domenica , Novembre 24 2024

Raccontami una storia: “Pausa sigaretta”

Pausa sigaretta

di Andrea De Propris

 

A volte basta un momento; in quel singolo, prorompente, fugace attimo ogni cosa cambia. I lampioni iniziano a cospargere per le strade della città una luce strana, tiepida, quasi timorosa di essersi accesa, ansiosa per il suo ruolo di comparsa indesiderata, ma necessaria, sulla scena predominata dall’assoluto protagonista: il cielo. Il sole, offeso da così poche considerazioni, prima di ritrarsi completamente dietro al sipario, come attore geniale, maliziosamente declassa il copione a semplice orizzonte, tirando fuori un’improvvisazione dalla coloritura eccezionale, di cui il suo vuoto sul palcoscenico, terminata la parte, ancora sembra dipinto.

Così almeno lo è nel ricordo della platea; solo rosso d’ira il direttore, “Irriducibile egocentrico” pensa tra sé e sé. Nei parchi e nelle stradine i cani portano a spasso i loro padroni, ritagliandosi il tempo a loro dovuto per i propri personali bisogni. I palazzetti, che vanno riempiendosi di ragazzi in tenuta da ambiziosi professionisti, si distinguono in lontananza come laboratori, sorgenti di ampi fasci luminosi che le sbarre delle gabbie non riescono a trattenere e che si vaporizzano nell’oscurità crescente del cielo.

I parcheggi retrostanti colmi di macchine dei genitori che, sotto il loro camice da altezzosi dottori, nascondono una grezza tuta da villani, esaltatori e meticolosi critici dell’arte più incontaminata; pronti a darsi guerra su chi abbia fatto maggior progressi nella ricerca della difficile formula del successo; ostinati, non comprendono che nessuna provetta o macchinario o calcolo riuscirai mai a far rotolare un pallone rotondo, ma neanche a fermarlo. Il traffico risuona di stanchi e consumati clacson che segnano la via per casa all’impiegatuccio; ogni semaforo è buono per iniziare a scrollarsi di dosso l’uniforme lavorativa e, idealmente, abbracciare il comodo vestiario notturno, lasciato tutto sgualcito sul letto, tutto freddo. Riscatta il verde e la cravatta ancora stringe il collo, impedendo persino la magra consolazione di un pasto caldo.

Nelle case la televisione diventa amica comune dei commensali, prende posto e siede al centro della tavola, sgarbata e goffa, rialzata quanto basta a non far vedere le macchie sulla tovaglia; il cibo cade dalla bocca, più intenta ad ingoiare le grosse e grasse risate degli attori da palcoscenici di carta, a bere le notizie di pregiati artigiani, che tutto il mondo vedono come un grande ciocco di legna da intagliare. “C’è chi almeno qualcosa lo mangia” pensava Nerada, già sazio dell’ennesima arrabbiatura.

Che la giornata fosse andata male, lo si capiva facilmente dalla svogliatezza con cui si svestì di quegli indumenti che, inevitabilmente, lo proiettavano ancora, e ancora, alla litigata di qualche ora prima, illudendolo di poterne cambiare il finale solo perché continuava a portare addosso quelle dure parole. Neanche quella cinta troppa stretta, il pantalone elegante ed aderente, la camicia abbottonata fino al colletto, come collante esteriore, riuscivano a tenere insieme i pezzi in cui andava sgretolandosi, interiormente. Maltrattati e strappati via dal corpo, li lanciò nel cesto del bucato: bastasse il sapone per ripulirli, i ricordi.

Armato di accendino, l’unico funzionante tra i tanti che continuavano ad occupare una scatolina sulla mensola della libreria, più per necessità di saperla piena che per utilità, e presa una sigaretta dal nascondiglio, mimetizzato tra i libri di quella raccolta non sua, fece una pausa. La finestra sporgeva su un piccolo spiazzo lasciato un po’ a se stesso, arido e sterrato, dove persino i mozziconi delle sue sigarette, incorruttibili e veri testimoni di fatti e sentimenti mai detti a voce, si confondevano sul terreno. La leggera brezza si trasformava in quell’attimo in gelido vento, spirando con sé delusione, insoddisfazione, pesantezza; l’uomo, pittore in un mondo di architetti, non deve rispettare le noiose regole della fisica, della gravità, dello spazio … lui stesso le ha stabilite, lui stesso è il suo grande limite. Il mondo, la natura, la realtà sono solo un qualcosa da scoprire, libri da studiare per essere preparati agli esami della quotidianità; è invece nella fantasia, nell’immaginazione, nel sentimento che egli si riscopre il più grande tra tutti gli architetti: plasmatore del nulla, che acquista forma smaterializzando gli oggetti; marinaio esperto, ma sempre timoroso, in balia degli infiniti torrenti che gli scorrono dentro, facendolo ora affondare, ora trionfante sulla cresta dell’onda. Dipende tutto se la corrente tira dall’oceano del cuore, o dal mare della mente.

Che la giornata fosse andata male, lo si capiva in quel momento in cui, accendendo la sigaretta, non ne modellava con il fumo del primo tiro la cima, segno di preoccupazione e sovrappensiero; c’era qualcosa che lo turbava. Un tormento, un rimpianto, una speranza delusa, una vicenda finita male, uno sconvolgimento tale da rendere indistinto il fumo rigettato con asprezza dalla bocca piena di parole mancate e quello uscente debole, delicato dalle labbra di pietra di un comignolo vicino che soleva creare un’atmosfera speciale, calda e confortante a Nerada, viandante romantico sul mar di nebbia, in cui scorgeva tutto se stesso con opaca chiarezza.

Frastornato dalla passione più raffinata ed ingombrante, impura e cauta contemporaneamente, aveva perso ogni punto di riferimento: delle poche stelle che conosceva, era sicuro che da quella finestra, suo personalissimo scorcio sul mondo, fosse visibile la stella polare. Che avesse smesso di puntare al nord, alla strada da sempre percorsa, all’amore continuamente inseguito? Ma la stella o la finestra? Probabilmente solo gli occhi. Annebbiati dalla rabbia, dai pensieri negativi, dalla sofferenza, non erano più gli stessi che guardavano in cielo alla ricerca disinteressata di stelle, di bellezza, d’amore. L’uomo, in tale stato, non ha l’animo per godere di un così alto privilegio: sapere se la sua scelta sia giusta, farsi illustrate la strada e il comportamento da seguire, avere risposte che mettano un po’ d’ordine a quei moti irrazionali che lo affliggono; dubbi, perplessità, insicurezze su cui solo il tempo trarrà bilanci … quello stesso tempo che intanto le fa sparire dal cielo, le stelle. Ognuno, dunque, dovrebbe crearsi il suo nord e tendervi come aspirante corteggiatore, instancabile.

Lo aveva capito che la giornata sarebbe andata male nel momento stesso in cui la incontrò. Lei, fonte di passione, o riflesso di essa; lei, inconsapevole ispiratrice, di tanta bellezza o di tanta dannazione; lei, amata e troppo poco amante, forse non si era mai veramente resa conto di quanto riusciva a smuovere in qualcuno che sbagliava sempre a prenderla. Lei lo conosceva, fin troppo bene; era certa che, in ogni momento, in ogni occasione, lo poteva trovare seduto su una panchina alla stazione, sceso da quel treno giunto al termine, ancora esitante su quale strada intraprendere: fiducioso nel destino e nei suoi segni, sperava che il nord puntasse diretto verso la via sterrata; realisticamente negativo, era consapevole che si stava facendo tardi, doveva tornare a casa. Ciò gli precludeva la possibilità di ammirare il cielo e di affidarsi alle sue fedeli amiche luminose lassù; ciò gli consentiva di tornare a casa con ancora quell’ingombrante, ma rassicurante indecisione.

Pensava che, in questo modo, evitava il rischio di sbagliare scelta; rimaneva dunque appeso, come quadro, nella cornice della sua finestra, rimuginando e ascoltando il silenzio serale affollato di pensieri controversi. Nerada, invece, lei non l’aveva mai del tutto capita e per questo continuava a scoprirla, cercando nei suoi atteggiamenti la causa della malattia, quando ne era appena il sintomo. Amanti da fragilità diverse, da bisogni ed esigenze differenti, da aspettative e concezioni distanti: si sono bruciati nell’arco dei cinque minuti di una sigaretta, che anche lasciata a farsi fumar dal vento, alla fine si spegne. Il problema è prenderne un’altra dal pacchetto pieno? Non penso.  Ma, in verità, è più la paura di trovarlo vuoto, oppure di bruciarsi dentro andando avanti?

Anche lei, probabilmente, c’è sempre rimasta in quella stazione, ma non sempre si è seduta su quella panchina; non è la stessa cosa. Spettatore coinvolto, attento alle vicende della stazione, è preparato all’ipotesi in cui il sedentario decidesse di prendere un treno al volo, uno di quelli per cui la meta non sia importante, basta che sia lontano?

Era un altro giorno andato male; lui, sognatore e fermo romantico, inciampa nel disincanto … senza però cadere! Disincanto come prova che, se ci si crede in questa passione, essa esiste, e va cantata, e va urlata sotto una luna distratta ed un sole che è già pronto a venire in aiuto. È proprio in quell’istante, attimo, momento che timorosa si accende una fioca luce.

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