Bliat
di Giacomo Ercolani
Sono stati tre anni molto belli, ne ho un ricordo piacevole anche se non credo che vorrei riviverli. I momenti belli devono essere fugaci, la noia e l’abitudine rischiano di coprire tutto come
un velo silenzioso. Ho trascorso l’infanzia in Brasile, dalla famiglia di mia madre. Mio padre allora era Ambasciatore di San Marino in Brasile. Vivevamo in una grande casa nel sud del paese e la
spensieratezza era talmente radicata nella nostra vita che non ricordo un momento di tristezza, d’altra parte quando si è bambini la noia è essenziale a vivere con gioia ogni momento.
Poi mio padre dovette ritornare a San Marino ed il divorzio fu il risultato naturale di un’occasione che non poteva essere persa, da nessuno dei due. Erano stati bravi a nascondere tutto, forse aiutati dall’enormità della casa dei miei nonni e dalla durezza di una consuetudine aristocratica che impediva all’anima del ricco di esprimere le emozioni, soprattutto quelle sconvenienti. Tornai a San Marino al seguito di mio padre, anche se quella non era la mia casa, non riuscivo a sentirla tale.
Ero cresciuta in un paese enorme e San Marino, uno stato minuscolo che si fatica a credere che esista, era solo il mio paese di nascita, ma nessuna radice mi ci legava. Sei erano stati i mesi della mia vita che, fino ad allora, avevo trascorso a San Marino, ma erano stati i primi sei della mia vita. Al ritorno avevo 24 anni, mi ero appena laureata in una prestigiosa università brasiliana e parlavo benissimo l’italiano che ho imparato dalla cuoca. Lei, Amanda il suo nome, aveva avuto un passato turbolento e pur essendo felice di averlo lasciato, ne ricordava ogni momento e me lo raccontò tutto, infinite volte, non ero mai sazia delle sue storie.
È lei che mi ha insegnato a non portare il reggiseno, d’altra parte non ne avevo bisogno. “Hai un corpo meraviglioso ragazza mia” mi ripeteva con quel suo accento strano. Beatriz, la tata brasiliana, non approvava le confidenze con Amanda o con il resto del personale della casa, ma io riuscivo sempre a trovare un momento per andare in cucina, rubare un dolcetto e ricevere in dono una frase, un aneddoto veloce o anche solo un sorriso. Mi è dispiaciuto molto doverla lasciare. Non l’ho mai più rivista. Al mio arrivo a San Marino mi aspettava un impiego alla Segreteria degli Esteri, mio padre era un uomo molto potente ed una sua raccomandazione era un passepartout per ogni porta, voleva che mi facessi un po’ di esperienza che potesse essere utile nella carriera diplomatica che aveva preconizzato per me.
Io avevo altro per la testa. Il modo di essere donna in Brasile era lontanissimo dal modo di esserlo a San Marino. Anche se Amanda era italiana, lei sembrava essere molto più brasiliana di molte brasiliane, mia mamma compresa che è sempre rimasta nella teca, terrorizzata di perdere la propria bellezza. Amanda mi aveva spiegato molte cose, in segreto. “Devi conoscere le regole del gioco, se vuoi giocare per vincere”. Non mi ci volle molto a capire come funzionava il gioco. Il primo con il quale giocai a San Marino era bellissimo, così bello che me ne innamorai subito, si chiamava Carlo. Lavorava in un ufficio affianco al mio. Si occupava delle attività iniziali all’apertura di una relazione diplomatica, parlava non so quante lingue. In ufficio tutti mi trattavano con deferenza, sapendo chi era mio padre, ma molti mi temevano per il mio corpo. Non tentavo di nasconderlo e vivevo in quel piccolo paese guardandolo dall’alto al basso. Non avevo alcuna intenzione di cambiare il mio atteggiamento e sapevo di potermelo permettere. Dopo le prime settimane capii che la cosa mi piaceva.
La prima volta che gli appoggiai una mano fra le gambe quasi si versò il caffè sulla camicia. Se ne andò senza dire nulla, ma senza smettere di guardarmi, non so se per controllare che
non lo facessi di nuovo o nella speranza contraria. Il mattino dopo ci trovammo nuovamente al caffè, assieme al segretario particolare, un panzone sudaticcio incapace in tutto, tranne che nel
tradire la fiducia del colleghi. Nessuno diceva nulla, tutti intenti a bere il caffè. Lo guardavo negli occhi e lui resistette, quasi sfidando la mia spudoratezza. Gettai la tazzina di plastica vuota nel
cestino e mi avviai verso l’ufficio. Dopo pochi passi mi girai per recuperare la lenza. Il suo sguardo era ben saldo sul mio culo, forse aveva notato che ero senza mutande. Entrai in bagno. Lui mi seguì.
Quando il panzone venne nel mio ufficio per cercare di puntualizzare il proprio rango all’interno della Segreteria degli Esteri, allargai le gambe e con un dito raccolsi il dono generoso che avevo
ricevuto e che colava abbondante lungo le gambe. Ne assaporai la dolce sapidità davanti al panzone che sudava. “Ne vuoi un po’?” gli chiesi. Avevo stabilito con chiarezza come sarebbero andate le
cose da quel momento in avanti, ed andarono esattamente in quel modo. Sentivo il potere nelle mie mani e provavo un profondo godimento nel provocare piacere. Avevo capito subito, grazie ai
preziosi insegnamenti di Amanda, che gli uomini, quasi tutti, non possono comprendere il funzionamento del piacere femminile, e tanto meno il desiderio delle donne. Accecati dal desiderio
di provare piacere ancora ed ancora, dimenticano di analizzare il corpo femminile, i suoi movimenti, le sue sensazioni. Credono che ciò che accade a loro debba accadere anche a noi. “E tu
continua a farglielo credere amore mio”. “Se anche tu provassi a spiegargli come funziona il corpo della donna, come funziona la sua mente, il suo cuore, non capirebbero”. “Loro perdono la testa per un orgasmo, lasciaglielo fare”.
La prima volta che avevo usato i miei poteri con un uomo era stato all’Università, in Brasile. Le regole di quella scuola erano molto severe e non era possibile trasgredirle senza conseguenze, anche per la figlia di una famiglia dell’alta borghesia. Il professore era uno dei paladini di quelle regole e trattava gli studenti senza alcun riguardo, sia prima che dopo gli esami. Non vi erano voti che potevano comprare la stima di un uomo così arido. Mi presentai nel suo ufficio con una scusa. Mi guardò con sufficienza e mi chiese di cosa avessi bisogno. Quando me ne andai da suo ufficio non fui soddisfatta, il suo prodotto non aveva un buon sapore. Ed era anche molto poco dotato. Da quella volta ogni sfida sarebbe stata più semplice e la sensazione di essere invincibile non mi lasciò per molti anni.
Ciò che più mi disturbava era la pochezza delle persone, ed erano proprio queste che mi attiravano maggiormente. Carlo rappresentava il sogno emerso, quello palese, ma gli altri mi nutrivano, facevano crescere il mio potere. La ricerca di un sempre maggior potere era la droga che mi teneva in vita, era il lascito segreto di Amanda. Quando mi scopai il Segretario di Stato era solo un mese che ero arrivata a San Marino, se avessi continuato con quel ritmo presto l’intero paese mi avrebbe dovuto eleggere regina. Aveva voluto farlo sulla scrivania quel povero imbecille. Oltre ad essere un amante riprovevole, era anche del tutto incapace come Segretario.
Scoparsi un idiota simile aveva accresciuto il mio potere femminile, di tanto. Non perché fosse il Segretario di Stato, ma perché era un idiota patentato che si credeva Segretario agli Esteri, la segreteria più importante del paese. Ero intoccabile, nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare a mio padre come trascorrevo le giornate. In fondo, a ben pensarci, interpretavo la carriera diplomatica che mi si prospettava nel modo più confacente, conquistavo relazioni. In ufficio, nessuno aveva il coraggio di guardarmi negli occhi, a parte Carlo. Sapeva che lo amavo perdutamente e non si sarebbe accorto della mia passione lasciva nemmeno se mi fossi fatta scopare dal panzone davanti a lui.
Spinta dalla sfrontatezza più genuina lo convinsi a portarmi fuori. Cominciammo a frequentare i locali della riviera ed il mondo cominciò ad assumere una dimensione meno lontana dal Brasile della mia Amanda. Andai con camerieri e cuochi e clienti e baristi e sconosciuti. La ricerca affannosa del potere era irrefrenabile, la mia sete era inestinguibile.
Purché fossero sporchi, sgraziati, cattivi, deboli, informi: erano le mie conquiste, dovevo distribuire piacere, bere seme avariato, conquistare il mondo, un cazzo alla volta. Carlo non si accorse mai di nulla fino a che non vidi Ivan. Seduto ad un tavolo del terrazzo, governava la pista della discoteca, la sua discoteca. Aveva un giro di prostitute che pescavano con la dinamite, ogni sera i morti
disseminavano l’intero locale. I proprietari, quelli veri, non facevano altro che incassare le briciole degli affari di Ivan, ma erano briciole belle grosse e la discoteca era sempre strapiena. In quegli anni
tutto era al massimo attorno alla mia vita e Ivan sembrava potermi contendere il primato.
Tornammo la sera dopo e quelle dopo ancora. Ogni sera la scena si ripeteva, ero estasiata. In quella discoteca non riuscivo a dedicarmi all’accrescimento del potere perché costantemente attratta dal potere di quell’uomo. Carlo si accorse che qualcosa era accaduto quando lo colpii in viso con tutta la forza mentre mi scopava sul cofano della macchina all’uscita della discoteca. Quella scena
pubblica, quel piacere offerto in mezzo agli sguardi divertiti dei ragazzi ubriachi, non mi bastava.
Avevo provato odio, per la prima volta. Lo allontanai con la stessa violenza con la quale l’avevo costretto a prendermi e lo lasciai li, con i pantaloni calati nel mezzo del parcheggio. Me ne andai a
casa in taxi. Smisi di frequentare quella discoteca e tutte le altre, smisi di frequentare Carlo e tutti gli altri. Ero spenta. Cercavo rifugio nella memoria degli insegnamenti di Amanda, ma era una
ricerca disperata, una ricerca inseguita dalla consapevolezza dell’insuccesso. Arrivai a pensare che il potere degli uomini era inarrivabile e che la mia ricerca affannosa non mi avrebbe mai portato alla vetta, la vetta era già occupata. Passarono molti mesi di clausura, lavoro, casa e sport, null’altro. Il giorno che lo rividi capii che Amanda era riuscita a trovare il modo di aiutarmi. Il Segretario di Stato, quel coglione con il cazzo storto quasi come il cervello, doveva ricevere degli imprenditori russi che intendevano valutare degli investimenti nella Repubblica di San Marino. Il codazzo al
seguito degli imprenditori era molto folto ed Ivan era uno degli accompagnatori. Non fui io ad avvicinarlo. “Ti ho vista alcune volte alla discoteca quest’estate, ma poi sei sparita, hai trovato di
meglio?” mi disse. Lo guardai con sufficienza e risposi che mi ero stancata di tutti quei deficienti ai piedi di quelle prostitute ignoranti. La sera fummo a cena insieme, volle provare a toccarmi, ma
resistetti. “Io non sono una facile” dissi. “Sono stato informato” mi rispose. “Bene, inutile perdere del tempo. Se vuoi scopare sono disponibile, ma prima raccontami tutto”. Era albanese, figlio di padre russo e madre spagnola, ma nato e cresciuto in Albania dove il padre aveva un’impresa.
Quando la polizia albanese smise di consentire al padre di condurre gli affari in quel paese, Ivan si ritrovò solo al confine con la Grecia. Aveva 15 anni. A 20 arrivò in Italia con una fiorente attività
per quel periodo storico, gli sbarchi dei clandestini, proprio dall’Albania. Ivan il russo si era fatto un nome e con i profitti degli sbarchi aveva avviato lo sfruttamento della prostituzione, Rimini era il posto ideale. Erano da quasi tre anni che aveva trovato l’accordo con i proprietari della discoteca.
Sapeva che non sarebbe durata, ma era felice. “Sei sicuro?” gli chiesi. “Certamente dolce bliat” rispose. “Bliat?”, cosa significa chiesi con curiosità. “Significa dolcezza in russo”. “Mi piace il suono di questa parola” dissi “ma devi pronunciarlo con la t morbida”. Mi guardò sorpreso, sorrise e capì che non sarebbe più rimasto solo. Dopo tanti anni ancora ogni tanto mi chiedo perché non sono ancora andata a rivedere San Marino. La carriera diplomatica non è mai fiorita come avrebbe sperato mio padre, ma sono felice di come le cose sono andate e forse mi sbagliavo quando scrivevo che non lo rifarei. O forse no. Ivan è convinto che dovrei farlo, ma siamo felici nella nostra casa, della nostra famiglia, ed io lo sono della vita che ho trascorso fino ad oggi.
Posso finalmente morire, il potere mette sonno.