martedì , Dicembre 3 2024

Raccontami una storia: “Infanzia” di Marta Barone

Infanzia

di Marta Barone

 

INFANZIA

 

“La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi”.

Carl Gustav Jung.

 

Dei bambini nati con la camicia Andrea, la bambina di questa storia, non ne sa nulla.

Ci sono tanti spazi vuoti nei suoi ricordi, tante crepe, piccoli traumi domestici; parlo di come certi dettagli abbiano cambiato in modo irreversibile il suo carattere, il suo modo di vedere il mondo, il suo rapporto con la felicità.

Di come ci si incastra nei rapporti l’ha imparato da bambina: ha recepito subito la malattia, il virus, l’inferno.

Si nasce in circostanze sempre sgradevoli: si piange subito. Siamo subito messi a inaridire nel mondo, a testa in giù come rose da far essiccare, così che non perdano colore.

L’inizio è nell’acqua- il mare calmo del ventre di donna in cui la vita si rigenera. Da una cellula solitaria e muta si slegano milioni e milioni di cellule figlie, nel buio, immerse in un silenzio caldo ed abissale. L’energia si concentra nella carne umida.

La purezza della nascita si trova del tutto chiusa nel peccato di non voler uscire fuori, nelle lacrime, nel disorientamento; la bambina di questa storia, cullata nell’acqua, aveva conservato nel venire al mondo il rossore di uno sforzo sovraumano, il violaceo di un combattimento…e il bianco di un vestito da matrimonio, immacolato, che presto si sarebbe macchiato.

Riportatemi indietro sembrava già piangere appena nata.

Quando fu cresciuta, con la carne ancora morbida di bambina piccola, ma già dimentica del mare d’origine, il mondo aveva cominciato a sporcarla. Lei con l’avanzare del tempo si sporcava di canzoni, veniva traviata dalla musica che girava per la casa; si sporcava di libri e di rimproveri. Si sporcava di capricci e di lacrime sommesse, di liti innocenti e di rancori impermanenti. Per non parlare della sua riservatezza, scoraggiante, che sembrava infangarla più di ogni altra cosa.

Amava la solitudine già da bambina, aveva sempre una nota malinconica nello stomaco.

La sera si sentiva crescere dentro un brivido, nostalgia che l’accompagnerà poi per il resto della vita, come una migliore amica che sta lì a ricordarti di un dolore dolce, un ricordo che non si può identificare. Una voragine sempre aperta, un vuoto di memoria. Era forse l’innocente nostalgia della purezza dell’acqua.

Credeva di aver vissuto già; aveva qualcosa nello sguardo, se n’era accorta solo crescendo: venivano da molto lontano quegli occhi quasi neri. Tutta quella profondità che le bucava il petto e le solcava il cuore non poteva derivare da una vita sola.

Aveva sempre avuto i capelli lunghi, sin da piccolissima, non poteva immaginarsi altrimenti; li aveva tagliati una volta soltanto. Tutti le dicevano che aveva dei capelli stupendi, come se il resto non venisse notato: era solo capelli, niente di più.

Si chiedeva come gli altri potessero anche solo pensare che lei fosse bella, perché lei non lo era; aveva un buon profumo salmastro, un modo di pensare di poche donne, dritto al punto, e torceva leggermente il collo quando voleva capire le cose. Davvero, niente più di questo. Poteva bastare? Lei non credeva affatto.

Camminava per la strada a testa bassa, quasi mortificandosi d’occupare spazio, veloce, perché credeva di doversi affrettare; quando incontrava qualcuno sapeva alzare il volto per sorridere, ma non era mai veramente contenta: non erano in molti ad avere il privilegio di piacerle, di catturare la sua attenzione. Trovava che l’ipocrisia stesse sempre lì, dentro allo sguardo e al sorriso di tutti, e nella maggior parte dei casi non sbagliava.

Ma lei non voleva certo giudicare le persone che mentivano, sorrideva di loro senza interesse specifico. Non mostrava alcun tipo di sentimento d’affetto né disprezzo: stava lì a sorridere, a dire gentilmente, nei casi in cui veniva richiesto, la sua opinione, spesso in disarmonia con le altre. Forse il suo atteggiamento poteva venire confuso con la presunzione, ma a lei non importava alcunché. Lei teneva solo a sé stessa e non aveva intenzione di mascherarsi, non voleva rovinare l’unico rapporto sincero ed eterno che avrebbe dovuto coltivare.

Così non aveva mai molte persone intorno, nessuno mai che avesse voluto starle veramente vicino e nessuno che fosse mai stato realmente respinto: era un susseguirsi incostante di vuoti e presenze, senza nessun appiglio concreto. Lei era sempre rimasta sola e sempre aveva pensato che probabilmente non poteva essere compatibile con chiunque, se non addirittura con nessuno.

Non se n’era mai data una colpa, come non l’aveva mai data agli altri: era un continuo andare e venire, un’unica onda del mare che porta a riva e che rimanda a largo. La bambina, chiusa dentro il proprio oceano, non aveva alcuna paura della solitudine. Bisogna stare soli per capire come stare al mondo: testa alta, occhi al cielo, braccia libere.

A furia di guardare in alto questa bambina era sembrata spesso assente nei rapporti, perché non voleva a nessun costo farsi trascinare in basso, così aveva scelto il distacco.

Era rimasta sempre sola per scelta comune: lei non voleva abbassare lo sguardo e gli altri non volevano alzarlo.

Sapeva fin troppo bene quello che avrebbe voluto essere e quello che non desiderava diventare, perciò sceglieva meglio come e con chi vivere.

Non si vergognava a dire “no, non voglio”, né aveva timore nell’esprimersi, nonostante quell’estenuante riservatezza che la caratterizzava.

Lei doveva potersi riconoscere quando si guardava allo specchio e non poteva mescolarsi e perdersi tra i voleri e gli ardori degli altri. Era amor proprio, niente di più meraviglioso, era la vita che la voleva così… eppure non si può dire che lei fosse felice: si chiedeva costantemente quale fosse il male che soggiogava il mondo, pieno di vite così deboli e fragili e false, il male che soggiogava anche lei stessa, che la faceva piangere. Piangeva per sé stessa e per gli altri, da sola, quando nessuno la guardava. E non ne parlava mai.

 

Aveva maturato molte idee particolari e personali sulla vita e non sapeva ancora dire da dove si fosse originato l’uomo- non credeva totalmente nell’evoluzione, tantomeno in una Creazione. Era certa di un’unica cosa: non esisteva principio, né in lei, né nell’Universo.

La sua era una famiglia cristiana, anche se non praticante. I suoi genitori non frequentavano la chiesa, eppure lo “stampo” era quello e lei era stata iscritta al catechismo come tutti i bambini della sua età. Era tenuta ad andare in Chiesa a volte e quando faceva qualcosa di sbagliato pregava la sera a denti stretti. Pura espiazione infantile.

Si ricordava benissimo degli insegnamenti del catechismo: non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te, e tutti i comandamenti. “Non desiderare la roba d’altri”, importante, “onora il padre e la madre”, altrettanto. Si chiedeva, però, se davvero andassero rispettate tutte quelle regole, perché lei non ci riusciva.

Si chiedeva anche perché questo Dio così misericordioso permettesse il male. Come poteva controllare tutto il mondo con soli due occhi come noi, che siamo stati creati a “sua immagine e somiglianza”? Secondo la bambina era impossibile, come era impossibile che Babbo Natale riuscisse ad entrare in cantina senza avere le chiavi e come era impossibile che in una popolazione di miliardi di persone, ne esistesse una soltanto che avrebbe potuto andare bene per noi per il resto della vita. Credeva semplicemente di credere, ma non credeva.

Per esempio, ricordava con nitidezza il proprio padre che durante la notte del ventiquattro dicembre “andava a comprare le sigarette”; proprio mentre non c’era, appariva Babbo Natale furtivo a lasciare i grandi pacchi regalo in garage. C’era un generale boato di sorpresa e gridolini di felicità tra i fratelli che scendevano le scale spintonandosi e ridendo come pazzi; “è arrivato Babbo Natale!” gridava la mamma dal piano di sopra, ancora intenta a sparecchiare la tavola.

La scena era pressappoco questa: una bambina contenta, un pacco da scartare, un Babbo Natale invisibile che lei non cercava e a cui non aveva mai creduto, nemmeno per un istante. Come sarà poi, in fondo, la vita in generale: pacchi da scartare lasciati da qualcuno, in una costante azione-reazione, senza alcun Dio a cui attribuire i meriti. Solo estrema gioia, oppure estrema infelicità, senza cause supreme da ringraziare o sgridare.

La religione l’accompagnò per tutta l’infanzia, come credo sia così per tutti i bambini di una famiglia cristiana: pregava quando aveva paura, in silenzio, e quando piangeva. Pregava per dire tutte le cose che alla luce del sole non le uscivano dalle labbra, parole che stavano lì a stazionare tra l’interno del corpo e l’esterno come pendolari in attesa di un treno che sembra non arrivare mai. Parole spazientite, stanche, appese alla convinzione che prima o poi quel treno arriverà. Parole di bambina timida.

Lei aveva circa otto anni, o qualcosa di meno, quando iniziò con lentezza a prendere atto della propria incapacità di esprimersi: non parlava con gli sconosciuti, non alzava la mano in classe, non faceva domande a catechismo, anche se la sua mente ancora odorosa d’infanzia pullulava di punti interrogativi. La sua era forse estrema vergogna, quella stessa vergogna che la bambina provava in casa, quando c’erano momenti in cui si sentivano solo le urla: del silenzio, forti grida, un piatto rotto, e dell’altro infinito silenzio. Questa era la sua vergogna, e lei credeva anche la propria colpa: si portava dietro null’altro che quelle scene di vita domestica nel cuore e se ne vergognava sempre, in un costante disagio. Eppure, avrebbe avuto così tante cose da chiedere. Voleva far salire le proprie parole su un treno confortevole dove non si urlava, non si sgridava e non si giudicava, ma le era così tanto difficile trovarlo.

Con insistenza e probabilmente con poco interesse, la sua dolce catechista voleva che la bambina facesse una domanda, una piccola domanda, almeno una, giusto per l’ultimo incontro prima della comunione. La bambina sfinita chiese, con le gote in fiamme e la gola secca, tremante: “come facciamo a sapere che non sia la scienza ad avere ragione, invece che la religione?”.

“La religione non rinnega la scienza e la scienza non rinnega la religione: semplicemente c’è stata una scintilla, una scintilla Divina che ha permesso la creazione della Terra”.

La bambina non aveva creduto più nemmeno al Big Bang.

Credeva piuttosto a un qualcosa che non c’era e che poi è comparso, che forse c’era in un altro modo; come l’acqua che diventa ghiaccio, il fuoco che diventa Terra, senza alcun Dio che crea, ma solo energia che si muove. Alla catechista non lo disse; aveva annuito e aveva fatto silenzio, ovviamente non le era bastato a capire, ma d’altronde forse non era lì seduta che avrebbe potuto capire, a soli otto anni, in una stanza con le sedie scomode e con i crocefissi appesi alle mura scrostate che facevano avvertire una disarmante scontentezza.

Alla bambina non piaceva andare a catechismo e nemmeno alla scuola elementare; odiava fare i compiti, ma se la riusciva a cavare con poca fatica e nessuna insegnante se n’era mai accorta. Lei appariva molto remissiva e già spaventava i grandi: “che cos’ha questa bambina che parla così poco, perché non si riesce a farla ridere” pensavano le sue maestre.

Lei in verità non sapeva parlare: il suo era un mondo che filtrava già attraverso l’inchiostro, in un silenzio pesante e cerimonioso; leggeva tanto e scriveva storie, poi giocava sulle scale della sua grande casa spesso vuota con una fantasia fuori dal comune. La notte però la spaventava: malinconica, la bambina sentiva quasi paura di quel silenzio a lei tanto caro e conosciuto. Distesa nel suo letto prima di prendere sonno dopo l’ossequiosa preghiera nel buio, la bambina non poteva fare a meno di pensare al nulla, al vuoto: pensava a quando niente esisteva, né l’essere umano, né la Terra, né l’Universo, nemmeno il nulla, tantomeno Dio, perché non esisteva alcun concetto. Rimaneva qualche minuto a sognare questo grande e grosso buco nero, questo vortice che sminuiva qualsiasi problema: se qualcosa non andava, lei pensava che era meglio di nulla, meglio che non esistere affatto.  E di Dio, ahimè, la bambina non aveva ancora capito niente.

Una notte era accucciata a fianco di sua madre senza riuscire a prendere sonno, nonostante la favola di Biancaneve fosse finita da un pezzo e il respiro cominciava a diventare sempre più profondo; il padre non c’era e la bambina occupava lo spazio vuoto del grande letto matrimoniale che la mamma avrebbe voluto rendere più stretto: lo voleva tagliare in brandelli quel materasso, e non fare salire nessuno mai più, né la bambina, né i fratelli, né il padre. La bambina respirava quelle leggere onde di sofferenza e non dormiva.

Il padre non c’era quasi mai più la notte nel letto. Chissà dove andava. La mamma non lo sapeva, forse non lo aveva neppure mai chiesto: lei era così, taceva il dramma della vita; questo era il suo peccato di donna, moglie e madre: non aver capito mai in tempo il dramma e averlo accettato sempre com’era, in silenzio. Con gli occhi vitrei, indimenticabili.

Il soffitto quella notte non era mai stato così scuro e la casa tanto immersa nel silenzio. La bambina ancora triste aveva chiesto a sua madre, in un soffio, come sarebbe stato morire. Se sarebbe stato brutto, oppure niente, se sarebbe stato indolore. Se ci si sarebbe sentiti soli (come quella notte), e, nel caso in cui si potesse avvertire la solitudine anche dopo la vita, se lei poteva starle almeno vicina.

Un profondo silenzio aveva attraversato quel buio notturno insinuandosi sotto le lenzuola bianche, mai sporche… poi una debole risposta: “tu a queste cose non ci devi pensare”. Dunque, era sempre così: non c’era dramma, non poteva essercene in quella donna sola perduta in quell’immenso letto nero; aveva solo fatto tacere la bambina, così dissimile da lei, così simile al marito… quell’ultima piccola figlia non avrebbe dovuto più chiedere. Lei a quelle cose non ci doveva pensare, maledizione. Nessuno ci doveva pensare, nessun bambino e nessuna moglie e nessuna madre.

Mai.

Ma la bambina aveva un fiore dentro il petto già sbocciato, e aveva sete.

Non capì mai perché a quella domanda non le venne data alcuna risposta, ma solo un perentorio divieto. Fai silenzio e non ci pensare, a queste cose non ci devi pensare. E se ci avesse pensato che cosa sarebbe successo? Magari pensarci era peccato, più di non pregare la sera, più di non chiedere scusa, più dell’egoismo e della guerra; la bambina ancora bambina negli adulti ci credeva, così per qualche notte aveva provato a fare sogni tranquilli, senza domande troppo nere.

Quando era poi cresciuta di qualche anno, la bambina aveva pensato che in fondo probabilmente non avrebbe mai potuto essere cattolica, soprattutto per non essere costretta ad aver paura della morte, del silenzio, dei peccati.

Non avrebbe mai creduto che Cristo fosse davvero Dio in persona e non poteva credere che la Vergine fosse proprio vergine. Lei credeva piuttosto alla figura del Cristo, e di tutti gli altri cristi, quelli uccisi per le proprie idee.

Gesù era stato ucciso per le proprie idee, con troppa brutalità, a fianco dei ladri: due ladri e Cristo, colpevole solo d’avere la potenza d’una forte idea nella mente e nel cuore. Assolutamente ingiusto.

Lei solo non capiva come si poteva limitare Dio in circostanze spaziali e temporali, credere addirittura che Egli si fosse incarnato in un solo uomo per salvarci, per poi morire crocifisso dagli stessi che avrebbe voluto salvare. Un Dio morto ucciso crocifisso ancora appeso nelle Chiese, a ricordarci quel dolore e quel peccato di cui l’uomo per sempre dovrà pentirsi.

La bambina non poteva credere a tanto: lei voleva che Dio fosse vivo e ancora libero dai chiodi sulle mani e sui piedi, per poterlo sentire danzare tra le foglie e cantare nel vento. Lei credeva in un Dio libero come avrebbe voluto veder libera sé stessa. Può essere che della fede non aveva capito i noccioli, però non avrebbe mai potuto come nessuno può: o si crede ad occhi chiusi, o si dubita ad occhi spalancati. Senza vie di mezzo.

 

Di giorno però l’infanzia tornava ad essere il campo roseo e spensierato di sempre, nonostante le domande, la tristezza e l’infinito silenzio.

Erano tempi in cui si giocava nell’erba intere giornate con la palla, ci si sporcava di fango e di terra e ci si sbucciava le ginocchia senza piangere; quando pioveva ci si inventava modi nuovi per divertirsi, e si faceva finta di essere guerrieri o brillanti attori, e le giornate finivano in un lampo. La bambina aveva un fratello e una sorella più grandi con cui giocare. Come lei, assorbivano in silenzio le onde di tristezza della casa che si propagavano dovunque: loro dovevano solo stare attenti a non parlare di certe cose a scuola, non dire che spesso la mamma era sola e piangeva, non dire che spesso la casa era buia, non dire che spesso le grida coprivano la musica; loro, fratelli, condividevano quei segreti oscuri. Questo era ciò che li legava più di tutto, più del sangue e più del colore degli occhi: la miserabilità di quell’infanzia coperta da troppe ombre. Guardandoli in lontananza, si riconoscevano come fratelli: lo stesso taglio quasi orientale degli occhi neri, lo stesso modo di camminare, lo stesso sguardo profondo. La pelle bianca quasi trasparente che, magicamente, contro ogni aspettativa, al sole si abbronzava d’un marrone scurissimo. Figli, infatti, della Francia del Nord e dell’Italia del Sud. Quando giocavano insieme coprivano il rumore triste e rimbombante della casa, uniti così profondamente dal filo rosso del legame di sangue: anche al buio il filo c’era e li legava, ognuno sapeva dell’altro cose che nessun’altro mai scoprirà, perché erano stati lì tutti e tre a vivere quell’infanzia strana, come bambini orfani e non orfani allo stesso tempo, che condizionerà per sempre le loro vite.

Il colore di quell’intensa infanzia era verde come l’erba e come le foglie in primavera, lucente, e nero come la casa buia e le notti d’inverno; la vita era un continuo flusso di sudore e di fiatone, di gare con le biciclette e di piccoli disastri.

Dell’infanzia la bambina ricordava sempre spesso la propria madre, controvoglia le appariva nella mente: vedeva i suoi occhi vigili ma distanti alla finestra. Sembrava stessero osservando i figli giocare con la neve, ma in verità cercavano dell’altro. Guardavano lontano, ancora la bambina non capiva dove andava quello sguardo troppo lungo. Sua madre era tanto indifesa in quei giorni- mesi- anni di vita domestica, e così tanto testarda, e talmente assente: alla finestra, guardando i bambini giocare, pensava che anche lei sarebbe voluta tornare bambina e giocare con suo padre che le cantava in francese le ninna nanne; perché non era riuscita a costruire una famiglia simile alla propria? Questo si chiedeva la madre alla finestra, cosa ho sbagliato- perché questi figli non possono essere del tutto figli. Senza padre, senza madre, senza nessun amore da guardare. Ma poi scostava la tenda, cancellava il dramma e preparava un bagno caldo.

Del padre, invece, il ricordo della bambina era scarso, sebbene dolce.

 

In quel periodo che assomigliava ad una dolcissima parentesi tra i grandi momenti di una vita, che era l’infanzia, la bambina altro non faceva che sperimentare: sperimentava enormi gioie, al sapore di sudore e pelle abbronzata, piccoli dispiaceri salati di lacrime ingenue, piccole scoperte che sapevano di primo mondo.

La bambina durante la propria infanzia aveva imparato a scrivere, ma non solo: aveva imparato che senza la scrittura, non sarebbe mai riuscita a capire niente.

Lei aveva imparato a scrivere solo per potersi inventare le favole, e aveva imparato a leggere solo per fare sogni più lunghi. Voleva che il silenzio si riempisse di voci diverse dalla propria.

Dopo che aveva scoperto i libri, era riuscita ad esprimere moltissimi desideri sotto le stelle cadenti.

Scrivere la faceva sentire più armata verso gli altri e verso la vita stessa: quando la voce non veniva sentita, l’inchiostro doveva marchiare per forza. Questa fu la prima conquista dell’infanzia: scoprirsi armata d’una passione- era stata una vera salvezza.

Non c’era mai stato un momento in cui la bambina avesse smesso di scrivere, nemmeno da adulta; mai aveva saputo staccarsi dalla carta, dall’odore puro del bianco, da quella prima ed unica penna stilografica con l’inchiostro blu.

Lei scriveva e tornava in sé: non bambina, non donna, non anziana- solo acqua.

Il ritornello musicale intorno alla bambina che scriveva era quello di Battiato, in quel primo CD che aveva chiamato Fetus e di cui lei ne sentiva il suono rimbombare dalla cantina fino alla cameretta; senza capirci niente lo ascoltava, lo sentiva profondamente, ipnotizzata.

Nella cantina di quella grande villetta con un bel giardino c’era una stanza bianca, interamente bianca, dove il padre aveva sistemato un computer e una tastiera. Era il suo angolo di quiete, e da quella stanza saliva sempre della melodia. I suoni erano il rimbombo penetrante della musica elettronica che il padre componeva ed incideva sulle cassette; con i fili delle cassette guaste, la bambina ricordava, lei ed il fratello creavano buffissime parrucche.

Quella stanza era l’angolo della pace ed il padre vi si rinchiudeva quando la tristezza era troppa anche per lui; c’era un odore forte di sigaretta e molti posa ceneri riempiti nelle notti in bianco; la bambina a volte ispezionava la stanza di giorno, quando il padre non c’era mai. Con timidezza, capitava che si sedesse seriosa a suonare la tastiera, ma sentiva di non riuscire. La pratica della musica non le sarebbe mai appartenuta. Vedeva suo fratello suonare abilmente la chitarra mentre lei non riusciva ad intonare neppure una nota, eppure era curiosa, sicché ascoltava sempre tutto e cercava perlomeno di farsi l’orecchio. Suo padre la intimava a provare, canta sopra questa base le diceva, voleva scoprire del talento sotto quella vergogna di bambina seria, ma lei era timida e stava seduta sulle sue gambe a vederlo suonare e le bastava. Sorrideva, diceva ma io non sono brava, e il padre afflitto per quella timidezza inconsueta del sangue del suo sangue non la forzava: le suonava le canzoni fino al mal di testa, fino a che la bambina non si stufava e saliva di sopra e pensava che da grande avrebbe voluto assomigliargli. Non voleva avere un uomo così a fianco, voleva essere essa stessa quel tipo di persona: a volte fredda, a volte brutale, spesso disattenta nei rapporti, ma sempre leale, sempre coraggiosa, sempre forte, sempre sensibile con chi sa cogliere la sensibilità.

La musica aveva poi accompagnato la bambina nei momenti difficili, quando non bastava la scrittura, quando non bastavano i fratelli, quando nemmeno Dio sarebbe bastato mai.

Le grida di un padre e di una madre, un vetro gettato in terra, una calza rotta sull’asfalto, un lettore CD che faceva rimbombare suoni primitivi e parole sconosciute a nascondere la vita per un attimo… soprattutto di lunedì, quando il padre stava a casa per un giorno intero e c’era sempre così tanto frastuono. La loro vita familiare sembrava esistere solo di lunedì, che era il giorno sacro. Il silenzio che abitava la casa tutti gli altri giorni si disfaceva per fare spazio alla messa in scena di quella vita parallela, ovvero della vita che sarebbe stata se il padre fosse stato presente.

Il lunedì arrivava alla bambina come un meteorite, un corpo estraneo che si catapulta sul mondo di sempre plasmandolo, bucandolo e, nel peggiore dei casi, annientandolo del tutto.

Quando il lunedì la famiglia si riuniva per uscire a pranzo, oppure quando la sera si mangiava insieme dopo essere andati al supermercato, la bambina non avrebbe voluto mortificarsi per essere uscita con una calza bucata o con le unghie troppo lunghe, ma accadeva e questo cancellava l’amore che lei provava per il padre, solo per quel giorno, solo perché tutta la famiglia faceva frastuono e non c’era spazio per la sensibilità. Quando era lunedì alla bambina veniva il mal di testa: voleva stare con il padre tutti gli altri giorni, per esempio alla mattina, quando lui la chiamava per salutarla; voleva stare con il padre il pomeriggio, quando a volte le faceva ascoltare la musica, voleva stare con lui quando la prendeva e le diceva di non credere a quello che le dicevano a religione a scuola, perché non si poteva sapere se fosse vero oppure no… ma il lunedì no, lei non voleva stare con il padre: il giorno sacro era il supplizio più oscuro, dove a volte la bambina non parlava affatto.

Respirava la tensione al mattino a colazione, con sua madre spettinata che non fiatava; a mezzogiorno, quando la pasta era sempre troppo scotta; alla sera, quando nessuno parlava e la testa esplodeva davanti a qualche film comico, dove solo il padre rideva. Lei si addormentava sul divano, nascosta tra le braccia della madre, e il giorno dopo del lunedì rimaneva ben poco.

Tutti gli altri giorni infatti si scandivano tra le faccende domestiche della madre casalinga, l’impegno scolastico, i compleanni dei compagni di scuola e l’assenza del padre non era mai fuori dalla norma. La bambina non concepiva l’idea che entrambi i genitori fossero sempre in casa e vivessero sempre insieme, infatti quando andava a casa degli amici ogni volta si sorprendeva e non si abituava mai ai pranzi e alle cene abbondanti, con un padre a capo tavola, una madre che serve il gelato con la panna e un figlio che parla del successo della partita di calcio.

La sua famiglia non era così, ma lei la preferiva comunque alle altre: era speciale. Ricordava le inimicizie della madre con alcune madri dei suoi compagni: la squadravano come se fosse un reietto, non una vittima ma uno scandalo vivente: la guardavano arrivare con la sua Panda bianca e parlavano tra loro, hai sentito che urla ieri, li hai visti i carabinieri? Sicuramente andavano a casa loro, che sciagurati.

E in effetti i carabinieri li aveva chiamati sua madre un giorno, perché alle sette del mattino il padre non era ancora rientrato: si era seduta sul letto della bambina e del fratello, che quella notte avevano dormito insieme, e li aveva stretti mentre parlava con l’agente. Il padre era arrivato nel momento stesso in cui i carabinieri si erano parcheggiati di fronte casa: tutto si era risolto con due risate, complicità tra uomini, ma chiuso il portone alle spalle, era stato rotto uno specchio. I bambini non erano andati a scuola quel giorno, c’erano state le urla, che cosa ti è venuto in mente! –l’unica volta in cui la madre aveva cercato di far fronte al dramma- e tutto si era concluso.

“Tutte le famiglie felici sono simili tra loro; ogni famiglia infelice lo è a modo suo” aveva scritto Tolstoj per intavolare Anna Karenina negli occhi del lettore, e la bambina, amante degli scrittori russi, aveva approvato: l’infelicità di una famiglia è sempre estremamente complessa, diversa dal resto. Un universo chiuso. Poi si vedrà, un buco nell’acqua.

 

I colori della sua casa d’infanzia, la stanza bianca del silenzio, i quadri solenni ed il tavolo della cucina su cui la bambina aveva bevuto migliaia di caffelatte erano come svaniti nel tempo. Cresciuta di appena qualche anno, Andrea non era neppure sicura che fosse mai esistita la propria infanzia. Non la vedeva più, il solco che aveva oltrepassato saltando adesso le impediva di tornare indietro per guardare. Non sapeva mai cosa rispondere quando le chiedevano della propria famiglia, come se si vergognasse di certi vuoti di memoria.

Era solamente diventata una ragazzina di quattordici anni senza orari, doveri né regole, che avrebbe potuto anche vagare tutta la notte per la città senza dover dare tante spiegazioni. I divieti erano durati sempre troppo poco: sua madre non aveva mai avuto polso con lei, anzi, con nessuno dei tre figli. A briglie sciolte, sarebbero potuti scappare come cavalli impazziti, eppure in qualche modo erano rimasti sempre tutti nella stalla, nonostante il cancelletto spalancato.

Il carattere mite della bambina ed il suo innato senso della morale l’avevano di certo sempre aiutata a stare ferma con la schiena dritta, come il padre aveva cercato di insegnarle quando era piccola.

Vagava, cercava, era curiosa, ma sempre con il timore di deformare l’idea che tutti avevano di lei: piccola, timida, brava bambina.

Fingeva solamente di essere così, perché poi usciva di casa esausta, ogni giorno più convinta di volersi togliere di dosso quella purezza che gli altri tentavano di attribuirle. Lei doveva essere il punto di raccolta, neutro, dove la famiglia si radunava. Il punto cieco, bianco, sempre ordinato.

Al liceo studiava molto: trovò altre risposte alle domande esistenziali che tormentano lo spirito umano dall’inizio del mondo, oltre che quelle religiose, innamorandosi totalmente.

Quel meraviglioso atollo che è la cultura l’aveva abbracciata e le aveva permesso il riparo, lontana da ogni futilità la bambina era riuscita a darsi spiegazioni seppure impercettibili riguardo se stessa e il mondo- il senso universale della vita che ruota intorno ad altra vita.

La bambina era entrata appena in un’adolescenza timida e già se ne meravigliava: il mondo aveva preso il colore del sole, talmente forte e luccicante d’abbagliare. Il calore le riscaldava l’anima e tutto sembrava rapito da un continuo movimento e mutamento.

Si può dire forse che l’infanzia è quel momento bianco di purezza religiosa, quando si confida nell’ignoto, e si è fermamente convinti che oltre ciò che si vede esista un mondo nuovo e bellissimo che ci aspetta a braccia aperte, verso il quale quasi vorremmo correre… e l’adolescenza si avverte quando, vestiti di luce, andiamo alla ricerca di questo mondo. La bambina vestita di luce era diventata una ragazza acuta, spinta verso la ricerca ossessiva del senso delle cose. Avrebbe voluto trovare l’ordine che durante l’infanzia le era sfuggito, quello che le era stato negato.

Scriveva tantissimo, sentiva di dover sprofondare per capire. Sapeva bene che solo dal disordine può generarsi ordine, allora appuntava su un taccuino verde e sfilacciato anche il minimo odore, per stare attenta a sé stessa. Ascoltava musica nuova, musica meno leggera, per darsi la spinta. Phil Collins e la batteria che si scatenava, Battiato e il centro di gravità permanente, i Pink Floyd, i Depeche Mode e gli artisti emergenti “di nicchia” che non ascoltava ancora nessuno. Scopriva le terre musicali inesplorate come una cercatrice d’oro.

Insieme al corpo che mutava vi era nella bambina una fioritura angelica di bellissime idee sul cosmo, sulla libertà e sulla giustizia: si stava plasmando in lei quella grande potenza che è lo spirito critico. Ora guardava le cose in un modo così penetrante che si faceva bucare ella stessa, un feedback costante con il mondo: trovava la bellezza e se ne arricchiva, si vestiva di questo splendore che non credeva potesse esistere, tantomeno toccarla così da vicino.

Frequentava il Liceo con grande slancio e dedizione, ma aveva dentro un piccolo puntino nero, la ribellione, che la faceva sentire indistruttibile e insieme completamente diversa dagli altri. Doveva solo sradicarsi da quelle corde fatte di buone maniere, silenzio e sentimento del pudore. Si mortificava per quella timidezza che ormai non le serviva più; adesso scopriva in se stessa anche la trasgressione, il dissenso e la libertà di fare anche la guerra: era concesso tutto nel mondo che aveva cominciato ad abitare. I suoi occhi avrebbero voluto arrivare ovunque.

La bambina studiava bene solo per sé stessa, perché ne era rapita, nonostante pochi insegnanti le avessero mai veramente trasmesso il pathos che la cultura dovrebbe arrecare: lei seduta su quei banchi aveva gli occhi stanchi ma vigili, respirava con tristezza la pesantezza delle lezioni, le voci esauste dei professori, a volte le brutte parole. Trovava sbagliato che negli altri non ci fosse tutto il sole che lei vedeva, per esempio, quando venivano lette le poesie: che cosa non sentivano gli altri, che lei sentiva così prepotentemente? Lei non sapeva ancora che cosa aveva la vita da offrirle e sempre sperava di trovarne un poco tra i libri e le lezioni; avrebbe voluto che al Liceo venisse insegnata un po’ di vita: voleva essere lasciata zitta, a pensare… un quadro davanti, una poesia davanti, cos’è la vita, cos’è la morte, e capire qualcosa, come quando all’asilo la facevano mettere a braccia conserte in silenzio: una punizione dolce, che permetteva la chiusura, l’inflessione, la visualizzazione cosciente di sé.

La bambina studiava scienze umane al liceo statale. Aveva scelto quell’indirizzo solo per cercare di sciogliere i nodi che si sentiva dentro, quella matassa rossa di cui non ricordava l’origine ma che la rendeva schiava. Durante i primi anni di vita possono davvero annodarsi così tanti fili?

Durante l’estate della terza media sua madre le aveva chiesto distrattamente: “ma sei sicura? Fai la scuola per parrucchiere, è meglio. Così mi fai i capelli, appena impari. Se avessi potuto farla io alla tua età!”.

La scuola che aveva deciso di frequentare era una struttura imponente, con fondamenta antiche e dagli spazi ampi, che troneggiava su una collina già verso la periferia della città. La bambina amava andare in quel liceo e le piaceva quell’ambiente austero che privilegiava le donne: erano pochissimi i maschi che vi accedevano, e spesso erano studenti di musica; a volte si vedeva gironzolare nel cortile qualche ragazzo che non apparteneva a quella scuola, ma che aspettava fremendo l’intervallo per fumare una sigaretta con la propria bella- o solo per fare lo sciocco con le scolare. Al suono della campanella delle undici meno dieci c’erano fiumi di ragazze che si affrettavano ad uscire con la sigaretta già in bocca, anche se non si poteva fumare nemmeno in cortile; anche la bambina usciva di tutta fretta- la vediamo ora ridacchiare contenta, con la sua camicetta azzurro chiaro e i pantaloni neri molto aderenti, mentre parla dell’interrogazione scampata per un soffio o di quanto sia noiosa la professoressa di inglese. Tutte si affrettavano solo per non farsi vedere dall’insegnante di Scienze, ex fumatrice accanita e assolutamente legata al rispetto per le regole: vietatissimo fumare, parlare ad alta voce, mettere i pantaloncini, avere le spalle scoperte. Un rigore che la bambina ammirava molto in lei. Sempre ridendo, con la sigaretta ben salda tra le labbra e un foglio scritto fitto per ripassare la lezione seguente, la bambina si cercava di nascondere con le amiche non appena intravedeva la professoressa di Scienze della Terra che usciva a prendere per il colletto le ragazze disobbedienti. La bambina era sempre l’ultima ad essere presa perché non scappava mai. Si teneva stretto il suo diritto al fumo, così stupidamente, come se fosse una sfida: si nascondeva per ridere, ma una volta faccia a faccia con il divieto faceva sempre gli ultimi tiri di sigaretta mancanti, mentre le amiche cacciavano il mozzicone sotto il piede o si allontanavano furtive, fingendo il nulla. La bambina voleva dire visto? Non sono brava. Adesso puniscimi pure.

Eppure, la sua professoressa, con gli occhi di ghiaccio e le mani sottili che terrificavano tutti, la fermava e sorrideva. Era morbida con lei perché la bambina non si spaventava. Quell’insegnante senza figli sarebbe stata senza alcun dubbio un’ottima madre: voleva vedere le ragazze presenti a se stesse, sveglie, pronte alla vita; la bambina apprezzava l’inflessibilità di quella donna. Le aveva insegnato l’arte dell’essere totalmente presente a sé, il misurare bene le parole e il parlare solo di cose che si sanno, perché altrimenti è meglio stare zitti.

La bambina con lei non aveva mai paura, nemmeno quando studiava poco o male: semplicemente lo ammetteva, con quella faccia tosta da prendere a sberle: ho studiato male, ho studiato poco, ma non veniva mai punita. Non sentiva rimproveri, probabilmente perché sembrava sempre cosciente di sé. Mai una volta faceva scena muta, mai faceva perdere tempo. Non ho fatto i compiti, non ho studiato, questo non lo so e finiva la storia. Questo era il puntino nero che la bambina teneva nel cuore, insieme alla marijuana fumata di nascosto al parco o sul balcone della propria cameretta, la musica che parlava di rivoluzioni, gli interessi totalmente particolari e diversi da quelli delle sue coetanee. Il rigetto per l’amore, la convinzione di poter fare tutto da sé. L’orgoglio d’essere una donna capace.

Le sue compagne non potevano capire, la guardavano di sottecchi come se la bambina fosse una strana creatura da tenere sotto stretta osservazione, ma con distacco, da lontano. Ridevano con lei, poi però pensavano che sarebbe stato meglio tenerla solo alla larga, come se la bambina potesse andare a fuoco da un momento all’altro… e invece le diventavano solo le guance rosse.

Era la più brava in italiano, sin dalle scuole elementari, quando scriveva le poesie in rima sull’estate; ricordava con molta contentezza il primo tema della prima superiore: aveva descritto un giardino d’inverno, lo stesso giardino d’inverno della sua casa d’infanzia- che era l’unico dettaglio di cui conservava ricordi nitidi- e aveva preso il massimo dei voti.

“Come scrivi bene, come sei brava” le aveva detto la professoressa davanti agli occhi inviperiti di qualche compagna. Lei aveva sorriso e aveva detto solo grazie. La bambina lo sapeva a quattordici anni, come lo aveva già saputo a sette anni: la sua strada era quella, sarebbe stata sempre quella.

“Se tu parlassi sempre come scrivi” aveva poi continuato la sua insegnante, abbassando il tono della voce e diventando subito quasi severa.

“Lo so, potessi farlo lo fareiaveva risposto la bambina un po’ stizzita.

Questa era la verità: nessuno la capiva mai fino in fondo, probabilmente non piaceva molto agli insegnanti. Sembrava estremamente chiusa in sé eppure talmente aperta allo studio, portata decisamente, con dentro un fuoco che ardeva e che si vedeva da fuori ma che spaventava. Spaventava tutti, probabilmente è così.

Eppure, la bambina non era arrabbiata perché non veniva capita, bensì perché aveva cominciato a comprendere, con una piccola dose di delusione, che il mondo tanto sognato nell’infanzia forse era difficile da scovare, oppure impossibile da condividere: era circondata da molte persone che non nutrivano la stessa sua passione per la bellezza. Il loro era tutto un fare tanto per fare, guardare tanto per guardare, sentire tanto per sentire, con una leggerezza talmente frivola da essere fuori luogo persino a sedici anni. Era tutto ancora caotico ed era un caos che la bambina non riusciva a condividere. Lei teneva per sé la meraviglia, in attesa di qualcuno con cui parlarne, come quelle parole di bambina timida in attesa del treno. Ora per pregare e farle uscire aveva solo imparato a scrivere.

Stava al gioco, nascondeva i suoi tesori e si adeguava.

 

Crescendo, la bambina si sarebbe ripromessa di non dimenticare niente di quanto accaduto durante le torride giornate d’infanzia: avrebbe tenuto in sé per sempre la magia e la tragedia dei suoi primi anni di vita. Non si sarebbe mai dimenticata della landa magica che era stata per lei l’infanzia.

Fu difficile riuscire ad accettare il dolore e la stranezza che a volte vedeva in sé, soprattutto quando gli altri la guardavano senza riuscire a toccarla a causa di quel corpo fragile e di quelle parole centellinate. Anche a ventitré anni, nonostante la maturità, la bambina veniva guardata dagli altri con sospetto, ma ormai questo distacco non le faceva più male. Che fosse una strega? Lei a volte ci pensava e sorrideva: non le sarebbe dispiaciuto.

Un giorno in particolare verrà per sempre ricordato dalla bambina come il giorno della finale accettazione di sé: un uomo che la conosceva bene, e che già la amava da tanto senza essere mai riuscito a dirglielo, l’aveva guardata con dolcezza dopo un attimo di silenzio e aveva sussurrato: “promettimi di non guarire mai. Promettimi di rimanere sempre così magica”. E lei aveva sorriso, poi aveva promesso. Non era guarita dall’infanzia, mai.

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