venerdì , Novembre 22 2024

Raccontami una storia: “Indovina chi viene a cena”

INDOVINA CHI VIENE A CENA

di Patrizia Birtolo

Questi 80 cm di tavolo sembrano il set di un servizio still life per la copertina di Io Cucino.

Mi sono abbonata per un anno a Io cucino, ma solo e unicamente perché, essendo un mensile, l’importo corrispondente era praticamente irrisorio, a fronte del regalo compreso con l’abbonamento: un magnifico portafoglio-agenda rosso con cui ho fatto una gran figura per un sacco di tempo.

Cercavo da un’eternità un organizer così e quell’articolo valeva sicuramente il disturbo di farsi arrivare il periodico tutti i mesi nella casella della posta. Inutilmente alla scadenza del periodo dell’abbonamento avevo cercato di dirottare l’iscrizione su altre testate. Sarebbe stata bella una progressione rossiniana in crescendo, qualcosa del tipo Io c’ho fame, Io mangio o, addirittura, Sazio a Strazio.

Insomma, qualsiasi cosa anziché Io cucino.

Ma niente, il cliché vuole la donna post-moderna incatenata ai fornelli e alle tiepide gioie domestiche come un operaio cinese al telaio di un laboratorio clandestino.

Rosico, non fateci caso. È solo perché non sono brava in cucina che parlo così.

In compenso, sono bravissima ad accettare inviti a cena. Lo faccio con una tale sicura eleganza, con una grazia così collaudata che pochi mi resistono. Nemmeno Giovanni ha fatto eccezione.

E ora eccomi qua, la maliarda nella mansarda.

“Oh, che pensieri” penso, guardandomi intorno avvolta nel caldo abbraccio del soppalco perlinato fino all’altezza del garrese di un levriero afghano.

Pregiati tappeti kilim e puffosi cuscinoni dell’ikea completano la scena. Io nel mio piccolo ci ho messo tanto impegno per scegliere un maglioncino adatto all’occasione. Nonostante sia stata redarguita pesantemente dalle amiche di NON scegliere uno dei miei soliti capi d’abbigliamento color vomito di alieno ciucco, siccome mi sento a mio agio solo coi miei colori, sono andata dritta per la mia strada verso la catastrofe.

Però, andando a casa di Giovanni, ho avuto paura di essere fermata per strada, devo ammetterlo.

Ho sentito alla radio che ultimamente c’è stato un giro di vite per il reato di “oltraggio al colore”.

Le pene si sono inasprite.

Adesso che sono qui mi sono un po’ pentita della mia cocciutaggine. In mezzo a tutto questo bianco, questo panna, questo ecru, questo grigio antracite metallizzato, questo nero patinato e questo verdino color mentina balsamica dei vetri acidati, mi sento a mio agio come un gadget cinese da bancarella di pasquetta sullo sfondo di un ritratto di Mapplethorpe.

Lo sguardo mi cade nuovamente sulla tavola apparecchiata con cura estrema.

I calici brillano alla luce di candele artigianali di squisita fattura, mica robaccia del reparto casalinghi del super. Nell’aria vibra un delicato sentore di patchouli che inebria i sensi.

Il tovagliolo è un capolavoro: è stato piegato come un origami e probabilmente rappresenta una delle composizioni più difficili, da studenti al terzo corso di piegatura dei tovaglioli.

Una creazione così elaborata si può chiamare solo “giunca d’oriente.”

I piatti sono in porcellana di un grigio elegantissimo, così come il sottotovaglia che arriva quasi fino a terra, mentre la tovaglia rosa è puntata con delle piccole cocche artisticamente disposte ai quattro lati del tavolino.

Al centro, campeggia una composizione che farebbe sbiellare Arcimboldo Arcimboldi.

Arance, limoni e lime incisi con scarificazioni degne di figurare su totem polinesiani sacri fanno da base a sontuose rose di carciofi, in trono tra foglie di carice e aspidistra. Boccioli di ravanelli occhieggiano sfalsando i petali secondo fantasie optical anni ’70, in un delizioso contrasto di acceso fucsia e lattescente candore, mentre altri fiori composti da più strati di carote smerlate ad arte fanno capolino qua e là, impazienti di mettersi in mostra. I narcisi di cipollotti sono quasi commoventi. I loro precisi intagli a zig zag geometrizzano il centrotavola.

Guardo più attentamente e il cuore mi dà un leggero sussulto.

Una citazione, che finezza!

Come segnaposto lui ha infilato in una di quelle specie di cappottini che rivestono a tavola le bottiglie – e che nello specifico barda un Gewürztraminer del ‘17 – i fronzuti racemi non ancora fioriti dell’ortaggio Brassica Campestris, varietà Cymosa.

Insomma, delle cime di rapa.

Sì, dovete sapere che il mio nomignolo – nell’intimità e non solo – è Cime di rapa tempestose. Cime tempestose perché ho studiato letteratura inglese. Inframezzato con le rape perché sono un’oriunda pugliese.

Lui è romano, accidenti. Al secolo Giovanni Ponti. Quando mi ci metto – o mi cimetto, a seconda – sono capace di intravvedere un segno del destino in qualsiasi cosa. Tipo: siccome il mio film preferito è I ponti di Madison County vuoi vedere che è lui l’uomo della mia vita? Cose del genere.

Capirete quindi perché un brivido d’inquietudine mi percorre la schiena quando mi accorgo che io, invece, come segnaposto ho un enorme baccello di fava crudamente infilzato tra i pizzi del grembiulino di un’altra bottiglia rivestita con una divisa di foggia muliebre. L’imponente baccello s’alza maestoso e prende tutta la scena senza troppi complimenti. Forse non è elegante quanto la phalenopsis o la calla in cui avevo sperato io, ma certo non passa inosservato. Che poi: rammentando il sottotesto leggibile per un autoctono capitolino nel termine calla, allora grazie, la calla anche no.

Niente fiori ma opere di pene. DI BENE! Volevo dire di bene, volevo. Non ho bevuto niente, ancora, non ho nemmeno annusato il tappo e già strapenso, straparlo e mi gira la testa come sul tagadà.

Deve essere quest’atmosfera particolare, forse il patchouli. Paciuli. Ciuli ciuli ciuli…

Non è possibile.

Ma come, così? Già al primo appuntamento?

Non mi vorrà mica PORTARE A LETTO??

Ammettiamolo, non sono mai stata insignita della fascia di Miss Perspicacia. Quando è stata distribuita quella qualità la mia anima era a fare la fila in posta, probabilmente.

La tavola, tutte quelle attenzioni, tutto lo studiato allestimento adesso mi mettono in una somma agitazione, mi gettano in un’ansia indescrivibile. È come un gigantesco anagramma che termina col punto esclamativo della fava, tutto mira, tende e incanala verso una cosa sola. Quello.

Tutto in chiave (ohsssignore) metaforica, certo, ma neanche tanto implicita, a guardar bene.

Questo nucleo coerente di forze ed elementi favorevoli sul quale poggiare per INTRODURSI in uno scenario strategico ritenuto complessivamente estraneo, ostile o scarsamente accessibile, altro non è se non una…

“…Testa di Ponte…” bofonchio a denti stretti, come chi finalmente trova la chiave (ohsssignore, ancora) di lettura di tutto un arcano. Ma in questo momento sembra più un insulto rivolto a Giovanni che lo scioglimento di un misterioso enigma.

Soppeso con cautela tutte le vie d’uscita, ma ormai mi sembra troppo tardi per qualsiasi escamotage.

All’improvviso dall’impianto in filodiffusione parte una suadente musichina new age.

Mugolii di megattere in amore, conosco questo cd.

Mi sento braccata.

A questo punto mi giro fulminea verso la cucina. Giovanni è riemerso dopo la prolungata eclissi ai fornelli e adesso avanza verso di me con lo stesso sguardo predatorio e magnetico della pantera della Duracell. Quella che dura di più. Molto, di più. O era una moltitudine di coniglietti rosa? Coniglietti che si moltiplicavano all’infinito… Beh certo i coniglietti sono arcinoti per la capacità di riprodursi a raffica, non è così? Non so, non mi ricordo più niente.

Fra le mani lui regge un vassoio contenente l’arma letale. Anzi, un tris di primi per un’offensiva perfetta:

Bigoli al tartufo nero, Gnocchi fontina e tartufo, Risotto al tartufo bianco alla marchigiana.

Per me è la fine.

L’ultimo barlume di lucidità lo uso per chiedermi: ma è tutta una coincidenza o qualcuna delle amiche fedifraghe mi ha fregato?

Chi è quella che ha spifferato tutto riguardo i danni collaterali che mi infligge il tartufo?

Dopodiché basta, distanza di sicurezza saltata: ormai ragiono con i feromoni, i neuroni hanno incrociato le braccia e stanno beatamente a guardare. Giovanni mi osserva meravigliato:

“Piccola?? Accomodati, dai, che ti servo il primo. Aspetta! Aspetta…Ti sposto la sedia.”

Mi si avvicina, scosta la sedia dal bordo del tavolo con un breve gesto elegante e felpato. Io lo guardo con occhi sognanti, il profumo del tartufo ha già cominciato a entrare in circolo.

“Sì, Giovanni” sussurro con voce di gola, leggermente arrochita. “Va bene qui, Giovanni?” domando docile e arrendevole come un bradipo lobotomizzato, languorosa come una gatta che aspetta i croccantini da tre giorni.

Mi rammarico di non essermi messa una gonna, perché questa era proprio una serata da tubino con spacco, eh. Poi penso ai miei acquisti in fatto di gonne. L’ultimo in ordine di tempo è stato un miniabito per un capodanno, mi sono infilata in un cannolo di stoffa che con tutti quegli strass luccicanti mi faceva sembrare un’orata. Andando ancora a ritroso come gonne bisogna risalire al completo della Prima Comunione.

Mi siedo composta, lo guardo adorante, sbatto le ciglia, interseco le ginocchia a x, ma porco mondo, neanche una bretellina da far scivolare dalla spalla, impugno il cucchiaio.

Ecco, lo sapevo. Non ho ancora assaggiato il primo boccone che alla mia destra è già apparsa Aretha.

Certa gente quando parte in quarta sente le farfalle nello stomaco. Altri vengono trascinati da un vortice di violini tzigani.

Io visualizzo Aretha Franklin.

Mi guarda allusiva, come per dire: lo sai che quando mi visualizzi poi le cose si mettono al brusco…

Lo sai cosa ti succede…

Difatti…

Son lì lì per assaporare la prima cucchiaiata che comincio a sentire “quella” musica.

 

Lookin out on the morning rain
(Ah-ooo)
I used to feel so uninspired

(Ah-ooo)
And when I knew I had to face another day
(Ah-ooo)
Lord it made me feel so tired

 

Oh, Lord! A ogni ah-ooo del coretto di Aretha io sprofondo un po’ più giù in questo turbine di lussuria e desiderio.

Forse l’onomatopea giusta del coretto è ah-ooo ma in realtà le mie orecchie sentono un ahòòò molto più romanesco e ancora più accattivante. Davanti agli occhi comincio a vedere le stelle più bbrillarelle del firmamento, un friccico mi percorre la spina dorsale dalla prima vertebra giù giù fino in fondo, là dove non mi son mai pentita di non essermi fatta tatuare un tribale. Scuoto i capelli, ridacchio, mi spazzolo il risotto al tartufo, afferro una ciocca e comincio a giocherellarci, ridacchio di nuovo.

Dal labiale intuisco che Giovanni sta parlando, ma è un video senza suono. Mi concentro su quelle labbra che comincio a vedermi stampate dappertutto come timbri su una raccomandata smarrita in giro per l’Italia. Timbri ovunque, sopra sotto davanti di dietro, la Regina del Soul che mi invita a lasciarmi andare, ah-ooo, sempre più giù…

Before the day I met you
Life was so unkind
But your love the key to my piece of mind

 

Comincio a immaginarmi vestita solo della mia modestia e pochi altri accessori: un malizioso cappellino con veletta, due mezze ciliegie candite per nascondere i pirimpolli, una spruzzata di panna montata spray sul lato B a imitazione della coda di leprotto da sigarettaia di club privé equivoco, e per perizoma una stringa di liquirizia della Haribò.

Dopodiché evvvvvaii, mi appendo al lampadario e ne faccio il mio trapezio, o se no posso usare il bastone che fa da tutore al Potos che c’è là nell’angolo come palo per la lap dance…

Cause you make me feel
You make me feel
You make me feel
Like a natural woman (woman)

 

Siamo all’apice del parossismo. Massì, Giovanni, prendimi e andiamo, andiamo verso l’infinito e oltre… Facciamolo in tutti i modi in tutti i luoghi e in tutti i laghi, andiamo in Finlandia, che è la terra dei 1000 laghi, NO, no: ci ho ripensato, portami in Giappone, facciamo tutto il tour completo dei Love Hotels, li voglio provare tutti. Voglio quello costruito come una Rocca medievale, quello a forma di Nave spaziale e quell’altro che sembra una Tenda nomade. Proviamo anche il Jumbo Jet, la Torre di Pisa, la Piramide, il Castello di Neuschwanstein, quello dei puzzle da 3000 pezzi, poi voglio la Casa Bianca, il Transatlantico britannico, e naturalmente l’Hotel ambientato nel Giappone dei Samurai, il Mulino a vento coi tulipani di plastica, il Campo da Tennis, e sì, ma ssssììì ma certo, anche quello tipo Terme dell’antica Romaaaaa…

A ogni tipo diverso di Love Hotel mi viene da percuotere il tavolino con energiche manate che fanno traballare tutto, mentre rovescio la testa all’indietro emettendo suoni gutturali…

When my soul was in the lost and found
You came along to claim it
I didn’t know just what was wrong with me
Till your kiss helped me name it
Now I’m no longer doubtful
Of what I’m livin’ for
And if I make you happy
I don’t need to do more
Cause you make me feel
You make me feel
You make me feel
You make me feel like a natural woman (woman)


Oh mamma ecco un’altra esplosione adesso sembro proprio Meg Ryan nella scena cult dell’aperitivo in Harry ti presento Sally !

Oh baby what you done to me!
(What you done to me!)

Già, Baby, QUALE varietà di tartufo hai messo in questo risotto? Lo voglio sapere…

You make me feel so good inside
(Good inside)

Sì, decisamente good inside…

And I just wanna be

(Wanna be)
Close to you
You make me feel so alive

Mai stata più alive di così, lo giuro…

You make me feel
You make me feel
You make me feel like a natural woman (woman)
You make me feel (hey)
You make me feel
You make me feel like a natural woman (woman)
You make me feel (hey)
You make me feel…

 

Al terzo botto vado in deliquio, rotolo giù dalla sedia come una bambola di stracci, tipo Skye Sweetnam quando scivola giù dalla poltrona verde nel video di Number One (da vedere).

Quando è troppo, è troppo, l’organismo non è più abituato a certi ritmi ed ecco che sprofondo nelle tenebre dell’incoscienza trascinandomi dietro piatto, tovaglia e centrotavola con annessi e connessi di agrumi, rape, carciofi, sedani e melanzane.

Lo devo confessare: dopo l’estasi, intendo proprio l’estasi con la O maiuscola, certe volte mi viene un attaccone di narcolessia.

Quando tocco terra, sembro la caricatura della Bella Addormentata che riposa beatamente, sorriso ebete da orecchio a orecchio, in mezzo alla Valle degli Orti.

Ma prima di crollare un ultimo sprazzo di lucidità: faccio in tempo a scorgere, in questa discesa a precipizio verso il Nulla, Giovanni esterrefatto, con la bottiglia in mano rimasta a mezz’aria.

O a mezz’asta?

La bottiglia di cui vi dicevo a inizio serata, quella del suo pregiato Gewürztraminer da sfondamento.

Sinceramente, sarebbe stato meglio un Brunello del ’96. O no?

Insomma, il solito bianco profumato all’immancabile sentore di vaniglia, dolce ma non melenso, ma che stufita.

La vaniglia dialoga (ma non è detto che si capiscano) con l’altra componente, l’ananas del borokoro, sicuramente superiore alla papaja del koukonko, quindi non fatevi ingannare. Vi state chiedendo dove sono ‘sti posti? Ma è chiaro no, se è un Gewürz saranno in Trentino.

Comunque non ve lo consiglio. Ma no, non il Trentino. Quel vino, intendevo dire.

Circola voce che porti una certa sfiga.

Lo chiamano “il bianco che ti fa andare in bianco.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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