OGNI VITA E’ UNA MERAVIGLIA – Cronaca e riflessioni di un incidente
di Elisa Stacchini
INTRODUZIONE
Ho scritto questo testo perché mi ritengo una sopravvissuta e come ogni sopravvissuto ho una forte responsabilità. La vita non può essere come prima. La vita è divisa tra il prima e il dopo. La vita deve trovare un senso, non può essere sprecata, non può essere non spesa. Deve, per forza, servire a qualcosa, a qualcuno, a noi e anche agli altri. Ogni esperienza di dolore o di guarigione non può essere buttata. Deve essere interiorizzata, rielaborata e poi evocata, perché solo così produrrà effetti positivi, tante cose belle!
A 19 anni ho avuto un gravissimo incidente. L’automobile irrecuperabile. Io incastrata in auto per un’ora. Due medici che passavano di lì “per caso”, mi hanno dato i primi soccorsi. Trasportata all’ospedale, mi hanno fatto le radiografie per capire cosa mi fossi rotta. Il radiologo, mentre riferiva ai miei familiari l’enorme quantità di ossa rotte, si sorreggeva ad una colonna per farsi forza.
Da lì partì un calvario durato diversi mesi accompagnato da preghiere, suppliche, lacrime, tante lacrime e denti stretti per rinascere piano piano. E’ stato un cammino in salita, ma sempre accompagnato da una Presenza che non ci ha lasciato mai soli. E’ come se in questa salita ci fossero stati donati: acqua, brezza fresca, mezzi e persone, in nostro soccorso, proprio quando il cammino si faceva più duro. Da lì sono partiti tanti piccoli fatti, che a me piace chiamare: tanti piccoli miracoli. Questi hanno permesso al mio fisico di riprendersi, di riaggiustarsi, di risollevarsi, al punto tale che, ora, non si direbbe che io abbia avuto un incidente così grosso.
Dato che questo evento mi ha permesso di ricevere tante cose belle, vorrei restituire, a mia volta, questa grande esperienza. Condividere: dividere con tante persone. Con chi c’era e ha contribuito alla mia guarigione, alla mia ri-consapevolezza e che ringrazio con tutto il cuore. Con chi mi ha un po’ ostacolato, perché non ha capito o non voleva mettersi in gioco. Con chi non mi conosce ma ha vissuto un’esperienza di dolore o di sopravvivenza. Con chi sta soffrendo in questo momento. Con chi non mi conosce, sta bene e non si fa tante domande nella vita.
E’ un testo scritto per tirarsi su. Per riflettere sulle tante cose belle che abbiamo senza rendercene conto, a partire dalla salute. Quando stiamo bene siamo quasi ignari di noi stessi e delle cose belle che ci circondano, poi quando compare un problema, piccolo o grande, iniziamo ad apprezzare quello che avevamo e che ora ci manca.
Leggendo questo libro ci si convince che non c’è poi tanto da lamentarsi, che le nostre giornate non sono poi così brutte. Corriamo sempre per cose poco importanti. Non ci soffermiamo su quelle che varrebbero veramente la pena: le persone e le relazioni.
Avverto, spesso, il disagio, o meglio l’avversione, che c’è nelle persone, di parlare di cose brutte: morte, malattie, perché ci si è costruiti un mondo parallelo alla realtà, dove chi sta bene non vuole “rattristarsi” con chi è più sfortunato e sta male.
Altre volte si pensa che, parlare delle disgrazie altrui, faccia sentire un po’ meglio, si dice: “mal comune mezzo gaudio”, cioè si trova un po’ di sollievo sapendo che non si è soli e che ognuno ha i suoi problemi.
Spero che, da questo libro, non si arrivi a nessuna di queste due conclusioni, ma ci sia un’altra strada, che è quella della serenità, della pace con sé stessi, del capire chi siamo e dove vogliamo andare. Di essere persone migliori.
Mi piacerebbe trasmettere la consapevolezza che, in ognuno di noi, è presente una grinta, una forza misteriosa che si scatena quando c’è bisogno. Ogni difficoltà, se affrontata, diventa una risorsa. Noi siamo chiamati ad un progetto grande! Non siamo fatti per essere mediocri! La mediocrità non necessita di alcuno sforzo. C’è da subito. Mentre le cose belle si raggiungono sudando, facendo fatica! Le cose più belle sono quelle raggiunte obiettivo dopo obiettivo, conquista dopo conquista e non arrivano subito. Sono le più gustose, proprio perché attese!
Una ragazza che ha letto questo libro mi ha detto: «Ogni volta che sono triste, affannata e affronto la vita quotidiana con animo pesante e stanco, prendo in mano il tuo libro e mi fa stare bene, mi torna l’entusiasmo, la grinta, l’ottimismo». Questa ragazza ha concluso dicendomi: «Quindi Eli, quando ti senti giù, leggi il tuo libro!».
- DALLO SCONTRO ALL’INCONTRO
Quel Venerdì sono voluta tornare a casa con un giorno d’anticipo dall’Università. Come se fossi andata volontariamente incontro allo scontro. La stessa sera: il 14 Gennaio, alle ore 19:30, ho avuto l’incidente. Stavo rientrando a casa dall’ospedale dove era ricoverata mia nonna. Sul manto stradale si era formata una lastra di ghiaccio a causa di un’abbondante nevicata del giorno prima. In una semicurva ho perso il controllo dell’auto. Mi sono schiantata contro un albero e sono finita nel fossato a lato della strada. L’impatto è stato violentissimo.
A diciannove anni la mia vita è cambiata. Questo giorno ha segnato per me un prima e un dopo. Un albero mi ha fermata. Lo scontro con l’albero mi ha fatto passare da una condizione di salute inconsapevole a quella di malattia consapevole, dalla posizione verticale a quella orizzontale. Il tronco dell’albero non era nemmeno verticale. Era cresciuto in obliquo dalla radice per poi raddrizzarsi, creando un angolo ottuso. Io ho sbattuto proprio in questo angolo. Se l’albero fosse cresciuto dritto, verticalmente, non mi avrebbe nemmeno toccata e sarei finita nel fossato. E i nvece…
Ho incontrato la sofferenza ed il suo mondo. Un mondo che, fino a questo momento, avevo solo intravisto. Fino a quando non sono stata interpellata direttamente dal dolore, immaginavo solamente cosa vivesse chi ne fosse immerso.
Ho sempre avuto il desiderio di condividere i pesi degli altri, di aiutare chi fosse nel bisogno, donando tutta me stessa. Non sapevo cosa volesse dire ricevere aiuto. Non sapevo cosa significasse essere totalmente dipendenti e avere bisogno degli altri. Non conoscevo affatto la sensazione di non poter parlare, di essere totalmente immobile. Non sapevo cosa fosse il dolore fisico, il fastidio, i disagi di avere un corpo malato.
Inizialmente ho percepito queste realtà come esperienze negative. Subito dopo l’incidente, pensavo che ne avrei fatto volentieri a meno e che sarei stata bene anche se non le avessi mai conosciute. In seguito mi sono resa conto che non era così. Ogni volta che riuscivo a trasformare queste esperienze in positivo o a ricavarne qualcosa di buono, diventavano un arricchimento, una risorsa in più, un dono e non una disgrazia.
2-«E’ MEGLIO CHE MUOIA»
Due ragazzi, che procedevano dietro di me, hanno visto la mia macchina sbandare e cadere nel fossato. Mi hanno subito soccorso. All’inizio gli sono sembrata morta. Sono saliti sul ciglio della strada a chiedere aiuto e a chiamare i soccorsi. Tornati da me si sono accorti che ero viva. Subito dopo sono passati da quella strada, per caso o per dono, due medici: un chirurgo e un’anestesista. Poi è stato chiamato un terzo medico che risiede nella zona. Sono stati loro a prestarmi le prime cure e a somministrarmi i primi calmanti. Il chirurgo mi ha inciso sotto l’ascella destra per fare drenare il sangue dai polmoni. Questi tre dottori sono stati per me di vitale importanza. L’ambulanza e i vigili del fuoco hanno tardato, perché impegnati altrove. E’ trascorso molto tempo prima che riuscissero ad estrarmi dalla macchina completamente sfasciata. Per estrarmi dalle lamiere contorte hanno dovuto tagliare ed estrarre il sedile del passeggero. L’ambulanza mi ha trasportato al Pronto Soccorso per i primi accertamenti e radiografie. Resisi conto della gravità della situazione mi hanno trasferito d’urgenza in un ospedale specializzato.
Solo a distanza di tempo, mi è stato riferito che un vigile del fuoco, mentre mi estraeva dall’auto, ha commentato: «Se deve soffrire così, è meglio che muoia». Meglio per chi? Per me che stavo lottando fra la vita e la morte o per lui che non voleva vedere la sofferenza? Non ho mai pensato, nemmeno quando ero completamente immobile e dipendente, che sarebbe stato meglio per me morire.
Come poteva un uomo giudicare se, per me, era ancora dignitoso vivere? Come può qualsiasi uomo legittimare la morte di chi soffre o addirittura uccidere chi è malato, vecchio, handicappato? Questo scritto è un ringraziamento a tutti coloro che hanno visto, nel mio corpo martoriato, rotto e sanguinante, una persona, un essere umano dotato di dignità, d’intelligenza e di sensibilità, meritevole di cura, affetto e stima. Un corpo degno ancora di vita.
E’ inoltre, una critica costruttiva verso chi mi ha reso la strada ancora più difficile, verso le persone che hanno “girato la testa dall’altra parte” per non essere interrogati dalla sofferenza, verso tutti i paradossi di questa società che non considera uomo chi è malato, verso tutte le ipocrisie e le falsità che la sofferenza smaschera immancabilmente.
3-LA DIAGNOSI
Frattura del naso (non c’era più l’osso), dell’orbita oculare destra e dello zigomo, spostamento della mandibola. Frattura di entrambe le ginocchia o meglio della testa dei femori, di cui uno era completamente uscito dalla pelle e l’altro si era incassato nel ginocchio facendolo frantumare (i medici, affinché comprendessimo meglio, hanno fatto l’esempio di quando si schiaccia il guscio di una noce). Frattura della spalla sinistra e della clavicola provocate dal contraccolpo della cintura di sicurezza; rottura dell’omero sinistro e del radio (braccio). Frattura del gomito destro. Lieve spostamento del bacino. Ciò che preoccupava ulteriormente i medici, nelle prime ore, era un forte trauma al torace, a causa del quale un polmone aveva assorbito molto sangue. Fortunatamente il problema si è risolto con un drenaggio. Nessun organo interno era stato compromesso.
Di fronte al dolore si viene presi da un senso di impotenza, inquietudine, debolezza. La reazione istintiva è quella della ribellione, della non accettazione. La domanda più frequente è: «Perché? Perché proprio a me? Perché a mia moglie, a mio marito, a mio figlio?». Questa domanda ci lascia senza risposta. Ci si sente vittime del dolore che ci travolge, di un’ingiustizia. Ci si rivolge a Dio così: «Perché mi hai fatto questo? Perché ce l’hai con me?». E’ solo quando stiamo male che ci poniamo una domanda di senso: Perché io? Perché tu? Chi sono io? Chi sei Tu?
Anche io mi sono chiesta tante volte: «Perché è successo questo? Perché a me?». Volevo capirci qualcosa. Volevo delle risposte. Non volevo farmi travolgere dagli eventi senza uscirne cambiata, migliore. Sapevo, tuttavia, che le risposte non sarebbero arrivate subito. In principio dovevo pensare solo alla mia guarigione.
I tanti amici mi hanno aiutato a trovare le risposte che cercavo. Vedendo il mio desiderio di dare un senso a ciò che mi succedeva mi hanno ascoltata e insieme ci siamo scambiati le prime impressioni. Gli interrogativi che mi sono posta fin dall’inizio mi hanno aperto un mondo nuovo, una via diversa, un modo alternativo di vedere la sofferenza. Ho sempre pensato che se avessi lasciato svanire tutto questo, la mia sofferenza non sarebbe servita a niente. Allora ho iniziato a mettere per iscritto le emozioni, i sentimenti provati e le prime risposte che maturavano in me.
4-IN TERAPIA INTENSIVA
Primo intervento chirurgico in anestesia generale: ricostruzione femore destro e sinistro, ricostruzione gomito destro. Durata dell’intervento: 9 ore.
Secondo intervento chirurgico in anestesia generale: ricostruzione braccio sinistro: clavicola, spalla, omero e radio. Durata dell’intervento: 5 ore.
Terzo intervento chirurgico in anestesia generale: riduzione delle fratture dello zigomo destro e dell’orbita oculare destra, riduzione delle fratture mascellari. Prelievo di frammento osseo dalla nuca per la ricostruzione del naso. Durata dell’intervento: 10 ore.
Dal 15 al 30 Gennaio: Sono stata ricoverata nel reparto di Terapia Intensiva.
In Terapia Intensiva ero una dei pochi pazienti coscienti. Nonostante la mia situazione fosse gravissima non ho mai perso conoscenza. In diverse occasioni ai miei famigliari è stato ripetuto che altri casi come il mio erano davvero rari: «Nelle sue condizioni molti non ce l’hanno fatta». Queste erano le premesse…
Nei primi giorni di ricovero i dubbi e gli interrogativi sulla prognosi erano davvero tanti. Avevo perso molto sangue e sono state necessarie molte trasfusioni. Non si sapeva se il mio corpo avrebbe retto al trauma. Un polmone era a rischio perché aveva assorbito sangue. Ma il rischio più grosso era quello di un embolo, che poteva “partire” da un momento all’altro. I miei familiari hanno dovuto affrontare tutto questo! Le possibilità di guarigione prospettate dai medici, nelle prime settimane, erano davvero fievoli. Le previsioni erano comunque tutte negative: se fossi sopravvissuta, probabilmente, non avrei più potuto camminare, date le gravi fratture riportate ad entrambe le ginocchia.
Il periodo trascorso in Terapia Intensiva è stato durissimo. Dell’incidente non ricordavo e non ricordo ancora niente, nonostante sia rimasta cosciente. La sera del 16 Gennaio mi sono ritrovata immobile su un letto, in rianimazione, senza sapere dove fossi e cosa mi fosse successo.
Accanto a me c’era mio fratello, di due anni più grande, che mi ha raccontato tutto. Mi ha detto che avevo avuto un incidente e che mi trovavo in ospedale a causa delle tante fratture. In quegli attimi non so cosa ho provato, mi sembrava di essere la protagonista di un film o magari di un racconto inventato, ma certo, mi è sembrato molto strano che una cosa così grossa fosse capitata proprio a me. La prima reazione che ho avuto sentendo quella cronaca è stata incredulità, sconcerto e anche curiosità di conoscere ogni dettaglio. Come potevo non ricordare niente? Ho pensato che fossi stata in coma, ma in realtà, ero rimasta sempre cosciente.
Mio fratello stava tornando a casa dal lavoro. Quando ha visto i lampeggianti dell’ambulanza ha pensato subito a me, perché non gli rispondevo al cellulare. Sperava di sbagliarsi. Non si sbagliava. Ero proprio io, la sua sorella minore. Alcuni dei suoi amici, hanno provato a trattenerlo. Lui non li ha ascoltati e si è precipitato da me. Io mi lamentavo molto e chiedevo della mamma.
Il dolore fisico talvolta è insopportabile, ci fiacca, ci sfinisce, ci fa piangere e non ci fa essere lucidi. Per alleviare la sofferenza ci vengono in aiuto i farmaci antidolorifici, quelli forti, come la morfina, che purtroppo, a loro volta, ci tolgono la lucidità. A volte sembra ci facciano fare una bella dormita. Forse apparentemente. Bella per chi ci osserva da lontano e non ci sente lamentare. Di questi venti giorni in Terapia Intensiva non ricordo di dormite “belle”. Solo di incubi, a volte deliri, mancanza di lucidità, spossatezza, stanchezza mentale, annebbiamento. Ricordo soltanto di un grande “peso”, ricordo molto bene la sensazione di essere “fuori combattimento”.
I giorni trascorrevano lentamente! Avevo un orologio nella stanza e il mio sguardo era fisso sulle lancette che mi apparivano così lente. Fino a quel momento non avevo mai desiderato tanto che il tempo andasse più veloce. Anche un minuto era lunghissimo in quella situazione. Le notti erano infinite, spezzate solo dalla visita degli infermieri che controllavano la flebo o i vari macchinari. Non riuscivo a dormire, ero molto agitata, suonavo spesso il campanello perché stavo male. Ero triste, mi sembrava di non farcela più. Quando dalla finestra apparivano le prime luci dell’alba solo allora riuscivo a tranquillizzarmi un po’, dicevo a me stessa: «Forza! Resisti ancora un po’, è quasi mattina! Anche questa lunga notte è passata!». Sapevo che dopo poche ore sarebbero venuti gli infermieri per la terapia del mattino, poi le inservienti per lavarmi e rifarmi il letto e finalmente i miei familiari che avrebbero condiviso con me un nuovo difficile giorno.
Ero soltanto una mendicante. Mendicavo l’orologio perché facesse passare più in fretta i minuti. Mendicavo la finestra che facesse cambiare quel buio profondo in un’alba serena. Mendicavo gli infermieri di venirmi a visitare, anche solo per cambiare la flebo. Mendicavo tutto ciò che per me era una sicurezza, avendo perso ogni sicurezza umana, ogni mio progetto. Ero come un povero che viveva delle briciole. Ma non in senso negativo. La pazienza, la speranza, l’abbandono, la riconoscenza: tutte queste virtù potevo praticare. Ne avevo l’occasione.
Nei giorni trascorsi in Terapia Intensiva l’unico “filtro” attraverso il quale mi appariva il mondo esterno era una finestra. Osservavo gli alberi con i loro rami spogli, privi di foglie e germogli. Sembrava che tutto, là fuori, si fosse fermato con me, come se la natura partecipasse al mio dolore e mi stesse aspettando, immobile come me. Non c’era vita o per lo meno non era evidente.
Avevo tutti e quattro gli arti ingessati. Gli arti superiori erano ingessati dall’ascella alla mano. Quelli inferiori dalla coscia, vicino all’inguine, fino al piede compreso, avevo soltanto una parte delle dita fuori dal gesso. Ero completamente immobile. Non potevo fare niente da sola, nemmeno il più banale dei movimenti. Per questo, dopo circa una settimana, i medici, in via del tutto eccezionale, hanno permesso ai miei familiari di assistermi per tutta la giornata. Dovevano lasciarmi ogni sera per poi rientrare la mattina verso le dieci.
Oltre alla completa infermità non potevo nemmeno parlare. A causa del trauma al polmone, infatti, si era resa necessaria la tracheotomia, ossia l’immissione di un tubo nella trachea. Questo tubo non permette la fuoriuscita della voce. Per comunicare utilizzavo il movimento delle labbra che, tuttavia, era molto limitato dal bloccaggio della mandibola e dei denti e risultava poco comprensibile anche per l’enorme gonfiore del viso.
Mi rimanevano solo gli occhi per esprimere ciò che provavo e il più delle volte erano sguardi di rabbia, di ribellione e di sconforto. Sguardi che penetravano nel cuore dei miei genitori, di mio fratello, del mio fidanzato. Sguardi che chiedevano il senso di tale dolore. «Perché questo? Perché proprio a me, a noi?». Sguardi che suscitavano nei miei cari sentimenti di amore e compassione. Io, in quei momenti, percepivo in loro il desiderio di sostituirsi a me, di portare su di loro il mio dolore, le mie sofferenze. Mia mamma mi ripeteva spesso: «Se potessi, starei io al posto tuo! Se potessi, ti eviterei tutto!».
Ho sperimentato la piccolezza e la fragilità umana. Io che ero così determinata, che ho sempre programmato le mie giornate e la mia vita, mi sono trovata in un letto di ospedale a non poter decidere niente, nemmeno di muovermi o di scendere dal letto. In quel momento erano gli altri a decidere della mia vita, in primo luogo i medici, qualche volta i miei familiari, ma soprattutto ci dovevamo tutti affidare a Qualcuno più grande di noi, a Dio.
Non ero più io a gestire il mio corpo. Quel corpo che, nonostante pesasse appena quaranta chili, si mostrava a me nella sua immensa pesantezza, quell’ostacolo che sembrava altro da me. Non riuscivo a grattarmi se avevo prurito nelle tante ferite, non riuscivo a muovere un braccio o una gamba, quando erano indolenziti, o a girarmi e cambiare posizione nel letto, non potevo fare assolutamente niente da sola. Percepivo i movimenti degli infermieri e dei medici su di me. Dovevo solo affidarmi alle mani dei tecnici. Mani che curavano, ma che, nello stesso tempo, provocavano dolore e fastidio. Ogni movimento, ogni spostamento era doloroso e insopportabile. Non potevo ribellarmi. Non mi era possibile nemmeno parlare, lamentarmi o gridare perché, nonostante i miei sforzi, la voce non usciva.
L’unica cosa che riuscivo a fare era pensare. Eh sì! La mente viaggiava a mille! Pensavo alla mia vita, ai miei cari, ai luoghi che avevo visto e alle tante esperienze che avevo vissuto fino a quel momento, al mondo che mi circondava da diciannove anni, così bello. Avevo tante domande: Sarei potuta tornare alla mia vita? Come ci sarei tornata? Guardavo gli alberi e pensavo: Come faccio a disegnarne uno, se non mi sono mai fermata ad osservarlo? Proprio un albero mi ha fermata! E’ stato il momento della nuova consapevolezza. Le piccole cose ora avevano un grande valore, il mondo mi appariva in un’altra luce.
In realtà, pensare, non era l’unica cosa che riuscivo a fare. Ce n’era un’altra, ancora più importante: io potevo esistere! Sì, anche se con mille tubi, aghi e drenaggi nel corpo, anche se la mia faccia era un pallone senza naso, anche se con tanti ferri interni ed esterni, che sostenevano le ossa delle gambe e delle braccia, io ero ancora viva!chi mi ha dato la forza
5- Chi mi ha dato forza
Solo dopo una settimana, sono riuscita a muovere di pochissimo il braccio destro. Movimento reso possibile dalla spalla che è rimasta illesa, almeno in questo braccio. Questo piccolissimo movimento mi ha permesso di scrivere a stento delle parole tremolanti su un quaderno. Questa idea è venuta a mia mamma. Mi metteva una penna tra l’indice e il medio della mano destra e un block notes sulla pancia. Anche se con molta fatica sono riuscita, finalmente, a comunicare qualcosa. Questo metodo è stato utilizzato, in seguito, anche dagli infermieri che non riuscivano a capire di cosa avessi bisogno quando suonavo il campanello.
La richiesta più frequente agli infermieri era quella di aspirarmi il “tubo” della trachea, perché quando era pieno di catarro mi venivano gli sforzi di vomito. Questa richiesta era talmente frequente che gli infermieri hanno insegnato ai miei familiari come fare.
Attraverso il quaderno ho potuto comunicare ai miei familiari i miei sentimenti. Ho potuto esprimere le mie paure, le stanchezze e le preoccupazioni, ma anche la voglia di ricominciare a vivere. Le parole più ricorrenti che scrivevo sul foglio erano: «Mi sono stufata!» e «Non ce la faccio più!». Credo proprio di averli ossessionati con queste frasi… oltre che con l’altro “tormentone”: «Quando vengo a casa?». Una domanda che a loro sembrava paradossale: «E’ in queste condizioni e chiede di venire a casa?!».
Ho pensato molto ai sentimenti provati in quei momenti ed ho capito che io non mi sono mai resa conto della gravità della mia situazione. Questo, principalmente, per tre motivi: per i tanti calmanti che non mi facevano essere lucida, per il fatto che non ricordavo niente dell’incidente e perché non riuscivo a vedermi. Ho chiesto più volte a mia mamma di portarmi uno specchio, perché ero curiosa di vedermi in quello stato. Lei me lo ha portato solo quando il viso si è sgonfiato un po’, ma anche in quell’occasione non sono riuscita a vedermi bene, poiché lo specchio era molto piccolo. Scelta molto saggia! Il fatto che io non riuscissi a vedermi e che non mi rendessi conto della gravità, mi ha permesso di non disperare.
Mi mancava tutto! Mi mancava la mia quotidianità, le persone a me più care: il mio fratellino di 7 anni, la mia nonnina che era ricoverata in un altro ospedale, i momenti col mio fidanzato… litigate comprese.
La situazione era dura anche per i miei familiari. I miei genitori, mio fratello maggiore, il mio fidanzato e i miei futuri suoceri si alternavano per stare con me tutto il giorno e non lasciarmi mai sola. Ero ricoverata in un ospedale che distava più di un’ora da casa e loro si dovevano alternare tra ospedale, lavoro e famiglia. Con l’aggravante che la mia situazione li aveva molto provati.
La vicinanza della mia famiglia e di tutti gli amici e parenti è stata fondamentale. La dolcezza e la pazienza con cui si prendevano cura di me, la compassione e la condivisione di tutte le mie sofferenze e stanchezze, il desiderio comune di guarigione, sono state le componenti primarie che mi hanno dato forza. Senza dimenticare le tantissime preghiere che sono state elevate a Dio per me. Quelle preghiere hanno sostituito le mie. Nei mesi in cui ero in ospedale non ho quasi mai pregato. Pensavo a Dio spesso, ma non mi riusciva facile pregarlo. Solo dopo ho capito che gli altri lo stavano facendo al posto mio e che in realtà anch’io pregavo. Ho pregato con la mia sofferenza, col dolore e lo sconforto; in quei momenti le parole non avevano nessun senso. Ho pregato con la paura e la stanchezza di non farcela a sopportare un giorno di più in quelle condizioni, con i pianti e con le crisi, con il rifiuto e la rabbia.
Mia mamma ed il mio fidanzato mi riportavano i saluti e i tanti messaggi d’affetto che provenivano dai nostri amici e parenti. In quei giorni ho ricevuto tante lettere. Tutto il loro affetto mi ha dato la forza di reagire. Il gruppo di amici con i quali uscivamo ogni settimana e condividevamo la vita parrocchiale e spirituale mi ha fatto un regalo speciale: hanno registrato una musicassetta con canti e dediche per incoraggiarmi, per dirmi che dovevo farcela e che per loro io ero importante. Ho ascoltato tante volte quella cassetta insieme a mia mamma, specialmente nei momenti di sconforto. Quando ero particolarmente giù, lei me la faceva ascoltare e, dopo qualche lacrima, mi tranquillizzavo.
I miei familiari e gli amici non si sono tirati indietro di fronte alla sofferenza. Quella sofferenza che provava me nel corpo, ma che colpiva loro nell’anima. Essi si sono “sporcati le mani” fino in fondo e hanno sofferto con me. Hanno portato con me il peso del dolore, un peso che lentamente sentivo più leggero.6-una scalatauna scalata
6-una scalata
29 Gennaio: Mi è stato tolto il tubo alla trachea.
31 Gennaio: Uscita dalla Terapia Intensiva, sono stata trasferita nel reparto di Chirurgia Maxillo-Facciale per circa una settimana. Lì era tutto diverso. Potevo parlare, non prendevo più quei forti calmanti che mi facevano perdere la percezione della realtà. Il reparto funzionava bene. Il primario era una persona speciale ed il clima era disteso e cordiale. Mi sembrava di respirare un’aria nuova. Nella camera non ero più sola, ma con altre due pazienti molto gentili. Il personale cercava di aiutarci con la massima disponibilità, mi chiedevano cosa preferivo mangiare (tutto frullato e freddo), quali erano i miei gusti. Hanno permesso ai miei famigliari di rimanere anche di notte. Così non ero più sola, tenevo la mano a chi era con me e ho iniziato a dormire senza svegliarmi continuamente.
Il reparto era chiuso solo al mattino nell’orario di visita dei medici. Al pomeriggio era permesso agli amici e familiari di entrare. Mi sono venuti a trovare i primi parenti e amici. Dopo tanto tempo vederli di nuovo è stato bellissimo! Non mi dava fastidio che mi vedessero in quelle condizioni. Non sarò stata di certo “uno spettacolo”! La faccia era ancora “un pallone”. Avevo ancora tutti e quattro i gessi. Facevo fatica a parlare, perché le ferule mi tenevano bloccati i denti e la mandibola. A me non importava. La cosa più importante era che loro fossero lì e tifassero per me, per la mia guarigione. L’incontro con le persone a me più care mi ha dato una grande forza interiore ed ha rappresentato un forte stimolo per continuare a lottare. Qui ho iniziato, poco alla volta, a ingerire qualcosa: succhiavo con una cannuccia frullati, budini e omogeneizzati. Mi sembrava di essere tornata bambina!
02 Febbraio: Mi hanno tolto le ferule dalla bocca, i punti alle orecchie e alla testa (per operarmi al viso mi hanno dovuto incidere sulla testa da orecchio a orecchio e scoprire).
03 Febbraio: Quarto intervento chirurgico in anestesia locale. Mi hanno cucito la ferita alla trachea. Purtroppo non è stato fatto un bel lavoro. Oltre ad essere visibilmente brutta la ferita si è riaperta dopo pochi giorni.
04 Febbraio: Mi hanno rifatto tutti e quattro i gessi.
05 Febbraio: Sono stata trasferita nell’ospedale della mia zona. Ero felicissima!
In realtà, appena trasferita, sono comparse le prime coliche. Ero “piegata” da questi forti dolori, che comparivano più volte al giorno, soprattutto dopo mangiato. Essendo ricoverata in un reparto ortopedico, il personale medico e paramedico non ha dato molta importanza a questi dolori. Alcuni sostenevano che fossero dovuti allo stress accumulato, altri “simpatici” dicevano che il mio lamentarmi fosse solo ricerca di attenzione. Sono andata avanti così per oltre un mese. Soltanto a fine Marzo, nel Centro di Riabilitazione, mi hanno diagnosticato i calcoli biliari. A seguito delle anestesie e dei tanti farmaci assunti, era comparsa la renella (piccoli calcoli) nella cistifellea (colecisti).
A causa di queste coliche, che mi provocavano nausea, vomito e forti dolori, e che si calmavano soltanto con la somministrazione di farmaci per endovena, non sono riuscita a vedere i tanti amici e parenti che desideravano venirmi a trovare. Questo periodo è stato molto difficile.
17 Febbraio: Quinto intervento chirurgico in anestesia locale. In Sala Operatoria mi hanno cucito la ferita alla trachea per la seconda volta. Mi hanno tolto la cannula dal collo e me l’hanno inserita nell’inguine.
In questa occasione ho conosciuto il personale della sala operatoria, che poi ho rivisto per gli interventi successivi. Questi ragazzi sono stati per me dei fratelli maggiori! Mi tenevano per mano prima di ogni intervento, mi facevano sentire il loro calore prima che mi addormentassi e quando mi svegliavo erano sempre lì a sostenermi e a rassicurarmi. Ogni volta che varcavo la soglia della Sala Operatoria sulla barella, dopo aver salutato i miei familiari, trovavo questi “angeli” che mi accoglievano con calore, scherzavano con me, facevano battute e questo rendeva meno drammatico ogni intervento chirurgico. La paura svaniva lentamente e l’attesa si faceva più corta.
24 Febbraio: Mi hanno tolto la cannula dall’inguine. Sono stata trasferita nel reparto di Ortopedia, dell’ospedale in cui sono stata operata inizialmente, per rimuovere i gessi a tutti gli arti.
Ho iniziato la fisioterapia agli arti inferiori. Non potendo dare peso alle gambe, io rimanevo sdraiata e due fisioterapiste le muovevano. Dopo un mese e dieci giorni di completa immobilità è stato faticosissimo tornare a muovere le gambe. Piegare di pochissimo le ginocchia comportava enormi dolori. Questi dolori hanno fatto aumentare le coliche renali, la nausea e il vomito ed è stata necessaria, ancora una volta, la cannula all’inguine, per nutrirmi mediante le flebo. Ho chiesto ai medici di provare a stare seduta e hanno accettato. Gli infermieri mi hanno sollevato con una traversa e adagiato su una sedia a rotelle. Dopo circa venti minuti ero già stanchissima.
Davvero questa esperienza è stata una scalata!
29 Febbraio: Mi hanno tolto i punti alla trachea. Mi hanno sfilato il ferro dalla spalla sinistra senza anestesia. Questo ferro, inserito nell’osso della spalla, sporgeva all’esterno e finiva con un uncino ben visibile e un po’ fastidioso, dato che potevo stare stesa solo in posizione supina.
02 Marzo: Sesto intervento chirurgico in anestesia locale. Prima di dimettermi dall’ospedale sono stata trasferita nel reparto di Chirurgia in day-hospital. Qui mi hanno rimosso una vite dal dorso del naso che teneva ferma una placchetta di titanio. Questo intervento è stato necessario in quanto la pelle sul naso era talmente sottile che faceva trasparire la vite. Oltre ad essere brutto esteticamente, il rischio era che, se avessi inciampato, si sarebbe lacerata la pelle, provocando una ferita irregolare e più estesa. I medici hanno preferito rimuovere la vite e cucire la pelle in modo adeguato.
03 Marzo: Sono tornata di nuovo all’ospedale della mia zona per pochissimi giorni. In questi giorni ho iniziato a mangiare cibi solidi, non più frullati.
I medici mi hanno prospettato l’idea di farmi ricoverare in un Centro di Riabilitazione, per circa due settimane. Ho preso malissimo questa decisione. Dopo essere appena tornata non volevo, di nuovo, allontanarmi dal mio paese, anche se solo per due settimane. In realtà le due settimane sarebbero state due mesi, ma data la mia reazione, nessuno aveva avuto il coraggio di dirmi la verità.
- RINASCERE UNA SECONDA VOLTA
06 Marzo: Sono stata trasferita in un Centro di Riabilitazione specializzato. Qui sono rimasta fino al 29 Aprile.
Per circa due mesi le mie giornate sono state impegnate quasi interamente dalla fisioterapia. Andavo in palestra tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, mattina e pomeriggio e tornavo in camera solo per il pranzo e di sera.
Qui i medici hanno trovato un farmaco adeguato per le coliche biliari e ho iniziato a stare molto meglio. Il cibo era buonissimo e ho cominciato a riprendermi. Fino a questo momento infatti ero dimagrita dieci chili. Pesavo appena quaranta chili. Ma è stato facile riprendere peso! Per farmi “ingrassare” i miei amici mi hanno portato di tutto: la pizza, l’hamburger, la piadina, il cibo cinese, il gelato. Dopo averli così attesi erano gustosissimi!
In questa struttura ho respirato un clima davvero disteso e sereno. Il personale medico e paramedico è stato sempre disponibile e gentilissimo. Hanno cercato in tutti i modi di farmi sentire bene e ci sono riusciti, mi sono sentita come a casa. Quando penso a questi giorni i ricordi sono sempre molto belli e provo tanta emozione. Nonostante la fatica e gli sforzi di un periodo così lungo di ricovero e di riabilitazione, la gioia di poterli condividere con qualcuno: familiari, amici, ma anche fisioterapisti, infermieri e medici, ha rappresentato davvero tanto per la mia guarigione!
Sono rinata una seconda volta. Come se fossi tornata bambina e imparassi giorno per giorno ad essere indipendente. Sono rinata in modo consapevole, rendendomi conto di ogni nuovo progresso o conquista: poter muovere un braccio o una gamba, stare seduta, mangiare da sola. Quando ho potuto girarmi da una parte, nel letto, e dormire sul fianco, dopo mesi in cui riuscivo a dormire solo di schiena, è stato come essere in paradiso. Quando sono riuscita a sostenermi con le mie gambe e muovere i primi passi sorretta da un ausilio, dopo essere stata per tanto tempo stesa o seduta, è stato come rinascere. Ho assaporato ogni movimento, ogni passo. Ho gustato tutto con la meraviglia di un bambino. Mi stupivo ed ero contenta per ogni cosa, sentivo il mio corpo rinascere poco alla volta. Ogni movimento, anche il più banale, diventava una conquista, un motivo per gioire e sperare che tutto potesse ritornare come prima.
I dottori erano ancora titubanti, direi pessimisti o forse prudenti, comunque le previsioni non erano ancora delle migliori. Non escludevano la possibilità che rimanessi sulla sedia a rotelle e dicevano che, nella migliore delle ipotesi, avrei avuto bisogno del supporto delle stampelle per camminare. Questo a causa del ginocchio destro che presentava molti problemi. Comunque non ci siamo scoraggiati, anzi io ho osato anche un po’. Mi sentivo davvero bene, sia fisicamente, che emotivamente. Sentivo tornarmi le forze e questo mi dava molto coraggio.
Dopo due settimane, grazie alla tanta fisioterapia, riuscivo a muovere il braccio destro, a stare seduta, a mangiare e dormire da sola. Non riuscivo ancora ad andare in bagno e dovevo utilizzare la padella.
Nelle prime settimane gli infermieri mi calavano dal letto tenendo i lembi di una “traversa” e mi mettevano sulla sedia a rotelle, sia per mangiare, sia per andare in palestra. Successivamente mi facevo sistemare la sedia a rotelle accanto al letto e strisciando mi lasciavo cadere sulla sedia.
- NON ERO PIU’ IO
La fisioterapia era molto faticosa. Per riuscire a piegare le ginocchia e le braccia occorrevano tanti sforzi e dovevo sopportare un forte dolore fisico, recuperando pochissimi gradi per volta. Mi stancavo molto. La sera dopo cena mi addormentavo subito. Non riuscivo a fare più tardi delle otto. Anche se c’erano i miei genitori, mio fratello o il mio fidanzato a tenermi compagnia non riuscivo a stare sveglia. Al mattino veniva quasi sempre mia mamma. Mi aiutava a vestirmi, mi lavava e mi aiutava a fare colazione. Mi teneva compagnia fino a quando gli inservienti mi venivano a prendere per andare in palestra. I fisioterapisti erano bravissimi. In palestra eravamo una decina di pazienti e cinque o sei fisioterapisti. Il clima era allegro e sereno anche se si lavorava moltissimo.
Ricordo la prima volta in palestra. Io, di fronte ad uno specchio molto grande, guardavo il mio corpo. Solo qui ho preso consapevolezza di quanto era successo. Non riuscivo a distogliere gli occhi, mi faceva impressione quella figura così strana, che non mi apparteneva. Non ero più io. La fisionomia del volto era cambiata. Il naso diverso aveva cambiato l’intera faccia. Il corpo era talmente magro che si vedeva la forma delle ossa e la tuta che indossavo era enorme. Fino a quel momento mi ero vista soltanto in viso con uno specchio molto piccolo. Lì mi vedevo per intero e la cosa mi impressionava.
Più avanti la situazione è migliorata. Per la prima volta mi hanno fatto il bagno. E’ venuta la mia parrucchiera e mi ha tagliato i capelli. Mia mamma mi ha rinnovato il guardaroba comprandomi delle tute attillate che mi facevano apparire il fisico magro, ma non scheletrico. Col tempo sono riuscita ad accettarmi sempre più.
I fisioterapisti mi hanno aiutato a sdrammatizzare su tutta la vicenda. Tutto il personale medico e paramedico mi ha aiutato. Io ero la paziente più giovane e anche quella più coccolata, visto la gravità della situazione. Gran parte dei pazienti erano adulti o anziani, ricoverati per un breve periodo, a seguito di un intervento all’anca o alle ginocchia. Con me c’era un altro ragazzo più grande, anche lui ricoverato a seguito di un incidente gravissimo. Tra noi si è instaurato un bel rapporto. Era molto simpatico e scherzava sempre con me. Mi urlava dalla sua stanza o quando passava nel corridoio. Facevamo a gara, prima paragonando le nostre fratture, poi i progressi fatti. Anche i fisioterapisti ci confrontavano l’uno con l’altro per stimolarci. Qualche volta facevamo la fisioterapia uno di fianco all’altro, chiacchierando e raccontandoci le nostre vite e i nostri sogni. I fisioterapisti ci facevano scherzi e ci prendevano in giro. Questo clima di amicizia e di sostegno mi ha aiutata davvero tanto sia fisicamente, sia psicologicamente.
- DI NUOVO IN PIEDI… LA VITA E’ PIU’ IMPORTANTE
22 Marzo: Settimo intervento chirurgico in anestesia locale. Con la Croce Rossa sono andata all’ospedale del mio paese per alcuni controlli e per cucire la ferita sulla testa. In Sala Operatoria i medici mi hanno cucito la ferita che, a forza di grattare, avevo fatto riaprire.
23 Marzo: Ottavo intervento chirurgico in anestesia locale. La Croce Rossa mi ha portato all’ospedale, in cui sono stata operata, per un controllo al viso. I medici, del reparto di Chirurgia Maxillo-Facciale, hanno deciso di rimuovermi la placchetta di titanio dal naso. Purtroppo, a seguito di questo intervento, il dorso del naso, che prima era perfetto, ha ceduto. I medici mi hanno detto che, se avessi voluto, l’avrebbero potuto risistemare, ma essendo molto stanca dei continui interventi, ho preferito tenermi il naso un po’ storto.
12 Aprile: Dopo tre mesi di nuovo in piedi. Questo è uno dei giorni più belli e importanti della mia vita. I medici mi avevano dato il permesso di caricare sulle gambe, cioè di rimettermi in piedi per la prima volta. Ero in palestra con i fisioterapisti. Mi hanno detto di provare ad alzarmi lentamente e di appoggiarmi con le ascelle su un deambulatore. Erano in tre, tutti attorno a me, pronti a prendermi se non ce l’avessi fatta a sorreggermi. E’ andata benissimo!
Stavo finalmente in piedi di fronte allo specchio. In piedi si notava ancora di più quanto fossi dimagrita.
Si raccomandavano di mettermi a sedere se mi fosse girata la testa, ma io stavo davvero bene. Sono stata in piedi per circa cinque minuti. Poi mi sono seduta. I fisioterapisti erano contentissimi e dicevano che ero stata bravissima. Poi per scherzo mi hanno chiesto di rialzarmi ed io ce l’ho fatta di nuovo, senza alcun problema o dolore. Allora, vedendomi così, mi hanno chiesto se me la sentivo di fare qualche passetto sempre appoggiata con le ascelle a questo carrello. Non ho fatto solo qualche passo, ho fatto il giro della stanza. Anzi due. E il secondo con un carrello più piccolo che si tiene con le mani. E’ stato davvero incredibile!
Sono rimasti tutti sconcertati dal mio recupero. Nessuno se lo sarebbe immaginato date le previsioni. Riuscivo a camminare di nuovo, nonostante tutto.
Quel giorno i miei genitori sono entrati in palestra proprio mentre stavo camminando. Mia mamma è scoppiata a piangere dall’emozione. Nel pomeriggio la Croce Rossa mi ha portato all’ospedale in cui sono stata operata, per un controllo alle ginocchia. Il Primario è stato molto contento nel vedermi camminare. La stessa sera alcuni miei amici sono passati a trovarmi. Quando sono arrivati in camera io non c’ero. Stavo venendo su dalla palestra a piedi, con le stampelle, accompagnata da un fisioterapista. I loro occhi si sono spalancati. Che sorpresa! E’ stato un momento stupendo!
In una settimana ho ripreso a camminare da sola. Prima con il carrellino, poi solo con le stampelle. Finalmente potevo scendere dal letto con le mie gambe ed andare in bagno da sola. Ho recuperato velocemente. E’ stata una sorpresa incredibile! I progressi, che i medici e i fisioterapisti si auguravano nel corso di un mese o due, grazie a Dio, sono avvenuti in una sola settimana.
29 Aprile: Sono stata dimessa dal Centro di Riabilitazione e sono tornata a casa.
04 Maggio: Nono intervento chirurgico in anestesia generale. Mi sono stati rimossi i ferri, le placche e le viti di titanio, al braccio sinistro.
15 Maggio: Ho iniziato la fisioterapia nell’ospedale della mia zona. Per due anni consecutivi, ho svolto la fisioterapia tutti i giorni, tranne il sabato e la domenica, per due ore al giorno. I primi mesi mi accompagnavano i miei familiari, poi da Agosto ho ripreso a guidare e sono andata da sola. Anche qui ho instaurato un bel rapporto con i fisioterapisti.
E’ in questo periodo che ho messo per iscritto le prime emozioni e i sentimenti provati:
Tutti dicono che sono forte, che reagisco bene, che non mi abbatto e forse è vero.
Forse di fronte a queste situazioni tutti si darebbero una mossa, una spinta.
Sento lamentarsi continuamente anziani per i loro “acciacchi” dovuti all’età.
Sento donne che parlano continuamente di diete, lampade e vestiti alla moda.
Tante persone si lamentano per un chilo di troppo o un fisico che non piace… ed io, cosa devo dire?
«Ma te sei giovane, ti riprendi! Ma te sei forte, guarisci!».
Ho diciannove anni e un corpo tutto segnato da tagli, buchi, pesti… tutte cose che passeranno, ma che ho provato e che mi hanno segnato.
So cos’è il dolore, la sofferenza, la paura di ritrovarsi da un giorno all’altro più morta che viva.
So cosa vuol dire passare dall’agire al non potersi nemmeno toccare il viso.
So cosa vuol dire vedere i tuoi cari, la tua comunità, stare male nel vederti così sofferente.
Mi sento vulnerabile. Ho paura di tutto, non sopporto più il dolore, sono stanca, ma forse non fino in fondo. La strada è lunga e riuscirò a tenere duro, ad essere forte.
Vedo la luce, la luce della fine. Non voglio essere e non sarò più come prima. Vorrei essere migliore, vorrei una vita più consapevole, più felice.
Ma dipende tutto da me. Mi aspetterò tanto dalla vita… o forse mi accontenterò di poco, quel poco che è enorme quando non c’è, quel poco che per me sarà abbastanza.
Non mi importa di come diventerà il mio fisico, non mi importa se resteranno i segni, quei segni resteranno comunque impressi nella mia mente, non posso cancellarli.
Io vorrei dire che è possibile superare una cosa così grossa, anche se non è per niente facile.
Perché questo incidente? Purtroppo adesso non lo so, lo capirò in futuro.
Perché l’ho superato? Per me, per tutti quelli che mi stanno vicino, perché la vita è più importante di ogni cosa.
- OLTRE OGNI ATTESA
26 Ottobre: Decimo intervento chirurgico in anestesia generale. Mi sono stati rimossi i ferri, le placche e le viti di titanio, al ginocchio destro.
07 Novembre: Dopo avermi tolto parte dei punti, il medico mi ha detto di iniziare gradualmente a caricare sulle gambe. I giorni successivi ho iniziato a camminare senza stampelle, prima con l’aiuto del fisioterapista, poi da sola.
15 Febbraio: Undicesimo intervento chirurgico in anestesia generale. Mi sono stati rimossi i ferri, le placche e le viti, al ginocchio sinistro e al gomito destro. Dopo questo intervento ho impiegato qualche settimana per riuscire di nuovo a camminare. Il fatto di essermi operata alla gamba e al braccio nello stesso intervento ha comportato per me enormi sforzi, in quanto non riuscivo a farmi forza né sulle braccia, né sulle gambe e il dolore per le ferite era davvero tanto.
Dopo ogni intervento la fisioterapia all’ospedale veniva interrotta e utilizzavo un macchinario a casa per piegare le ginocchia. Era importantissimo non interrompere mai il movimento, specialmente delle ginocchia, perché se fossi rimasta senza piegarle, anche solo per qualche giorno, avrei di nuovo perso tutti i gradi recuperati. Ho proseguito la fisioterapia fino a Luglio dell’anno successivo.
Ho faticato tanto ed ho recuperato molto, anche se non del tutto. Le ginocchia non si piegano totalmente e anche con le braccia sono limitata in certi movimenti, ma ciò non mi pesa più di tanto. Riesco a fare tutto quello che facevo prima, anche se in modo diverso. Riesco a camminare anche se ho una gamba più lunga dell’altra di un centimetro: conseguenza della difficile ricostruzione delle ginocchia. Problema che risolvo parzialmente con un “rialzino” dentro la scarpa. Riesco persino a correre.
Ho un problema alla pupilla dell’occhio destro, che non “mette a fuoco” da vicino, per cui utilizzo gli occhiali quando leggo, ma riesco a vedere. Mi affatico facilmente e provo dolore se mi sforzo, se mi piego, se rimango molto in piedi, ma cerco di dosare le mie forze, facendo delle pause tra un lavoro e l’altro. Ho molte cicatrici, molti segni sul corpo, ma ho imparato ad accettarli. Ho vari dolori alle gambe e alla schiena, ma riesco comunque a vivere bene.
A distanza di due anni: dodicesimo intervento chirurgico per asportare la colecisti.
Negli anni successivi altri tre interventi, non legati all’incidente. In tutto quindici operazioni chirurgiche, di cui l’ultima felice (parto cesareo), io poco più che trentenne.
La mia vita si è realizzata. Sono arrivati la laurea, il matrimonio, due figli con noi e uno in cielo. Ho ricevuto davvero tanto! Oltre ogni attesa e aspettativa!
Ogni giorno un nuovo inizio, una nuova occasione, un dono. Ogni vita è una meraviglia!
CONCLUSIONE
E’ soltanto accettando e mostrando i nostri limiti, le nostre fragilità, che accettiamo gli altri. E’ soltanto mostrandoci così come siamo, che costruiamo relazioni autentiche. Se riusciamo a capire questo allora saremo veramente liberi e la nostra vita sarà meravigliosa anche se malati, disabili o anziani. Quando abbiamo il coraggio di mostrarci bisognosi scopriamo la vera solidarietà, la vera compartecipazione, il vero affetto. Noi non siamo i nostri limiti, le nostre fragilità, i nostri errori! Siamo molto di più!
L’incidente mi ha insegnato che il chiedere aiuto è un atto di umiltà, non un segno di debolezza. Potrei esagerare dicendo che il chiedere aiuto è un’arte. Forse ci sono molte più persone pronte ad aiutare, che a chiedere aiuto. Aiutare è facile perché ci rende protagonisti. Ci fa sentire bene, utili, importanti. Chiedere aiuto, invece, è molto difficile, perché richiede fiducia nell’altro, siamo noi che dobbiamo metterci nelle mani di un’altra persona. L’umiltà è la prova di forza più alta.
A questo punto ringrazio tutti. I miei familiari che hanno vissuto con me i giorni più brutti. Che mi hanno amata.
Grazie a tutti coloro che mi hanno soccorso durante l’incidente, tutti quelli che mi hanno assistita e che si sono fermati, dando il loro contributo per la mia salvezza.
Ringrazio tutti i medici che mi hanno curata, che hanno ricostruito il mio corpo, che mi hanno tenuta in vita con tutte le cure necessarie. Ringrazio tutti gli infermieri, i fisioterapisti, i tecnici, gli inservienti che mi hanno accompagnata verso la completa guarigione trattandomi come una persona dotata di dignità anche se malata.
Grazie a tutti coloro che hanno creduto nella forza della preghiera! Grazie per chi si è posto da mendicante verso Dio e ha creduto che Lui potesse ascoltarci e compiere il miracolo!
Grazie per chi mi è venuto a trovare, per chi mi ha scritto, per chi mi ha pensata!
Io, in questi anni, ho pensato molto a tutti voi!