Vittoria
di Federica Del Prete
Come raccontare la mia storia? Non è una bella favola, una di quelle che le mamme raccontano ai propri figli per dar loro la buonanotte. Da dove iniziare? Beh, magari dall’inizio; sì, dal principio potrebbe andar bene.
Sono nata nel 1925, anno più anno meno, ma l’idea di me, i miei genitori, o meglio dovrei dire mio padre, l’aveva in testa già da qualche tempo. Non ho vissuto sempre nello stesso posto; un po’ qui e un po’ lì, direste voi. Sono stata battezzata, in nome del Signore, il 9 Febbraio del 1931, davanti a tante persone che brindavano in mio onore. Da allora ne ho viste di cose, ne ho ascoltate di storie. Ho vissuto di ricordi; di memorie di altri, però. Probabilmente ora vi starete chiedendo come sia possibile per un essere umano vivere solo di racconti altrui.
La risposta è semplice, non sono una persona. No? No! Mi chiamo Vittoria e sono una statua, un monumento per essere puntigliosi. Non ve l’aspettavate, eh? Vi ho stupiti, lo leggo nei vostri occhi. Ho una storia, però, perfino io, anche se non convenzionale, ve lo assicuro; dopo tanti anni sento il bisogno di dire qualcosa anche io, di tramandare la memoria di ciò che sono e di ciò che rappresento dal mio punto di vista e non da quello di mio padre, Ermenegildo Luppi, o da quello di coloro che gli commissionarono il lavoro.
Per iniziare, avrei voluto che mi chiamassero Gloria ma anche Vittoria mi piace in fin dei conti. Sono stata raffigurata con le ali e le braccia rivolte verso il cielo mentre sollevo uno scudo e la spada in segno di trionfo. Mi hanno posta su una sorta di piedistallo di pietra ai cui lati hanno raffigurato due scene toccanti: una madre che solleva il proprio figlio, vivo, dalle macerie di un’Avezzano distrutta dal sisma del 1915, e dall’altro, un fante che soccorre, durante una battaglia, un compagno caduto.
Io sono un monumento commemorativo e il mio compito è quello di ricordare ciò che è stato, di non far dimenticare che è esistito un tempo in cui uomini, donne, bambini hanno sofferto e sono morti sperando in un mondo che non facesse più paura e in un futuro che non fosse più violentato dalla ferocia della guerra. Ho ascoltato tanti racconti da allora, madri, padri, figli venivano da me e mi confidavano le proprie angosce e il loro dolore. Ho fissato i loro occhi, muovendo i miei quando i loro erano distratti, e ho cercato di essere comprensiva e paziente. Ho udito mormorii e sospiri portati dal vento, lamenti lontani di gente che non avevo mai visto e che cercava di tornare alla vita nonostante tutto.
Non è una bella storia, vero? Vi avevo avvertito. Eppure, dopo tanti anni di esperienza, qualcosa l’ho imparata. Non esiste una sola faccia della medaglia, c’è sempre l’altro lato e io voglio essere quell’altro lato della storia. Io ricordo i morti, coloro che sono caduti in difesa della Patria, ma sono anche vita ed è questo che voglio essere. Voglio raccontare quello che di bello è nato, ciò che di buono c’è stato nel corso degli anni. Rappresento il ricordo del passato e nel passato ci sono stati anche bambini che hanno imparato a pattinare ai miei piedi o ad andare in bicicletta senza le rotelle. Ho vissuto l’alternarsi delle stagioni, la rinascita della primavera, ho provato il caldo intenso dell’estate e la soffice purezza della neve invernale. Ho ascoltato i pianti ma anche le risate e la gioia di una giovane donna a cui avevano appena chiesto di sposarla.
C’è stato un tempo in cui ogni giorno mi veniva a trovare un ragazzo, Giulio, passava tutti i pomeriggi e si fermava a leggere un libro seduto sui miei gradini. Ne ha portati molti con sé, autori russi, inglesi, francesi, italiani, così tanti che faccio fatica a ricordare tutti i nomi. Una volta mi ha addirittura parlato, sì, avete capito bene! All’inizio non ci ho creduto, pensavo che ci fosse qualcuno che io non potevo vedere ma poi ho realizzato che quel ragazzo stava parlando proprio con me. Si è presentato, mi ha detto che aveva 25 anni e che stava per laurearsi in letteratura russa. Mi ha raccontato i suoi sogni, come se fossimo amici, che gli sarebbe piaciuto lavorare per una casa editrice ma che il padre avrebbe preferito per lui una carriera meno rischiosa e così io mi sono innamorata di lui. Più Giulio parlava, più io imparavo ad amare quel ragazzo folle che si metteva a dialogare con una statua.
Che sciocca, vero? Una statua che si innamora di una persona in carne e ossa. Una pazzia simile non si era mai vista prima, io sono un monumento e gli oggetti inanimati non provano sentimenti umani. Come è stato possibile allora? Io ho sempre vissuto tra le persone, sono perfino nata per loro e, con gli anni, ho scoperto in me vita e crescita. Ora Giulio non viene più da molto tempo, mi dispiace un po’ ma spero per lui che sia felice e soddisfatto di ciò che ha realizzato.
La mia è una pazza corsa nel tempo, esisto da molti anni e non invecchio mai. Una nuova guerra, addirittura più feroce di quella per cui io sono stata creata, molti anni fa, ha provato a distruggermi ma non ci è riuscita. Il mio cuore, di metallo certo, batte ancora e ho vissuto e vivrò per ricordare a tutti quello che è stato e
che sarà. Sono nata grazie al sogno di un uomo e delle persone mi hanno dato vita. Ho capito che la rabbia di uno può uccidere, che la scelta di un singolo individuo può influenzare la storia di molti, ma che gli esseri umani sono capaci anche di costruire e creare.
Ho tante sorelle sparse per il Paese, in grandi città o in piccoli paesini, e tutte noi siamo un luogo di raccoglimento, la casa della memoria. Abbiamo seguito la storia dell’uomo, il suo evolvere nel corso degli anni. Abbiamo visto crescere intere generazioni, bambini farsi uomini, bambine diventare donne e poi padri e madri e nonni e nonne e alcuni, i più fortunati, fare una passeggiata con i figli dei loro nipoti. Sono nata in un mondo completamente diverso da quello in cui vivo ora, ho visto il progresso tecnologico avanzare e amici parlarsi prima solo di persona poi attraverso delle strane macchine dapprima grandi poi piccole e ora di nuovo grandi.
Ieri è venuta a trovarmi una ragazza, una bellissima giovane donna dai capelli corvini e gli occhi intensi come quelli di una tigre. Mi ha parlato con un accento strano, non lo avevo mai sentito prima e ho pensato che fosse straniera. Parlava più a sé stessa in realtà, sapete non tutti sono folli come quel ragazzo di cui vi ho già accennato. A questo punto immagino che stiate alzando gli occhi al cielo, magari vi sto anche annoiando un poco. Vi chiedo scusa ma come ho già detto all’inizio questa è la mia storia e vorrei raccontarla nella maniera più chiara possibile.
Cosa dicevo? Ah già, la ragazza. Mi è sempre difficile riannodare i pensieri dopo aver divagato, sarà perché sono una statua o perché ho più di novant’anni, ma ora sto di nuovo procedendo troppo oltre. Clara, così l’hanno chiamata le amiche che erano con lei, mi ha sfiorato delicatamente con la mano. Quasi non ho avvertito il tocco e mi ha sussurrato che da giovani, durante quella seconda guerra, i suoi nonni si davano appuntamento proprio qui per potersi vedere di nascosto, lontano dalle loro famiglie che disapprovavano la loro unione. Lui era un tedesco capitato ad Avezzano per errore, uno scambio di documenti, lei la figlia di un contadino italiano che si batteva per liberare la città da quegli sporchi nemici. Alla fine sono fuggiti insieme non volevano che la guerra vincesse anche su di loro e così sono scappati via, lontano da tutti e da tutto quell’odio feroce. Lei voleva visitare il luogo che aveva fatto da sfondo, che aveva visto nascere e consolidare un amore tanto improbabile.
Ora sono sempre sola, con il passare degli anni vengo notata sempre meno e gli uomini sono persi nelle loro faccende e in pensieri a me oscuri; è per questo che ho voluto narrarvi la mia storia, per non essere dimenticata e per non ricoprire il comico e triste ruolo di freddo materiale inerte che da simulacro della memoria diviene, per ironia della sorte, preda dell’oblio.