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Raccontami una storia: “Come in una roulette russa”

Come in una roulette russa

di Antonella Cipriani

Dovevo fare qualcosa, subito. Non tolleravo più quella situazione. Avvertivo il pericolo, come in una roulette russa, dopo otto colpi sparati a vuoto.

Per questo mi trovavo lì.

Entrai nell’ambulatorio a testa bassa. Non lo conoscevo di persona, ma ne parlavano bene: era bravo nel suo campo, un luminare, aveva risolto molti casi come il mio. Riuscii a prendere l’appuntamento in tempi brevi, nonostante la lunga lista di attesa, forte anche del fatto che lavoravo in quello stesso ospedale.

«Si accomodi» mi ordinò aprendo la porta sul corridoio gremito di persone. Si sedette oltre la scrivania. Mi colpì per prima cosa il gelo della sua figura; poi comparvero i suoi occhi attenti dietro un paio di occhiali neri e la testa piccola, riccioluta sullo sfondo delle pareti bianche di una stanza priva di tutto.

«Mi dica» continuò con voce un po’ nasale, ma così sicura da cancellare il lato comico che poteva suscitare.

«Ho bisogno del suo aiuto» pronunciai. Serrai le labbra curvandole sul lato sinistro, con la testa inclinata sulla spalla, come per dirgli  Mi guardi e giudichi lei.

Tirai fuori dalla borsa di plastica rossa i miei ultimi esami, le cartelle dei precedenti ricoveri, le relazioni di degenza in cliniche private specializzate in disturbi alimentari, e misi tutto sulla scrivania, sotto ai suoi occhi.

«Non so più dove sbattere la testa, ho provato varie strade ma non sono riuscita a venirne fuori».

Lui non abbassò neppure lo sguardo sulla pila dei miei incartamenti, mi guardava e basta.

«Mi ricoveri nella sua clinica» continuai.

«Quanto pesa?» fu la sua unica domanda, sempre con quel tono gelido e scostante.

«Trentatré chili» risposi, cosciente di barare perché in verità erano anche meno.

«Si rende conto di come si è ridotta!» e qui il ghiaccio che lo rivestiva, sembrò rompersi «Il suo prossimo ricovero non è la psichiatria, ma la rianimazione. Si può morire».

Non so se aggiunse altro. Le mie orecchie si chiusero al termine della sua sentenza, incapaci di ricevere anche solo una sillaba di più. Quelle parole mi colpirono come una pugnalata che mi spezzò in due, creando una ferita che mise fuori gioco la mente che fino ad allora aveva fatto sempre da padrona, controllando tutto ciò che facevo e non facevo, giudice inflessibile della mia vita. Mi sentii serrare la gola, il cuore accelerare i battiti, gli occhi annacquarsi di lacrime che scivolarono mute e generose sulle guance, per ricadere pesanti sul mio corpo leggero. Non soffrivo, anzi. La mia disperazione sembrava separarsi da me insieme a loro.

«Appena si libera un posto in reparto la farò chiamare».

Scrisse il mio nome, cognome e telefono su un foglio. Non aveva bisogno di altre informazioni.

«Cerchi di non perdere ancora peso» mi disse alzandosi e accompagnandomi alla porta.

Mi asciugai le guance fredde con il dorso della mano.

«Grazie» pronunciai. Senza dargli la mano, incrociai i suoi occhi e in quello sguardo lessi la domanda che non aveva espresso a parole Vuoi vivere o morire?

Varcai la soglia dell’ambulatorio. Per la prima volta dopo tutti quei lunghi anni di malattia conoscevo la risposta.

 

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