sabato , Novembre 23 2024

Raccontami una storia: “Il valzer delle ore perdute”

Il valzer delle ore perdute

di Giuseppe Bianco

 

C’è sempre tempo fin quando

t’accorgi di non averne più.

 

 

 

L’epilogo delle mie giornate balorde è scritto su di un copione che oramai conosco a memoria ed è inevitabilmente sonorizzato da mia moglie e dalle sue assurde e sincopate grida. Le solite scenate ispirate dal mio   misero, sparadrappato e zoppicante stipendio.

Mia moglie è convinta che i nuovi poveri, nell’anno del signore  duemiladiciannove, guadagnino mille e duecento euro  al mese; se così è, colloca la nostra famiglia in uno squallido contesto sociale. La posiziona al limite della strada, in bilico sul baratro. Lei stessa si definisce un’equilibrista  su di un’assurda linea tracciata dalla sua  fantasia, che partendo dalla sua mente arriva fino al limite estremo della vivibilità civile ed al posto dell’asta per l’equilibrio fra le mani stringe i suoi figli.

Il mio orario di lavoro va dalle quattro alle cinque ore al giorno e, sono pure troppe!

Non c’è possibilità di fare qualche ora in più per incrementare la trista retribuzione, ma se anche ci fosse, non penso che sarei capace di restare fra i maleodoranti box qualche ora in più.

Un punto essenziale delle rivendicazioni di mia moglie si basa proprio su questa scarsità di ore lavorative.  Lei insiste e persiste sulla necissitàbisogno (dice proprio così: necessitàbisogno!), di trovarmi un altro lavoro per puntellare la nostra traballante economia.

Oramai pure lei deve avere imparato il copione a memoria ché lo recita meccanicamente.

A differenza di qualche anno fa  nelle sue parole c’è più rassegnazione che rabbia. Automaticamente e con poca passione passa da un argomento all’altro. Certe sere sembra parlare in playback e

come quei vecchi cantanti non abituati alle nuove tecnologie muove le labbra in anticipo o in ritardo rispetto all’uscita  delle sue amare e scontate parole. Aveva ragione mio padre: le donne sono dolci, suadenti, sexy e sinuose, fin quando non diventano mogli e poi madri, una volta rientrate in una di queste categorie lasciano sopraffare le dolci caratteristiche da un’incazzatura congenita, con cui dardeggiano, fino allo spasimo, mariti e figli.

Forse aveva proprio ragione lui!

 Quasi quasi esco, vado a bere un goccino.

Nel bar, la solita atmosfera di fumo e di balle  riempie le mie narici e deflagra nei miei canali uditivi. Tutti eroi nel bar: abili nuotatori, ieratici portatori di croci alibi dei loro fallimenti, giganti in cerca  d’amore, pensionati con le patte chiuse per lutto che raccontano della loro ultima avventura. Già! in questo bar di piattole e d’illusi è davvero una serata normale. Per contro io sono  alla quinta birra, al terzo bicchiere di vino e al sesto grappino. Fra qualche secondo non solo smetterò di fagocitarli, ma comincerò a sentirmi anch’io un cavaliere della tavola rotonda, un don Chisciotte di passaggio, il San Giorgio che uccide il drago. Diventerò un altro pezzettino di questo prosaico puzzle che ogni sera se pur faticando riesce a creare una sua immagine. A volte riscoprendomi a pensare come parte integrante di un disegno che in fondo non mi piace  la paura di non poter cambiare s’impadronisce di me, pensando poi a tutti i minuscoli bruscoli che non fanno parte e non formano nessun modo di essere, trovo in me la ragione  di essere fiero di quel quasi nulla, che tutto sommato è migliore del niente, credo sia migliore del niente.

Ad un certo punto, oramai pieno di liquido infiammabile,  come se mi galleggiassero dentro,    arrivano alla testa parecchi punti interrogativi, parecchie domande:   cose strane che tendono a riportarmi nella realtà da cui faticosamente riesco sempre ad  uscire. Per fortuna, per piacere, non semplicemente per dimenticare come spesso sbraita mia moglie. E poi cosa avrei da dimenticare?

Il mio lavoro?

Il mio passato?

Il mio futuro?

I miei amici?

I miei figli?

I miei guai?

O è proprio la voglia di dimenticare che cerco di dimenticare?

Bevo per bere tutto qua.  Non giustifico chi cerca ad ogni costo un motivo per un qualunque dannoso vizio; un vizio è un vizio, e non ha nessuna spiegazione ed è tale poiché non ha nessuna ragione di essere.

Quando poi il cervello comincia a galleggiare divento letterario, sparo sentenze degne di un filosofo, peccato che poi nel tempo a venire non me ne ricordi. Chissà quanti filosofi vorrebbero dimenticare le cose dette per campare?  anche in questo il fato o chi per lui nei miei confronti ha cercato di rimediare, benché le cose che dico sono vere e non mi aiutano per niente a campare.

L’onirico viaggiare del mio cervello mi sputa nella  realtà di domani, se pur stranito,  mi ritrovo nei miei box, con lo sterco canino che quasi mi arriva alla bocca, non mi resta che un grappino per rimandarlo giù, un ultimo grappino, poi ritorno a casa.

Circumnavigo il mio quadrante, bevendo, fumando, bestemmiando, raccontando balle, giocando a carte: se è una cosa giusta non lo so, non me lo sono mai chiesto. Vivo qui il mio presente, al riparo dalle delusioni, dal sole, dalle persone che so che non mi capirebbero. Aspetto  che le mie ore passino, se un futuro c’è, passerà di qua, se non c’è, non passerà!

Eppure la persone che mi girano attorno mi fanno pena, sono convinto e nessuno potrà mai dissuadermi della loro gelosia. Sono l’oggetto delle loro maledizioni, sono quello che loro vorrebbero essere; è la mia baldanza quello che più li irrita, la mia convinzione, l’orgoglio della mia disperazione ed il sublime atteggiarsi dei miei bassi comportamenti. Sono quello che sono e difficilmente cambierò:  colui che nasce tondo in nessun modo muore quadrato.

Un altro grappino, poi torno a casa!

 

Casa mia, casa mia.

Mi è rimasta appena la forza di aprire la porta. Vorrei essere già  nel letto, ma fra me e la mia camera c’è un ultimo ed inevitabile ostacolo: mia moglie!!! Mi scoppia davanti e con la potente ugola da cantante rock mi ricorda i miei doveri calpestando i miei diritti. Vorrei ribellarmi, difendermi, vendere cara la pelle e le palle, ma la poca forza  rimasta ancora nelle mie stanche membra serve a togliermi le scarpe, almeno quelle, e parcheggiarmi nel letto.

Anche se le orecchie infiammate dalle grida di mia moglie mi fischiano, ho finalmente spento il motore e mi sono sdraiato sul letto ad aspettare il sonno. Comincio a sorbire la mia solita ultima birra del giorno.

Il sonno: gran bella invenzione, arriva e come niente si porta via tutto e tutti … ah meno male che c’è!

Ancora pochi sorsi poi potrò tranquillamente dare l’addio a quest’altra giornata, a quest’altro attimo di eternità    che mai più ritornerà.

Hmm … sto  partendo per le celesti praterie, anche se questo vento del cavolo mi sibila nelle orecchie  peggio delle parole di mia moglie. Le tende  appese alla finestra di fronte al mio letto attraversate da invisibili correnti sinuosamente si muovono: il vento dev’essere forte, noto che la sua intoccabile forza sta muovendo anche il lampadario. La luce della abat-jour sviene per poi subito riprendersi per poi subito risvenire. La porta appena aperta viene subito richiusa buum. Il suo sordo rumore  partecipa allo sgretolamento dei miei stanchi e stufati coglioni. Stasera il vento si sta impegnando davvero, eppure il tempo era buono, mi sembrava di aver lasciato in cielo una luna sorridente e grassa.

Fischia il vento, urla la bufera, mi ritornano le note di un patriottico canto imparato a scuola  mentre il vento entrato sotto le coperte si comporta come il coinquilino del mio letto, a suo tempo sedotto e poi abbandonato da mia moglie. Grazie al cielo se ne stufa presto, lo sento di nuovo sbattere la porta, mi sembra addirittura che muova le lunghe ombre attaccate alle pareti della mia stanza. Di nuovo il rumore della porta Buum, poi un’ improvvisa folata spalanca la finestra facendo entrare la prosperosa luna nella mia stanza.

 Per fortuna che c’è il sonno, dicevo.  Mi permetto di aggiungere Quando certi sogni  non te lo vengono a disturbare!

Il vento oltre ad entrare senza  alcun invito, s’é portato con sé una nuvola di polvere. La disperderà per la stanza, la poserà in ogni angolo, dappertutto. Comincio ad  immaginarmi la faccia e le parole della mia signora quando scoprirà l’infarinatura. Tiro un altro sorso e mi giro dall’altro lato, dovrò pur dormire prima o poi.

Niente.

Mi rigiro di nuovo per guardare nella direzione  in cui pochi istanti fa cominciava a prendere forma il viso minaccioso e adirato di mia moglie, comincio a sentirne anche le parole. D’improvviso notando una cosa strana interrompo ogni movimento e ogni pensiero:  la polvere portata dal vento nella  mia stanza, invece di disperdersi in essa sotto forma di minuscoli bruscoli, come prevedevo, come era normale che fosse, sembra raggrupparsi, prendere corpo. Sarà la grappa, la mia ultima birra, ma mi sembra di distinguere nella penombra la sagoma  di un grosso uomo. Le piccolissime particelle, instancabili, continuano a formare, a delineare, si uniscono alla perfezione fino a dare corpo a qualcosa/qualcuno che sembra un uomo.

La misteriosa cosa/creatura è rivolta verso la finestra, io sono alle sue spalle troppo stanco e ubriaco per considerare vera una simile scena e riuscire a spaventarmi.  Un cavernoso mugugno simile al verso di un orso in amore accompagna i suoi plateali movimenti.

Nel buio resto all’impasse,  non so quale siano le intenzioni di questo immane visitatore notturno, ammesso che sia vero! Non  riesco a capire neanche se mi ha visto. Lui continua a muoversi senza nessuna preoccupazione come se fosse solo. Ecco che guarda la luna e alza le grosse mani al cielo tirando su il mantello legato ai polsi. Lascia volare un altro ruggito,  potrebbe essere il suo modo di sbadigliare?

Ecco, si gira.

Adesso sono sicuro ha avvertito la mia presenza.

Nonostante l’oscurità comincio a distinguerlo bene e sono sicuro che a questo punto anche lui mi distingue bene. Mi è di fronte canuto e grasso, il suo viso è contornato da una lunga e spelacchiata barba anch’essa bianca.

Allarga di nuovo le braccia e con esse  il mantello scoprendo un mastodontico corpo: un voluminoso pancione gli prospera oltre la grossa cintura.

Ha una cornucopia appesa ad un fianco, tenuta su dalla spalla tramite una spessa cinghia. La cornucopia a differenza di tutte le altre vaganti per il mondo è aperta sul fondo e lascia fluire  dei numeri, i quali non raggiungono cifre infinite, dall’uno arrivano al dodici per poi ricominciare. Senza mai fermarsi  girano attorno al vecchio e ritornano nella cornucopia.

Procedute dai soliti ruggiti, mugugni e smorfie varie, dalla bocca di questo balzano essere cominciano a venire fuori delle parole.

“Non temere. Sono qui per mostrarti l’inutile andare dei tuoi  vaghi pensieri, per parlarti di qualcosa che mi appartiene!”.

Sono tranquillo, la sua voce  è molto più loquace di quanto mi aspettassi, molto più ascoltabile di quella di mia moglie,  sembra non avere facinorose intenzioni.

La creatura allarga di nuovo le braccia. La sua grande ombra riempie tutta la stanza, si stampa su tutte le cose compreso me. Mi avvolge, mi solleva e, accorgendosi del  disagio o paura che comincia a salirmi riprende a parlare: “Non devi avere timore, devo solo mostrarti una cosa. Ti porterò dove nessuno è stato mai, da qualcuno che conosci o almeno credi di conoscere molto bene.”. La sua  cavernosa  voce come la sua ombra riempie la stanza. Conclude il compatto discorso  con un invito intimato che non riconosce nessun diritto di replica: “ Vieni!”.

Mettendosi di spalle si abbassa davanti  a me lasciandomi intendere di attaccarmi  alla sua schiena. Gli  circondo il collo con le braccia e con le gambe mi tengo ai suoi fianchi,  come quando da bambini si giocava a cavallo e cavaliere. Andrebbe tutto bene se non ci fossero  questi numeri in circolo a darmi uno strano fastidio.

La creatura va verso la finestra e prima di rendermene conto spicca il volo con me sulle  spalle.

Voliamo.

Decolliamo in verticale,  come se volesse portarsi più in alto dei tetti delle case, dei campanili e delle torri, prima di prendere una direzione.

Vorrei chiedergli dove stiamo andando ma ho paura di interloquire: l’uomo sembra parlare con i suoi pensieri.

Voliamo sulla città  diretti verso un cielo terso, nebbioso, scuro. Andiamo che è un piacere ma costretto dal vento contrario devo stringere forte fra le braccia la testa di costui, ho paura che mi perda in qualche folata più violenta. I suoi capelli mi volano in faccia, mi coprono gli occhi, a tratti m’ impediscono di vedere. M’infastidiscono quasi quanto questi odiosi numeri.

Vista da qui la città sembra una di quelle cartine geografiche  scolastiche tanto odiate da me. Una di quelle cartine che spudoratamente scoprivano i miei poco orientati sogni: non distinguevo mai quale fosse il nord e quale fosse il sud. Scioccamente m’illudevo che girando la cartina  il nord diventasse sud ed il sud diventasse nord. Queste cose  non le potevo raccontare alla maestra, mancavano di senso logico ed erano poco creative. L’ho capito poi, il nord non è nord soltanto perché si trova al nord di un dato paese, e  il sud non è sud per caso, per contro da quassù il nord ed il sud sembrano soltanto due punti, due direzioni opposte e niente più.

Il vecchio dal viso cinereo continua ad andare. Io come un pidocchio sono attaccato ai suoi capelli e non li lascerò, non li mollerò fin quando sotto i miei piedi non sentirò la durezza della terra.

Palazzi, case, di nuovo palazzi, campagne, autostrade, tutti abituali disegni della mia cartina geografica. Tutto al proprio ed abituale posto, tranne un fiume  mai notato prima, il quale mi colpisce per la sua immanenza. Sembra scorrere sospeso nel cielo. Con i suoi spruzzi, i suoi schizzi e i suoi giochi di colori è davvero bello, tanto bello da non sembrare vero. Sembra disegnato, irreale, finto. Il corso d’acqua deve avere attirato anche l’attenzione del mio  onirico amico, di fatti è verso il fiume che si dirige.

Speriamo che si ricordi di me sulla schiena e non si tuffi!

Allarga di nuovo le grandi braccia,  per poi indicarmi con l’indice un uomo seduto sulla riva, mi chiede: “Lo vedi? Lo sai cosa sta facendo?”

“Starà pescando!”, rispondo io  per sdrammatizzare.

Il volatore incurante della risposta dirige le nostre vite verso quell’ignaro uomo.

 

Quello che all’inizio era un sogno o sembrava tale sta diventando una cosa reale, tanto reale da includermi paura, angoscia, voglia di tornare da mia moglie.

Avanzo qualche proposta: “Non ho più tempo, mi riporti a casa?”

“Ricorda”, è di nuovo la sua voce: “C’è sempre tempo fin quando t’accorgi di non averne più!”.

I suoi proclami, questo è certo, lasciano sempre poco spazio ai miei pensieri. Lo manderei al diavolo  se non fossi attaccato alla sua schiena!

Ci siamo avvicinati all’uomo sulla riva, scendiamo.

Finalmente tocchiamo terra. Siamo alle sue spalle.

Nuova interrogazione!

“Lo vedi adesso cosa sta facendo?”. Poi tace e mi guarda di traverso, attende una risposta, gliela devo dare.

“Si!”, gli dico.

Mentre le note di un valzer cominciano a diffondersi nell’aria contribuendo a falsificare ancora di più l’atmosfera irreale di questo sogno così improbabilmente  vero, il volatore in silenzio continua a guardarmi di traverso. Vuole sentire da me quello che sta vedendo: “Allora mi dici che sta facendo?”.

Pur se mi trema la voce e sto per ingolfarmi, mi resta da fare una sola cosa: raccontarglielo.

“Sta … sta staccando le ore dall’orologio, o meglio, i numeri. Stacca i numeri che rappresentano le ore, poi li accoppia, li pone nel palmo della sua mano  le guarda ballare al ritmo di questa musica vibrante nell’aria e le lascia cadere nel fiume. Dev’essere proprio un imbecille!”.

Ottenuta la risposta, il mio incubo mi trascina davanti all’uomo e mi chiede: “Lo riconosci?”.

Un trasalimento improvviso m’impedisce di rispondere, lo riconosco certo, potrei giurarlo … l’uomo in questione sono io. Mi dimeno, mi agito, cerco delle spiegazioni che naturalmente mi volto a chiedere a colui che mi ha portato fin qui.  E se  pur posso giurare di non essermi mai addormentato mi ritrovo nel mio letto. Cerco l’uomo nella penombra della stanza, non c’è!?!?

Afferro la bottiglia del whisky, bevo pochi sorsi, la sbatto contro il muro, ne sento  il rumore, non sto sognando!

Cerco conferma! Vado in camera di mia moglie.  La sveglio, la scuoto,  le chiedo: “Ascolta, sei tu o sei un sogno?”. Lei risponde con la sua solita dolcezza.

HHHHHAAARGGGHHHHAAAARHHHHHGHHHETRRRRRRRRRRGGG.”. Sono sicuro è lei non sto affatto  sognando!

Guardo la sveglia  sul comodino e come in quella del sogno mancano dei numeri.

Mi vesto in fretta, devo correre fuori, devo correre verso il fiume che non c’è. Devo capire cosa sta realmente succedendo. Certo non volo, ma poi del resto non era così lontano, è stato il vecchio a fare degli enormi ed inutili giri. Ci metterò qualche ora in più ma devo andare.

Corro nella nebbia non distinguendo bene le cose che mi circondano, ma sento che sto andando nella direzione giusta, certe cose si avvertono. Dopo il ponte siamo andati a destra, poi  a sinistra  e di nuovo a sinistra! Me lo ricordo bene. Non   sono ancora rincoglionito, sarò un po’ instabile sulle gambe, ma non dondolo come un coglione. Questo è poco ma è sicuro!

Il fiume, ecco il fiume!

Per la seconda volta in una notte sono su di un fiume che pensavo non esistesse,  non ci avrei giurato. A essere sincero speravo proprio di averlo sognato.

Accidenti ci sono ancora io sulla riva a buttare le mie ore.

Devo correre, mi devo fermare, non posso lasciarmi fare questo.

Sono alle spalle di me stesso, mi afferro, mi giro.

Non sono io, è un vecchio dal viso intonso.

“Cerchi qualcosa?”, dice.

Mi scuso, non posso fare altro, penso di non poter fare altro. Alzo il bavero del cappotto e mi avvio verso casa oramai convinto che il sogno, nonostante tutte le reali coincidenze fosse stato solo un brutto sogno, niente di più.

Sono oramai diretto verso casa quando  fendendo la nebbia arriva  alle mie orecchie la voce di quell’uomo che credevo essere io: “Ehi … se hai perso qualcosa nel fiume è inutile che la cerchi qui. Potrà fermarsi su qualche sponda, potrà rimanere impigliata su qualche sasso, potrà arrivare fin dentro il mare, ma mai più, mai più tornerà da te!”.

 

 

 

 

 

Giuseppe Bianco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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