Cosa suscita maggiore tenerezza tra un micino lavato in modo maniacale dalla sua mamma, un bambino che muove i primi passi, un ’anziano che accarezza a lungo il suo cane?
Nel mio caso, tutte le cose insieme. L’immagine più tenera che ho registrato ultimamente ha per protagonista un ’uomo sulla cinquantina. Abbiamo appena terminato di fare colazione al solito bar, è un sabato mattina, ci siamo scambiati confidenze e informazioni. Stiamo per congedarci riconsegnandoci al tran tran di un week end che si preannuncia molto tranquillo, quando si alza dal tavolo e mi accorgo che ha la lampo dei pantaloni abbassata. Noto il colore grigio dei suoi capelli, il suo atteggiamento quasi paterno mentre insiste per pagare, la situazione contrasta teneramente con questo indecoroso dettaglio, che lo rende simile a un bambino. Subito mi si affaccia l’immagine della mia maestra della scuola materna, che per trarre dall’imbarazzo i miei compagni che si trovavano in questa situazione li ammoniva: “La bottega è chiusa di mercoledì!”. Vorrei avvertire il mio amico di questo particolare, ma mi manca il coraggio, lo lascio percorrere quella traiettoria che separa il tavolino alla cassa, lasciandolo impietosamente esposto agli sguardi degli avventori, che forse già ridono tra sé e e sé. Il mio amico è buffo e tenero, discreto e sensibile. Per questo siamo diventati amici.
Quando mi parla dei suoi figli stringe gli occhi, restano due fessure strette strette, quasi che la loro immagine sia troppo grande e lui volesse trattenerla. Quando mi parla della donna della sua vita la indica come la mia “morosa”. La prima volta questa espressione mi ha divertita molto, io non pensavo che dopo i quindici massimo venti anni qualcuno facesse riferimento al proprio compagno appellandolo in questo modo.
Il mio amico quando mi saluta ruota la mano a destra e sinistra, di giorno veste in giacca e cravatta, ma solo per esigenze di lavoro, come un grembiule indossato a scuola, si vede che questo abbigliamento è per lui una divisa, non gli appartiene. Nel tempo libero veste in jeans, camicia bianca, con i primi bottoni slacciati e stivaletti.
Una mattina stavo raccontando al mio amico i miei impegni per la giornata, lui se ne è uscito con “Mi fanno male i piedi”, come un bambino al quale si fa una richiesta e quello svia con una risposta del tutto diversa. L’ho visto raggiungere la sua auto camminando sulle punte, quest’immagine mi accompagna ancora. Ci siamo incontrati molti anni fa, frequentavamo lo stesso bar, si nascondeva ogni mattina dietro un giornale, inciurmito, buffo, indifeso, lanciava in ogni direzione occhiate inquisitorie, enigmatiche e ansiose, sembrava aprire spazi che andavano colmati da una storia. Ci pensammo io e mia figlia a riempire quel vuoto: per noi e per diverso tempo divenne il lupo buono, aspetto austero e cuore d’oro, poi è diventato il mio amico.
Il mio amico non toglie il giaccone quando mangia, come chi ha vissuto l’esperienza del terremoto e va a letto vestito perché traumatizzato, lui è sempre pronto a fuggire, da un pericolo o rincorrendo un’avventura. Una volta gli ho regalato il modellino della sua automobile, ne è stato felice. Il mio amico sa ascoltare, lo fa a lungo, poi ti interrompe e ti rivolge una domanda diretta e indiscreta, come sanno fare solo i bambini.
Il mio amico ha cinquantadue, io non ho amici così grandi, lui è il primo, pensavo che tra i suoi anni e i miei trentacinque, ci fosse una distanza enorme, pensieri e percezioni diversi, ma per noi non è così, come se ci fossimo già incontrati in un’altra vita e in questa ci siamo solo ritrovati.
Chiara Macina