Racconto di me dal disgelo
(Vi racconto una storia, vi parlo di me, il Frankenstein dopo il gelo artico)
Nel mio nome il mio destino: “Stein”, in tedesco pietra: il ghiaccio non mi può scalfire. Avvolto nell’artico livore, le mie membra intorpidite, avvolte le suture in strati lucidi di ghiaccio, il battito inutile del cuore che rallenta fino al letargo e poi un sonno di anni o secoli, ma poi, l’inatteso, l’inevitabile, il definitivo DISGELO.
Non sa il mio cuore di primavera. Come spiegargli? Come trasmettergli che la vita non cede? Come fargli capire che nel sonno non c’è eternità ma momentaneo riposo? Tante parti di me incollate assieme e nessuna ragionevole, nessuna comprensibile, nessuna facilmente interpretabile. Il cuore fa quello che deve e, al primo tiepido sole, pompa un battito quasi impercettibile, silenzioso. Pum pum. L’orecchio destro, quello che de sempre funziona meglio, prelevato da un violinista, percepisce che qualcosa accade. Pum pum, rumore di stantuffo incerto. Il sangue appena liquefatto, come granatina al lampone che cede appena sotto all’iceberg di ghiaccio nel bicchiere di plastica trasparente.
Non sa il mio cuore di primavera, ma come far capire alla pelle che i recettori possono e devono festeggiare l’erezione subita dei peli che riprendono vita sulle mie braccia? Il braccio destro prima del sinistro, è quello preso dallo scrittore, o dall’onanista, che poi è lo stesso. La pelle non sa di stagioni, di decenni, di morte, la pelle sa solo di freddo o caldo e di certo non è per lei la stessa cosa. Peli biondi sul braccio destro s’ increspano, il sinistro è ancora irrigidito e freddo, la pelle ingabbiata nell’inverno del sonno trascorso. É sull’attaccatura delle cicatrici che sento il prurito, il formicolio del tessuto che si ridesta, l’ostinata spinta dello scorrere del sangue nelle vene
Non sa il mio cuore di primavera, come chiedergli allora di sollevare il sipario, di riaprire nuovamente gli occhi, di adattare la retina alla luce e di abbandonare la consolatoria oscurità del nulla. Non so se ho scelto la morte, assieme al freddo, ma di sicuro ho scelto il buio, per non vedere più le atroci congiunture di arti dissimili, pezzature incoerenti, ruvide cuciture di sarto maldestro: io ho scelto di non guardarmi, ed ecco di nuovo l’insistente luce a richiamare le ciglia a far roteare i bulbi oculari, a farmi mettere a fuoco la solitudine del ghiacciaio che si disfa, la disfatta del blocco liquido che cola silenziosamente, arreso, nel mare.
Non sa il mio cuore di primavera ma il mio cervello sì, in scosse concentriche si accavallano nella mia mente ancora mezza assopita, fotogrammi nitidi (il cervello era di un regista, il cervelletto di un fotografo) di prati assolati, api ubriache di nettare, fiori spaccati in due dall’urgenza di sfruttare il loro breve tempo, prima che la gloria sia frutto e il profumo sapore. Sinapsi e impulsi elettrici mandano note di glicine al naso e succo di melograno giù per la mia gola tagliata e ricucita, senza inibire le papille gustative. Disciolto ormai in acqua il lungo sonno di ghiaccio, i miei sensi sono pronti a riattivarsi e riasciugarsi al sole.
Mi alzo e riprendono i miei muscoli a camminare, a tenermi dritto sulla mia spina dorsale di cameriere, i miei piedi di viandante ripercorrono il cammino verso la sua strada, il suo cancello, la sua porta. Le mie nocche da pianista bussano alla sua porta e io non so se lei è ancora viva, se è ancora intatta, se vive ancora qui dopo questi millenni di ghiaccio e lungo sonno, ma il mio cuore non sa di primavera, sa solo che quando l’uscio si dischiude capisce, che la primavera è ricominciare a sperare
Silvia Favaretto
Il racconto ha partecipato al concorso “Raccontami una storia: parlami di te”