“Puzzle me”
di L.B
Prendi la merendina, girala, controlla tra gli ingredienti se ci sono latticini.
Ma io non sono allergica, io i latticini li posso mangiare. Me lo sono dovuta ripetere per ben sei mesi, ogni volta che andavo a fare la spesa perché, dopo undici anni, ti serve tanto tempo per ricordare com’eri. Dopo undici anni ad essere Noi, ricordare chi eri tu e che cosa ti piaceva, era a dir poco difficile. E, dato che indietro non si torna, la verità è che non devi ricordare chi eri, ma chiederti chi sei. Il che è ancora più difficile.
Ti sei mai chiesto davvero chi sei?
A questa domanda molti rispondono con il proprio lavoro: questo è il primo errore; del resto il lavoro dice quello che fai, mica chi sei. Io lavoro in amministrazione e sul lavoro sono molto precisa; se lo chiederete a mia mamma vi risponderà che sono una disordinata cronica e che casa mia è sempre un disastro.
Negli ultimi undici anni ho sempre prediletto la montagna al mare, perché a Lui il mare non piaceva. Una volta l’ho convinto e, a suo stesso dire, è stata una vacanza molto bella, in cui si è rilassato e che avrebbe rifatto; ma non l’abbiamo più ripetuta e io non sono poi andata al mare così spesso perché dopotutto anche a me piaceva la montagna…. no?
Mi sono ricostruita pian piano e ho capito, andando in sup, che il mare mica mi dispiace, ma non è certo il mio elemento. Ho capito che io ho bisogno di terra, di verde, di bosco. Le montagne però mi piacciono solo a volte. Le vedo così difficili. Alte, insormontabili. In montagna non ci sono salite collinari. Ci sono salite che ti fanno tirare ogni singolo muscolo, la vetta te la devi conquistare e…. santo cielo ma come puoi svegliarti ogni mattina con la voglia di scalare? Io sono tipa da collina, da bosco facile; sono tipa da monte Titano che se hai voglia di sgroppare ti fai Canepa, Gorgascura o il sentiero della Rupe; ma che se sei stanca te ne puoi pure andare all’arboreto o a fare un giro a Fonte dell’Ovo. Che se hai voglia di cambiare te ne scendi a Riccione, Torre Pedrera…insomma in quel di Rimini; ma se hai voglia di metterti alla prova, hai pure Carpegna a 40 minuti. Tanto per capirci: sono una a cui piace la comodità, ma che se ha voglia di far fatica…la deve avere a portata di auto!!!
Il cibo. Santo cielo quanto lo adoro. A vedermi non si direbbe, ma io proprio ci provo gusto a mangiare. Anche i latticini!!!! Per un anno ho dovuto ridurre drasticamente la mia alimentazione a causa di un intervento; per tanti anni prima era stata volutamente ridotta alla ricerca di una qualche intolleranza che spiegasse i miei sintomi: poco da fare se hai l’intestino quasi ostruito. Ma che piacere è stato riappropriarsi del gusto del cibo!!! Dopo mesi di dieta a base di pesce, pollo, carote e patate lessate; la prima spianata con la mortadella è stato qualcosa di estasiante!!!! Le lasagne della mamma impagabili e il primo sushi un vero godimento!!! Non per nulla ho coniato (o almeno credo) il termine “orgasmo culinario”.
I libri mi hanno sempre accompagnata fin da piccola, al punto da far preoccupare chi mi stava intorno. Non mi andava di uscire a giocare se avevo la possibilità di leggere. Leggere non è mai stato mettere insieme delle parole; ma creare un modo grazie ad esse, un film che si svolgeva nella mia mente, un mondo alternativo a quello che avevo intorno. Oltre ai libri avevo i cartoni animati e quelli sono stati la porta per svariate mie scelte avvenute poi. Anche perché da lì ai manga il passo è stato brevissimo e il fascino enorme. Con i libri le parole danno vita a delle immagini; nei manga le illustrazioni le hai già, ma la tecnica del fumetto è qualcosa di sottilmente eccezionale: il tuo cervello crea anche quello che non c’è. Così spesso arrivi alla fine di un albo, preso dalla storia, e quando lo vai a rileggere scopri che quella data illustrazione è solo nella tua mente e che il fumettista l’ha solo suggerita; tu hai fatto il resto. Libri e fumetti….pura magia.
Riprendermi l’Oriente invece è stata tutt’altra storia. Ne condividevo così tanto con Lui. L’ho portato a conoscere il mio mondo quando abitavo là, la mia famiglia acquisita oltreoceano, i luoghi che avevo studiato e visto sui libri, la realtà che trovavo nei fumetti. Perché all’epoca l’Oriente era davvero ancora tale: di stranieri ce n’erano pochi tant’è che ancora si sentiva la parola “gaijin” (straniero, appunto). Ho lasciato andare quel mondo per Lui. La possibilità di vivere e lavorare là l’ho definitivamente accantonata quando siamo andati a vivere insieme. Feci la mia scelta. Ma riappacificarmi con quel mondo che avevo così amato, che amo tutt’ora e che avevo tradito, è stata un’impresa che ha richiesto anni di contraddizioni dentro di me. Non è stato lo strappo di un cerotto, quanto piuttosto un incendio che ha distrutto una foresta, piano piano, albero dopo albero. Il terreno però restava fertile, qualche germoglio ricresceva finché non arrivava una gelata e distruggeva nuovamente le gemme. Di ricostruire una foresta certo non c’è modo, quindi ho ripiegato su un piccolo bosco di bambù che essendo un infestante praticamente cresce da solo e sopperisce alle mie pressoché inesistenti doti di giardiniera.
I viaggi. Amo viaggiare. Con Lui ho viaggiato tanto, ce l’avevamo entrambi nel dna: una meravigliosa combinazione di divano e viaggi. L’Australia, la Scozia, la Spagna, il Giappone, l’India solo per citarne qualcuno. In ogni paese uno stupore, qualche insegnamento, la meraviglia. Anche su questo però sono cambiata: prima viaggiavo per andarmene, ora viaggio per tornare.
Non so se sia stato merito di Allevi, Einaudi, Thiersenn o Yiruma, sta di fatto che suonare il pianoforte mi ha aiutata a buttare fuori tutta la tristezza che avevo, dandomi anche tanti momenti di gioia. Eppure ogni melodia sembrava triste, suonava “blu”, il blu profondo di una notte senza stelle. Per questo motivo non sono più riuscita a suonare il pianoforte: mettevo le mani sui tasti e ancora prima di poter emettere un suono, partiva un’armonia di dolore come una traccia di sottofondo. I ricordi di dove suonavo, ma soprattutto per chi suonavo, con la vergogna che solo una dilettante può provare. In un impeto di repulisti, fortemente motivata dal voler ricominciare una nuova vita e trovare una nuova me, ho venduto tutto. La musica però è un linguaggio meraviglioso e io sono voluta tornare a parlare l’unica lingua che è davvero universale, quindi, con tanta testardaggine, ho iniziato a suonare il violino. Ripeto, ho iniziato a suonarlo, non è che lo suono, perché il violino, a differenza del pianoforte, non si suona così facilmente. Francamente al pianoforte penso sempre e medito nuovamente l’acquisto di un digitale verticale, ma mi resta un dubbio: se lo compro e poi non riesco a suonarlo?
Il ballo è stata una delle scoperte fatte per me sola. Un primo passo verso una nuova me stessa dopo tanti anni di Noi, passati a vedere film sul ballo sognando di poterli segretamente replicare. Questo è proprio venuto da me e la mia insegnante me l’ha fatto amare. Amare al punto tale che l’ho fatto conoscere anche ad un altro Lui, venuto dopo. Questo Lui mi ha dato molto, ma mi ha portato via tantissimo e il ballo è solo la parte più piccola che ha preso. Al momento infatti non ballo più: ormai non è più il mio rifugio, è solo lo specchio delle mie paure, fallimenti e sensi di colpa che non riesco a fronteggiare senza stare male fisicamente. Mi dicono che dovrei continuare, che questo mi renderà più forte…. ma non so se chi me lo dice abbia un quadro ben dipinto di come sono ora. Appena ce l’ho io dopotutto.
La mia bestiola, la mia cagnolona. Non so quanto lei sia parte di me e io di lei, so solo che qui siamo davvero un Noi; un Noi grosso come un grattacielo newyorkese. In questo caso il noi mi definisce. C’è chi lo reputa sbagliato perché “è solo un cane” e “il cane va trattato da cane”, ma lei influenza pesantemente le mie scelte. Non vado in vacanza se non posso portarmela dietro o lasciarla in mani più che fidate; mi fa alzare al mattino e camminare ogni giorno quasi due ore anche quando vorrei solo dormire o starmene sul divano; non si sorbisce la mia tristezza, se mi vede piangere esce di casa; ma se sto male, si accoccola ai piedi del divano e non mi perde d’occhio. Lei mi fa sempre vedere che la vita è fuori, che ci sono tanti sentieri da prendere, che alla stessa meta ci puoi arrivare per strade diverse, che su alcuni passi dovrai ritornarci e che alle volte serve andare fuori strada per ritrovare la via maestra. Che puoi fare tutto con un buon paio di scarponi, cibo, acqua e un cane che ti riporta a casa perché tu non hai senso dell’orientamento.
Sull’amicizia ci sono trattati infiniti e infinite opinioni. Ricordo di aver letto un libro di Alberoni che classificava i diversi tipi di amicizia e che questo all’epoca mi fece infuriare perché per me l’amicizia era qualcosa di puro e disinteressato. Beh, non so se Alberoni avesse o meno ragione e neppure sono interessata a scoprirlo perché ho formulato una mia teoria, non volta a sminuire o classificare, ma semplicemente a spiegare a me stessa perché alcune amicizie sono diverse dalle altre, finiscono, durano o mutano. Perché sono come le medicine. Ci sono gli antibiotici che quando sei a pezzi o ti salvano quelli o non ce n’è; ci sono gli integratori che prendi ciclicamente; c’è il Moment che hai sempre in borsa perché all’ibuprofene non sei allergica ed è una panacea un po’ per tutto; ci sono farmaci di cui non ricordi neppure il nome perché quel sintomo lì l’hai avuto una volta e poi mai più. Visione troppo utilitaristica? Beh…io il Moment, come ho detto, ce l’ho sempre in borsa, anche quando non sto male. Mica lo faccio con tutti i farmaci.
Sulla famiglia e su come definisce chi siamo si sono sprecati tutti da Freud in poi, ma anche molto prima. Ne hai bisogno, ne scappi, è stretta, larga, lontana da te ma pur sempre dentro il tuo cuore; sempre fraintesa a parole eppure così facile a pelle, densa come il sangue che ti scorre dentro perché non è solo il tuo. Dittatoriale al punto da sobillare la tua anarchia anche se sei un sottomesso, eppure così carezzevole da cercarne il caldo abbraccio perché dopotutto, sempre e comunque, non c’è posto come casa e nessuno potrà mai essere come mamma, babbo e fratello. Questo resta, al di là della fisicità, al di là della morte. Ancora mi scopro a pensare “adesso lo chiedo al babbo”, poi mi ricordo che è morto a luglio 2019. Il 18 luglio, un mese prima del suo compleanno. Verso qualche lacrima e rammento a me stessa che finché ci sono io, finché c’è mio fratello, non è proprio morto. Quindi basta che mi chieda “che farebbe il babbo?”; e si va avanti con chi non c’è più tenendolo nel cuore e nell’anima e con chi, per fortuna, c’è ancora, al tuo fianco, sperando che sia il più a lungo possibile.
Quindi; chi sei?
Non so voi, ma io sono un insieme di pezzi dati, tolti, costruiti. Alcuni li ho proprio persi e quel cavolo di disegno che compone il puzzle di chi sono mi frega perché cambia di continuo e non ho quello sulla scatola da seguire. Quindi uso i pezzi che ho. Alle volte ho tentato di ridargli forma limandoli, tagliandoli, nella speranza che entrassero proprio lì…finché non scopro di avere anche pezzi nuovi. Insomma, ‘sto puzzle è un bel casino, ma è il mio casino e domani ci metto un altro pezzo.