FIERA DI LEI
di Elena Coppari
Si dice che il cervello chiuda i ricordi sgradevoli in comparti stagni, difficili da raggiungere.
Per parlare di me devo prendere quel diario, sigillato in una busta di plastica, avvolto in una stoffa, chiuso in una valigia, in soffitta.
Quel diario è un osso bianco, e come le vecchie sepolture che vengono riesumate, devo dargli una nuova collocazione.
Una sistemazione meno importante, meno ingombrante, perché ho tanti nuovi, dolorosi, bellissimi ricordi.
Voglio far posto.
Prendo in mano il diario e mi ritrovo quattordicenne: magra, coi capelli confusamente lunghi sule spalle, del colore della corteccia, dal carattere vivace e in formazione.
Mi rivedo in cameretta, distesa sul letto a scrivere pagine su pagine, a piangere, a sperare, a raccontare di un ragazzo, poi di un altro, come se ogni volta fosse amore e non un sospiro. Sfoglio velocemente, leggo il dolore: è incredibile quanto io abbia sofferto e come tratti l’argomento fra sguardi azzurri, voti discutibili, litigi familiari.
Giro pagina su pagina, scrivevo bene allora, non con le zampe di gallina che anni di pc mi fanno scarabocchiare ora. Lettere grandi, vocali tonde, spazi e virgole.
Tra quelle righe regolari e ben tenute lo trovo.
È lui il motivo per cui solo il pensiero di riprendere in mano quelle pagine mi fa rivoltare lo stomaco.
Mi chiedo se si sia mai pentito per il male che mi ha procurato, se in qualche modo la vita gliel’ha fatta scontare, se si sia mai soffermato sulle sensazioni che mi ha fatto provare.
Perché ciò che forse non tutti sanno è che chi è vittima di bullismo si sente in colpa per non essere come gli altri, si sente sbagliato, si vergogna per essere la causa del pregiudizio, delle vessazioni, delle ingiurie.
Si sente inadeguato.
Avevo solo quattordici, quindici anni, e c’era un tipo che a un certo punto ha cominciato a beffeggiarmi.
Era mio amico, mi pareva, poi cominciò a scherzare pesantemente su alcuni miei difetti e i compagni di classe ridevano.
Poi peggiorò con i comportamenti, e i compagni ridevano di più.
Avevo il terrore di andare a scuola, mi controllavo venti volte allo specchio prima di uscire da casa.
Non serviva.
Qualunque cosa facessi la situazione non cambiava.
Poi degenerò.
Se lo incontravo alla fermata del bus, urlava il mio nome e mi sputava.
All’entrata di scuola mi prendeva lo zaino e lo lanciava.
Durante lo ‘struscio’ del sabato pomeriggio, nel corso di Ancona, mi spintonava.
Mi soccorse il mio carattere e una buona dose di fortuna.
A un certo punto cominciai, per merito di un gruppo di ragazzi che frequentavo di là dalla scuola, ad avere più fiducia in me.
La sicurezza mi fece curare di più. Più pensavo di valere, più ricevevo complimenti. Più ne ricevevo più aumentava la mia autostima.
Feci una semplice operazione: sapevo le mie capacità, avevo persone intorno a me che mi apprezzavano per cui chi era sbagliato non ero io, ma lui.
A un certo punto lui e i suoi più accaniti sostenitori furono bocciati. I miei compagni ritornarono quelli dell’inizio. Li ho perdonati sin da subito perché non era colpa loro.
Eppure.
Eppure sono sicura che certi suoi comportamenti se non fossero stati supportati dagli altri, con risate di scherno a battute di pessimo gusto, non sarebbero andati avanti.
Avevo quattordici, quindici anni, ne sono passati più di trenta. Riesco benissimo a ricordare la sensazione di disagio e di essere sbagliata, diversa, inferiore agli altri.
La ricordo come se l’avessi provata ieri. Forse certe cose non si dimenticano mai.
Per molti anni ho odiato quel ragazzo grasso e volgare. Credo di odiarlo ancora.
Come madre ho cercato di insegnare l’ironia, che è ben diversa dalla derisione, e il rispetto, la compassione, la solidarietà.
Non sono sicura di esserci riuscita, ma ci ho provato.
Continuo a leggere, fra lettere svolazzanti, biglietti del bus, carte di cioccolatini, ticket del cinema, parole frivole, frasi di dolore.
Sono orgogliosa di quella ragazzina che non si è fatta seppellire dalla cattiveria, ma ha saputo scrollarsela di dosso.
Sono grata alla fortuna di averlo fatto somaro.
Leggo “Oggi all’uscita di scuola mi ha urlato una delle sue frasi da stronzo, ma io l’ho ignorato anche quando mi chiamava per nome. Agli altri deve sembrare pazzo”.
E anche “Mi è costato tutto l’autocontrollo di cui sono capace e una notevole forza, quando ha cominciato a correre verso di me per il Corso di Ancona. Ho fatto finta di non vederlo e lui ci ha creduto, così quando è arrivato ad un passo da me, per darmi uno spintone o chissà che, mi sono spostata e lui ha perso l’equilibrio. Non è caduto per un pelo, ma la figuraccia l’ha fatta lui, non io.
Nel frattempo, come niente fosse, ho preso la mia amica sottobraccio e ho continuato a passeggiare nel senso opposto, ridendo e scherzando. Non mi sono voltata ma il cuore mi batteva all’impazzata.”
Chiudo il diario.
Il fatto che io ce l’abbia fatta non mi fa dimenticare chi da quell’esperienza è uscito malconcio, con la psiche in subbuglio, chi si è autoconvinto di essere un perdente.
Chi non ne è uscito affatto.