aveva mandato via.
Rama non aveva detto nulla a nessuno di quanto gli era successo. Anche se non capiva bene perché, provava una profonda vergogna. La notte non era riuscito a prendere sonno. Ritornava nella sua mente il viso rosso di Antonio mentre lo guardava e il corpo nudo rimandato dallo specchio… Sì, anche i sadu usavano andare a bagnarsi nudi nelle acque del fiume sacro, ma gli sembrava che tutto ciò avesse un significato diverso. Poi, la stanchezza lo aveva vinto mentre pensava che, forse, era un uso degli stranieri –certamente c’erano tante cose che lui non conosceva e non capiva- e che la mamma, con le cento rupie extra avrebbe potuto comprare i libri per il figlio più piccolo e, almeno lui, mandarlo a scuola.
Il lavoro del giorno dopo al negozio aveva riassorbito completamente la sua attenzione e solo a sera, sul suo giaciglio di stracci, a terra, nella baracca, vicino al corpo della mamma e della nonna, della sorella e del fratello, aveva ricordato con bruciante vergogna se stesso che si lavava dinanzi a un estraneo che lo guardava con troppo interesse.
Erano passati due o tre giorni e lo straniero era tornato al negozio in compagnia di amici. Avevano acquistato qualcosa, impiegando molto tempo nella scelta, poi erano andati via e nessuno gli aveva chiesto di accompagnarli.
-Meno male!- pensava Rama – Forse non mi chiameranno più e questa storia sarà finita.-
La sera, però, alla fine del lavoro, quando egli stava tornando a casa, aveva scorto Antonio che, con una faccia allegra e scherzosa, l’aveva chiamato:
-Namastè, Rama. Come stai?- intanto aveva preso la sua manina di bimbo tra le sue grandi di uomo – Vieni, ti porto al mio albergo perché voglio che tu mangi con me.-
Rama, in fondo, era contento. Mangiare in quel posto meraviglioso, chissà che cose buone ci sarebbero state! E poi, forse lo straniero non gli avrebbe fatto più fotografie né gli avrebbe chiesto di fare la doccia.
Infatti, giunti in camera, non si parlò di foto né del bagno. Il cameriere, elegantissimo nella sua livrea verde, aveva apparecchiato sul tavolo con diversi cibi: panir pakora, samosa, tandoori chicken.
Rama era entusiasta, raramente aveva mangiato panir, formaggio, nella sua vita e mai dall’aspetto così appetitoso, ben fritto in olio di semi, come pure erano ottimi gli altri cibi, il pollo al forno, il lassie da bere e l’enorme coppa di gelato che concludeva il tutto. Quando Rama aveva iniziato a mangiare con le mani, come faceva sempre, aveva notato con curiosità che Antonio si serviva di attrezzi, le posate, con i quali portava gli alimenti alla bocca senza toccarli. Rama sapeva già che alcuni usavano tali oggetti e conosceva bene i cucchiaini, che aveva adoperato quando serviva il tè al banchetto, ma non aveva mai visto le forchette! Eh, già, gli stranieri facevano cose diverse dalle loro.
Antonio sembrava tranquillo mentre chiacchierava raccontando delle bellezze del suo paese, anzi, aveva detto a Rama che, forse, quando fosse stato più grande, se la loro amicizia fosse continuata, l’avrebbe portato là con sé.
-La nostra è una bella amicizia, non è vero?
-Sì- aveva assentito Rama con entusiasmo.
-Sono stanco.- aveva detto poi Antonio –Vorrei riposarmi un po’ sul letto. Anzi, vieni anche tu. Ci riposiamo qualche minuto e poi, magari, prendiamo un altro gelato.-
Antonio aveva scostato il copriletto e si era sdraiato sulle lenzuola candide di bucato. Rama, un po’ timoroso, era rimasto sulla sedia ma, poi, data l’insistenza dell’amico, l’aveva raggiunto. Antonio si era spogliato ed era rimasto in camicia e mutande.
-Liberati anche tu dell’uniforme, ti sentirai più libero.- e velocemente aveva iniziato ad aprirgli i bottoni, a slacciare la cintura, a togliergli tutto quanto aveva indosso. Intanto lo accarezzava con mani rapaci. Rama aveva cercato di divincolarsi ma non era servito a nulla.
I minuti erano passati molto lentamente, le lenzuola candide erano ora macchiate di sangue e Antonio, sazio, si era addormentato.
Rama non capiva bene ciò che fosse successo: il dolore e lo schifo avevano invaso le sue membra.
In silenzio si era ripulito, rivestito, e stava per allontanarsi, quando Antonio si era svegliato e gli aveva allungato due banconote da cento rupie: -Non dire nulla a nessuno della nostra amicizia e vedrai che non te ne pentirai. Ma guai se parli, gli altri non potrebbero capire e ti metterebbero in prigione, ricordati, in prigione! Non vedresti più tua madre, tua nonna, tua sorella e tuo fratello.-
Le lacrime pungevano gli occhi di Rama mentre tornava a casa. Si sentiva sporco, colpevole. La vergogna lo bruciava e, quando aveva dato alla madre le rupie, così orribilmente guadagnate, ed ella l’aveva abbracciato contenta, Rama l’aveva allontanata da sé con malagrazia, quasi a non volerle attaccare qualche malattia contagiosa.
-Sei stanco, piccolo mio. -gli aveva detto lei.- Lo vedo dai tuoi occhi. Avrai lavorato più del solito, se il padrone ti ha dato questo aumento e sei tornato a casa così tardi. Vieni, puoi mangiare la cena che ti ho tenuto in caldo.-
Rama non aveva voluto mangiare nulla e si era accoccolato sugli stracci. Ma il sonno non giungeva a liberare i suoi pensieri e anche quando, finalmente, verso il mattino, si era appisolato, Antonio era piombato nei suoi sogni e lo toccava, ovunque, guardandolo con quello sguardo lascivo che gli aveva visto nella realtà.
Il giorno dopo, anche il lavoro al negozio, che prima aveva così desiderato e amato, gli era sembrato difficile e noioso. In qualche occasione, addirittura, non aveva aperto con sollecitudine la porta ai clienti e il padrone l’aveva persino sgridato! Rama non aveva più quell’entusiasmo e quella volontà che aveva sempre dimostrato e, man mano che le ore passavano e si avvicinava l’ora di chiusura, la sua disattenzione e il suo nervosismo erano aumentati.
Per fortuna, la sera, Antonio non si era visto, e neppure nei due o tre giorni successivi, ed egli si era un po’ rincuorato.
–Forse, -pensava- non verrà più, magari sarà partito per il suo paese che è tanto lontano. Forse ciò che ha fatto con me è una cosa normale nel suo paese e io non devo pensarci più. Gli stranieri hanno tanti usi diversi, non mangiano forse con le posate mentre noi mangiamo con le mani? Non hanno tante cose che noi non abbiamo?-
Lo stesso, la notte, aveva difficoltà a trovare il sonno e poi, una volta addormentato, Antonio forzava sempre nei suoi sogni, che divenivano incubi. Voleva confidarsi con qualcuno, ma con chi? A chi avrebbe detto le cose orribili che gli aveva fatto, a chi avrebbe potuto mai spiegare una tale vergogna? Non c’era che il silenzio.
Antonio era tornato una sera, quando Rama cominciava a pensarlo un po’ meno. Girato l’angolo della strada che dal negozio portava alla sua baracca, se lo era trovato davanti all’improvviso.
-Ciao, Rama- gli aveva detto sorridendo- Come stai?
-Bene.- aveva appena sussurrato il bambino.
-Vieni, andiamo al mio albergo, così potremo cenare e parlare un po’ insieme.
-No, non voglio venire.- aveva risposto Rama tutto d’un fiato con un filo di voce, diventando rosso per la paura e la vergogna.
-Oh, sì, che vuoi venire. Ti aspettano cose buone e anche un bel regalo.
-No, devo tornare dalla mamma.
-La mamma sa che sei a lavorare, sa che puoi fare tardi trattenuto dal padrone per qualche commissione. Non si preoccuperà. D’altra parte vai a lavorare da quando avevi quattro o cinque anni, non è vero?
-Non voglio venire con te.- Ecco, l’aveva detto! E il volto da rosso si era fatto pallido.
-Invece, verrai, altrimenti andrò a raccontare a tutti… Tu sai cosa. E ti metteranno in prigione e la tua famiglia…-
Rama si era avviato verso l’albergo.
In camera, Antonio non gli aveva offerto né cena né gelati e, d’altra parte, Rama non li avrebbe voluti. Con premura e foga l’aveva spogliato e aveva giaciuto con lui.
Dopo pochi momenti, qualcuno aveva bussato alla porta. Rama si era nascosto terrorizzato nel bagno.
-Vieni, Rama, non aver paura.-l’aveva richiamato Antonio –Vieni, questi sono amici miei che vogliono conoscerti.-
Rama era uscito dopo essersi rivestito in fretta. Nella stanza c’erano tre uomini.
-Ma quanti anni ha?- aveva domandato uno di loro.
-Ma, non so, otto o nove. Qui non si curano dell’età e forse non se la ricorda neppure sua madre.- aveva risposto Antonio con sicurezza.
-Sei certo che non parlerà con nessuno?
– È ovvio, se parlasse sarebbe lui a fare una brutta fine. Chi gli darebbe retta? E poi, eventualmente, una mancetta a qualcuno troppo zelante e tutto andrebbe a posto per noi.-
Tutti insieme avevano preso il tè e poi l’avevano di nuovo spogliato e, a turno, si erano divertiti con lui.
Era già notte quando Rama si era trovato in strada. Nelle mani stringeva le cinquecento rupie che gli avevano dato, quasi un mese di lavoro al negozio. Con quei soldi, sua mamma sarebbe andata avanti per un po’, ma egli non poteva fare di più.
Giunto a casa, aveva consegnato il denaro e, con una scusa, era poi uscito di nuovo. Aveva iniziato a camminare per le strade del centro città, ormai vuote di traffico e silenziose. Qui e là, vicino ai marciapiedi erano parcheggiati i risciò e i loro padroni, che tutto il giorno avevano faticato pigiando sui pedali per trasportare le persone sedute dietro, ora dormivano nel loro mezzo. Molti, infatti, venivano da lontani villaggi per lavorare e non avevano un altro posto in cui dimorare, se non il loro veicolo. Lo stesso valeva per i risciò a motore: anche là molti loro proprietari dormivano all’interno. La mattina, poi, velocemente, essi si facevano la doccia utilizzando i bocchettoni dell’acqua che si trovavano un po’ dappertutto nelle strade, e una nuova giornata di fatica cominciava.
In cielo brillavano le stelle che sembravano vicine vicine. Invece erano lontane, ed egli era solo. Mormorando sottovoce una preghiera al Dio Rama di cui portava il sacro nome, il bambino continuava a camminare. La sua casa diveniva sempre più distante ed egli aveva raggiunto ormai la periferia della megalopoli. Le strade erano ancora più solitarie, male illuminate, ma non aveva paura. Che aveva da perdere ormai? Camminando per ore, con i suoi piedi scalzi (l’unico paio di scarpe l’aveva lasciato a casa per suo fratello) si era avviato al fiume. I palazzi si allineavano gli uni agli altri: molti nuovi e in fase di costruzione, altri bisognosi di lavori, oppure miserabili baracche, come egli conosceva bene. Qualche cane latrava nella notte.
Infine, era giunto. Le acque scorrevano nere e tranquille giù dai gradoni che servivano alla gente per andare a lavare i panni. Vicino alla riva, quasi del tutto immersi nell’acqua, parecchi bufali si riposavano pacificamente.
Lentamente, aveva sceso le rampe di pietra, mentre le onde iniziavano a lambirgli le gambe. Aveva continuato a immergersi finché l’acqua non gli era arrivata al capo. Indi, con un ultimo movimento, si era abbandonato alla corrente.
L’azzurro aveva invaso i suoi occhi e i suoi polmoni: la quiete era totale, i gesti come una morbida danza e ogni affanno era attutito dalla profondità. Non c’era che l’acqua –e l’eternità- a poterlo ripulire dallo sporco di quella incarnazione.
“Addio, mamma.” era stato l’ultimo rassegnato pensiero.
Eh, sì, i sogni si avverano qualche volta.
Ma per qualcuno, la cui esistenza è già iniziata miseramente, si possono anche tramutare in drammatica disperazione.
Renata Rusca Zargar è autrice del libro “Pietre e piante: portafortuna, talismani e benefici effetti curativi per ogni SEGNO ZODIACALE”
Lo sapevate che l’uso di lenzuola color rosso vivo fosse un sistema semplice e sicuro per mantenersi giovani?
E che bruciare una candela verde favorisse gli affari?
Portare una collana di angelite, ad esempio, ci avvicina alla pace e alla serenità, mentre un anello di corniola allontana il malocchio e i piccoli teschi di osso tibetano portano fortuna. Oppure, sapevate che il quarzo rutilato, abbinato alla labradorite, aumentasse il fascino personale e l’autostima? O che un rametto di acacia appeso dietro la porta tenesse lontano chi non ci vuole bene?
Il testo è, dunque, un manuale di curiosità pratiche sui benefici effetti delle pietre secondo i SEGNI ZODIACALI o secondo l’attrazione personale. Illustra i vantaggi che ci offrono alcune piante, spiega la terapia dei colori e, infine, insegna a fare per sé il profumo che ci renderà ancora più affascinanti e felici.
Chi è Renata Rusca Zargar
Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.
Tra gli ultimi nati c’è una raccolta di lavori delle signore anziane che hanno seguito i suoi corsi gratuiti di Lettura e Scrittura Creativa: “Leggere e scrivere …per divertimento, raccolta di racconti, poesie, disegni, calligrammi dei Corsi di Lettura e Scrittura Creativa”, pubblicato da Amazon.
Si occupa della Biblioteca di volontariato Libromondo e, prima del Covid, portava i libri in prestito nelle Scuole. Cura un blog di cultura, ecologia e società Senzafine: Arte, Cultura e Società di Renata Rusca Zargar link