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Pietro Rossi il cantastorie nato alle pendici del Titano

Chi è Pietro Rossi

Pietro Rossi nasce il 18 maggio 1804 in località La Casetta, alle pendici del Titano, e muore in località Paradiso, vicino a Domagnano, il 21 Febbraio 1879.
Questi gli aspetti di una vita che non presenta aspetti di eccezionalità, ma non manca di motivi di interesse, quelli soprattutto legati alla vita contadina dell’Ottocento: la miseria, la fame quotidiana, gli spostamenti da un podere all’altro, motivi che fanno della biografia di questo contadino l’esemplare di tante altre, la trama di un “vissuto” assai interessante che già non sfuggiva ad Emilio Sereni.

Pietro Rossi il cantastorie

Piuttosto suggestiva la figura del nostro autore, anche per quegli aspetti che la rendono simile a quella dei cantastorie: il girovagare da un luogo all’altro, da stalla a stalla, nelle lunghe serate d’inverno, da piazza a piazza, durante le fiere o le feste di paese, per declamare e soprattutto per vendere le sue canzonette.
Il nostro è anche autore in lingua italiana. Talora con notevole versatilità imita i letterati di professione, tal altra con istintiva espressività verseggia nella lingua del popolo.
A volerci limitare al Rossi, cantastorie in vernacolo, occorre accennare a due canzonette, da collocarsi evidentemente nel solco della poesia popolare.
La prima delle canzonette ha come titolo: “Risposta a due persone che dicevano male di me il dì 29 novembre 1846”.
Egli difende la propria dignità di lavoratore di fronte al padrone che lo accusa di trascurare il lavoro dei campi.
Ma ji ai port una rason:
Che venga veda ma la psion
Sa jò fat i mi lavur,
Quant ch’ui fà jagricultur.
E nel contempo difende la dignità del poeta, perchè lo scrivere non è la fatica di stolidi:
Ma cu sgnor ai vui arsponda
Ch ‘l talent l’è fat a ronda,
E bsogna pu enca studii
Chi vo imparè la puisii.
Il secondo componimento è la “Canzone in occasione che nella settimana di Quaresima dell’anno 1848 vi furono due sposalizi a Mulazzano di due vecchi con serenata”.
Il tema è quello della “serineda”, la “bacileda”, un’usanza diffusa largamente dalle nostre parti, originaria, a quanto pare della Toscana.
Con pentole, bidoni e simili strumenti a percussione ci si portava sotto la finestra degli sposi non più giovanissimi, o del vecchio che sposava una giovane, e s’improvvisava un rumoroso concerto che costringeva lo sposo ad offrire del vino per costringere la brigata ad allontanarsi.
Chi ha i tripi, chi la padella,
Chi e cadnac, chi la gradella,
Chi la gnacra, chi di cocc,
Chi la cavija du su brocc
Chi l’orinel, chi ha l’urciul;
Elt che la banda d’Cerasul.
Talvolta lo sposo, attempato ma arzillo, tirava fuori la schioppetta e sparava, il più delle volte, naturalmente, in aria.
La forma compositiva dei due testi è quella della “girudela”, una successione di ottonari non sempre regolari accoppiati a rima baciata.
Il linguaggio è spontaneo e pieno di brio, non privo di efficacia.
L’opera più significativa, parte in lingua italiana, parte in dialetto, è certamente il Ceccone.
I primi tre dialoghi figurano pubblicati a Pesaro nel 1851 nella raccolta che ha il titolo” Dialoghi in versi berneschi e in dialetto contadinesco in difesa della religione ed anche altre canzonette”.
Nel 1876 viene pubblicata a Rimini l’opera completa “Il Ceccone, ossiano dialoghi, storici, politici e religiosi, seconda edizione, corretta ed accresciuta tre volte più”.
I personaggi che troviamo nei dodici dialoghi sono Ceccone, il conte-padrone, il figlio del conte, il servo Pasquale, ed un tenente.
Ceccone si presenta quale campione della mentalità contadina dell’Ottocento, in realtà prodotto di un’ideologia conservatrice, determinata dalle costrizioni economiche e da quel fenomeno di acculturazione a cui le plebi andarono assogettate da parte di chi deteneva il potere, proprietari terrieri ed ecclesiastici.
Ceccone difende l’importanza del ruolo che nella società svolgono i contadini, ma di tale ruolo non aveva, né poteva avere, una coscienza critica.
Se il tenente liberale ed il conte-padrone rappresentano due mondi contrastanti, quello dell’aristocrazia e quello della borghesia, sul piano linguistico entrambi usano l’italiano: in fondo
si comprendono, riescono a comunicare, si sentono rappresentanti dello stesso tipo di società, quello dei signori.
Ceccone, che si esprime nella sua lingua, il dialetto, pur fedele all’ideologia del padrone, è nella reltà un estraneo, un diverso, il rappresentante della realtà contadina, destinata fatalmente alla sconfitta, sulla quale poseranno il loro sguardo Levi e Silone.
Il Ceccone, per quanto opera rozza sia, presenta aspetti di indubbio interesse.
La storia del Risorgimento è stata scritta da conservatori, liberali, democratici. P. Rossi ci dà l’occasione eccezionale di leggere le vicende risorgimentali attraverso l’occhio di un contadino, più desideroso di sapere che informato, più ideologizzato che capace di pensare autonomamente, ma testimone sincero ed efficace della classe sociale a cui apparteneva.
La lingua italiana è per il Rossi una lingua acquisita, il dialetto è quella di cui è perfetto padrone.
È nel dialetto che Rossi esprime il suo ben acquisito credo reazionario: il suo omaggio al padrone, la filiale devozione al pontefice, il vituperio contro gli scomunicati liberali.
Sulle orme del Rossi, da cui qualcosa del mestiere ebbe ad apprendere, muoverà i passi il cantastorie del Riminese Giustiniano Villa, che innalzerà la sua protesta contro la vecchia e la nuova classe dominante.

(testo tratto da “Antologia” di Giuseppe Macina)

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