LETTERA ALLA RAGAZZA CON IL CAPPIO AL COLLO
Di Ilaria Di Roberto
Cara ragazza con il cappio al collo,
ti scrivo questa lettera con la speranza che queste parole arrivino a te, ovunque tu sia.
Ti scrivo, anche se è troppo tardi,
anche se non posso vederti o toccarti,
anche se non sei qui con me.
Ti scrivo perché voglio dirti che non ti biasimo: sebbene la tua decisione sia stata un duro colpo per te, così come per tutti coloro che ti amavano, quei POCHI che ti amavano…io ti comprendo.
Ti scrivo perché spesso nelle parole vive il ricordo di qualcuno.
Proprio per tale ragione voglio che tu sappia che in questo momento SEI NEI MIEI RICORDI!
Non ho avuto l’onore di conoscerti, ma nonostante questo TU VIVI IN ME e nella totale inconsapevolezza mi dai la forza di lottare ed andare avanti.
È per quelle come te che stringo i denti ogni giorno.
È per quelle come te che continuo a vivere, a dispetto delle calunnie, delle minacce e delle parole, quelle parole che il più delle volte uccidono, feriscono, lacerando il tuo animo come fossero coltelli: quel nodo che ti cinge la gola ne è la prova.
Non ti scrivo per rimproverarti, né per infierire, ma perché attraverso queste parole tu possa continuare a vivere, seppur in un’altra forma.
Prima di essere circondata da angeli, eri sola; completamente sola. A scuola ti prendevano in giro. C’era qualcuno a cui quei tuoi chili di troppo, proprio non andavano giù. In fondo neanche tu li sopportavi tanto: ti rendevano insicura, vulnerabile, timida. Ed è proprio a causa di quella debolezza che un bel giorno mentre uscivi da scuola, due ragazzi ti hanno spinta giù per le scale e sei precipitata a terra, sbattendo la testa. Ricorderai sicuramente il volto di tua madre in lacrime, una volta giunta in ospedale: era seduta accanto al tuo letto, sul quale giaceva il tuo corpo ormai privo di sensi. Furono attimi di puro terrore per lei. Dopo quarantotto ore eri già fuori pericolo. Tuttavia, la forte botta alla testa ti ha fatto dimenticare buona parte dell’accaduto. Non ti ricordavi neanche chi fosse stato.
Uscita dall’ospedale sei tornata a scuola, come se nulla fosse successo. Tuttavia le beffe sono continuate. Hai smesso di mangiare per un lungo periodo e di lì a poco sei precipitata in un altro tunnel, quello della bulimia. Era devastante ogni volta dopo aver mangiato, mettersi due dita in gola e auto-procurarsi il vomito, ma così facendo saresti diventata più magra, il tuo bozzolo di grasso si sarebbe disciolto come neve al sole e nessuno ti avrebbe più giudicata per il tuo aspetto; nessuno ti avrebbe più maltrattata o spinta giù per le scale, conducendoti quasi alla morte.
Non saresti più stata da sola. In tal maniera, con il trascorrere dei giorni ti sei catapultata nuovamente nel baratro, stavolta, quello dell’anoressia.
A distanza di qualche mese hai stretto amicizia con una ragazza, Maila. Si era appena trasferita in città. Era davvero carina, solare, piena di vita. A differenza di tutti gli altri, lei non ti giudicava. A differenza di tutti gli altri, lei ti apprezzava per quello che eri. In poco tempo siete diventate amiche strette.
A Maila non importava del tuo aspetto e neanche che fossi timida e impacciata: le bastava solo stare in tua compagnia ed esserti amica. A lei hai confidato tutti i tuoi drammi, i tuoi pensieri più intimi. Le hai raccontato addirittura di quando tuo padre si abbassò i pantaloni davanti a te per la prima volta, costringendoti a toccare il suo membro. Hai ancora in testa l’immagine di quell’orribile momento. Tua madre non lo sapeva, non glielo avevi mai raccontato.
Non sapevi come dirle che quel padre snaturato, lo stesso che ti aveva messa al mondo, ti molestava da quando avevi sei anni. A volte era sereno, altre in preda all’ubriachezza dava in escandescenza e picchiava tua madre. Lei piangeva, urlava, sorrideva soltanto quando si accorgeva che eri lì ad assistere, nascosta dietro la porta della cucina per non farti accorgere. Non voleva che la vedessi in lacrime, non sopportava che vivessi nel terrore. Forse aveva già capito qualcosa, forse aveva intuito di non essere poi così sola in quel calvario senza tregua: c’eri tu, tu insieme alla tua sorellina di tre anni, Claire, che ogni notte si svegliava di soprassalto e iniziava a piangere. Così tuo padre si alzava dal letto,
la prendeva in braccio e per farla calmare la portava in bagno. Lì rimanevano chiusi le ore, quasi come fossero al servizio di un crudele esperimento. Quando uscivano, lei singhiozzava ancora, singhiozzava così forte che a stento riusciva a respirare.
Tuo padre, senza alcuna preoccupazione la rimetteva nella culla: neanche i suoi metodi riuscivano a placarla. Tua madre non sentiva quei singhiozzi: gli psicofarmaci che prendeva ogni sera la estraniavano dal mondo esterno, costringendola a letto buona parte della giornata. Maila invece era molto attenta, in poco tempo era diventata un vero e proprio punto di riferimento per te.
Lei era diversa dalle altre, non era come quei ragazzi che ti bullizzavano, non ti faceva sentire stupida, né ancor meno inadeguata. Inoltre era anche la ragazza più carina della scuola. Tutti la amavano, facevano a gara per avere un pizzico della sua attenzione, specialmente i ragazzi. Dio solo sa quanto avresti voluto essere come lei. La sua compagnia ti infondeva sicurezza. Ti ha fatto conoscere la cocaina, i tatuaggi, l’euforia di un piercing sulla lingua ed infine anche un ragazzo.
Lui si chiamava Marc, era all’ultimo anno.
Qualsiasi ragazza avrebbe fatto follie per lui: Era a tutti gli effetti, il ragazzo più bello della scuola. In poco tempo Maila era riuscita a farti avere un incontro con lui, una sera ad un party. Avete parlato per qualche minuto e dopo esservi dati all’alcol, vi siete chiusi in bagno ed avete avuto rapporti: è stato l’istante più incredibile della tua vita! Per la prima volta ti sei sentita davvero amata da qualcuno, qualcuno che ti apprezzava indipendentemente dal tuo aspetto, nonostante il tuo essere così dannatamente imperfetta.
Quando si è soli, spesso ci si attacca a chiunque, ma lui, proprio come Maila, era diverso dagli altri, lui non ti avrebbe mai fatto del male. Ti sei innamorata di Marc nel giro di pochi secondi: avevi fretta di cancellare dal tuo corpo le impronte indelebili di un padre snaturato. Avevi fretta di sostituirle, lasciandoti toccare dalle mani giuste per la prima volta nella tua vita. E fu così, che in un frazione di secondo ti sei donata a lui, dimenticando una volta per tutte il marchio che ti aveva lasciato quel padre indegno.
Adesso avevi un ragazzo, non eri più sola. Ora saresti stata amata e rispettata da tutti. Maila non faceva altro che darti consigli: diceva che se volevi tenerti un ragazzo, avresti dovuto imparare a sedurlo, stuzzicandolo continuamente. Avresti dovuto dimenticare ogni pudore, scattandoti delle foto nuda per poi inviargliele sul telefonino. Maila diceva che in quella maniera, non gli sarebbe venuta la voglia di cercare altre ragazze.
Inizialmente eri un po’ titubante, in fin dei conti non avevi mai fatto una cosa simile prima di allora, ma non volevi correre il rischio di perdere il tuo primo ed unico ragazzo. Marc era così dolce, ti
trattava come una principessa, per nessuna ragione al mondo lo avresti messo nelle condizioni di abbandonarti lasciando insoddisfatte le sue voglie. Così, a dispetto della vergogna e dell’imbarazzo, hai deciso di lasciarti andare: un paio di foto da angolazioni diverse bastarono a renderti speciale ai suoi occhi.
Ti chiese una foto, poi un’altra ancora; infine anche dei video in cui avresti dovuto fargli vedere come eri brava a stuzzicare le tue parti intime, prima con le dita ed in un secondo momento anche con degli oggetti.
Lui nel mentre diceva di amarti, che era stato uno stupido a non accorgersi di te molto tempo prima e che nessuna donna lo aveva mai reso così felice quanto te. Maila ancora una volta aveva avuto ragione: Marc sarebbe rimasto al tuo fianco per sempre.
Trascorrevano i mesi e tutto andava a gonfie vele. Tutti i tuoi problemi sembravano essere terminati: quegli anni trascorsi in balìa della solitudine erano solo un brutto ricordo. Avevi iniziato anche ad uscire più spesso e a frequentare discoteche e locali alla moda. Tuo padre era andato via di casa e in famiglia la quiete sembrava essere tornata. Anche tua madre aveva intrapreso una nuova relazione e tua sorella aveva appena iniziato ad andare all’asilo.
Tutto sembrava andare per il verso giusto fino a che un bel giorno, durante la ricreazione hai visto il tuo ragazzo e la tua migliore amica baciarsi nei bagni della scuola. Non riuscivi a crederci. Di fronte a quella scena hai sentito la rabbia crescerti dentro senza alcuna esitazione.
Così ti sei scaraventata contro di loro, prendendoli a schiaffi. I due ragazzi sono corsi in presidenza e tu sei stata sospesa da scuola per una settimana. “Perché proprio io?” – ripetevi a te stessa – “che cosa ho fatto di sbagliato? Dopotutto, non è stata colpa mia!”. E avevi ragione: Marc ti aveva tradito, la tua migliora amica ti aveva ingannata. Vedere le persone che amavi di più, tradirti in quella maniera spazzando via dal tuo cuore ogni singola speranza di felicità è stato come ricevere una pugnalata. Perché dovevi essere l’unica a pagare?
Da quel giorno hai iniziato a sperimentare l’autolesionismo. Ogni taglio inflitto sulla tua pelle era un’ancora di salvezza. Ogni goccia di sangue che scorreva da quelle ferite, portava con sé un po’del dolore che avevi dentro. Più usciva il sangue, più ti sentivi bene. Di lì a poco, tutto diventava più sopportabile. Era trascorso solo qualche giorno da quell’ultima straziante delusione. Tuo malgrado, avevi deciso di dimenticare quella brutta storia una volta per tutte. Così sei tornata a scuola, cercando di evitare il più possibile qualsiasi contatto con Marc e Maila che da poco più di una settimana, avevano deciso di rendere pubblica la loro relazione sui social.
Un pomeriggio, hai ricevuto una richiesta di amicizia su Facebook: si trattava di profilo con il tuo stesso nome “Miranda Foxx”, aveva come foto principale quella dei tuoi seni.
Era la stessa foto che avevi inviato a Marc due mesi prima, quando stavate ancora insieme. In preda al panico hai chiamato tua madre, e dopo averle spiegato tutta la situazione, insieme siete andate immediatamente a sporgere denuncia.
“Non possiamo fare nulla al momento” – ripetevano i poliziotti – “la questione richiede tempo”.
“Che significa che richiede tempo? Quanto tempo? Dovete far eliminare immediatamente quel profilo!”.
Nonostante la tua disperazione, i due poliziotti rimanevano in silenzio, guardandosi l’un l’altro. Sembravano
assorti, o magari complici…
Il giorno successivo, quelle foto sono finite anche su YouTube, insieme ad altri tuoi scatti. Al tuo rientro a scuola, hai trovato alcune di quelle immagini attaccate sulle pareti dell’atrio, in bella vista. Accanto a queste, una scritta: “sono Miranda Foxx e ho voglia di uccello! Vi piacciono le mie tette? Le trovate in 5B”. Oltre all’annuncio c’era anche il tuo numero di telefono. Tutta la scuola ha iniziato a ridere di te. Ogni sguardo, ogni sorriso malevolo, ogni battuta era una lancia che trafiggeva il tuo cuore, lasciandoti senza una goccia di sangue. Accortasi dell’accaduto, la preside ti ha convocata nel suo studio: “Miranda, perché hai fatto una cosa del genere?”.
“Non sono stata io!” – hai urlato in lacrime.
Ma nessuno ti credeva, neanche i tuoi compagni di classe che alle tue spalle non facevano altro che beffeggiarti. Sapevi chi era stato, lo intuivi al modo in cui Marc e Maila ti guardavano ogni volta che li incontravi. Dietro quei loro sogghigni, trapelava la cattiveria più cruda.
Tuttavia la questione richiedeva tempo. Secondo i poliziotti, dovevi aspettare.
Per un lungo periodo ti sei barricata nella tua stanza. Non avevi né la voglia, né il fegato di uscire dalle porte di casa. Ormai tutti ti davano della prostituta, anche tuo padre che una sera ti ha mandato un messaggio su WhatsApp, lasciandoti senza parole: “eppure piangevi ogni volta che ti toccavo io, ma vedi? In fondo a qualcosa è servito. Papà è curioso di vedere quanto sei diventata brava. Ti aspetto domani fuori da scuola…”. Eri inorridita. Altre lacrime, altri tagli, altro dolore. E poi gli psicofarmaci: erano droga per la tua anima, ma anche l’unico rimedio per poter dimenticare quel via vai di eventi che ti stavano consumando poco a poco, riducendo il tuo piccolo cuore in brandelli.
“Se tutti mi considerano una poco di buono, tanto vale diventarlo!” pensavi. Così l’indomani ti sei presentata all’appuntamento, donando la tua dignità in cambio di cinquanta euro. Hai venduto la tua dignità in cambio di una dose di cocaina.
Una sera hai ricevuto una telefonata. Un uomo sulla quarantina ti aveva chiamato per fare sesso al telefono. Ti ha detto di aver visto la tua pubblicità su un sito di incontri, sul quale era stato pubblicato anche il tuo numero di cellulare, oltre che le tue foto. Hai iniziato ad urlare in preda al panico, ma nessuno ti ha sentito. Eri sola in casa. Tua madre era appena uscita con il suo nuovo fidanzato. Tua sorella era nell’altra stanza che dormiva. Ti sei precipitata in bagno e hai preso le forbici. Due tagli profondi sui polsi non sono bastati a cancellare il dolore. Altri cinque tagli sulla tua pelle. Niente, non passava. Arrivata al settimo taglio, ti sei accasciata a terra: “facciamoci un altro taglio, forse stavolta muoio” – hai pensato. Sentivi la tua pelle andare a fuoco ogni volta che le forbici affondavano nella carne. “Non sono neanche capace a morire” – ripetevi a te stessa.
Ti sei trascinata in sala, priva di forza. Per terra, mille gocce di sangue. Scorrevano sul pavimento, una dietro l’altra, creando nel loro silenzio una melodia agghiacciante. Hai preso un foglio di carta, riportando nero su bianco il tuo testamento: “mamma, Claire, perdonatemi se potete. Non riesco più a vivere in un mondo in cui nessuno riesce ad amarmi. Vi voglio bene, non dimenticatelo mai… Miranda”. Hai lasciato il biglietto sul tavolo, dopodiché barcollando sei salita in camera tua: è stata la rampa di scale più faticosa della tua vita.
Il tuo corpicino è stato ritrovato appeso ad un lampadario. Avevi il cappio al collo. Le gocce di sangue avevano continuato a scorrere per un bel po’, nonostante il tuo cuore si fosse già fermato. Scorsero fino a quando il tuo cadavere, ormai impregnato di morte, divenne freddo come il ghiaccio. Cara ragazza con il cappio al collo, anche se non ti conosco posso dirti che si sta male senza di te. Tua madre non è più quella di un tempo: la sera, prima di addormentarsi guarda sempre la tua foto e poi la stringe a sé, con la speranza che tu possa materializzarti lì da un momento all’altro.
La tua sorellina ormai dodicenne è in cura da uno psicologo: dicono sia schizofrenica solo perché a colazione ti vede seduta accanto a lei. Dice a tutti che la guardi, che le sorridi, che a volte addirittura le parli. Lei riempie sempre una tazza di latte e Cheerios per te e poi la mette a tavola, nel posto in cui ti sedevi sempre. La sera si chiude nel bagno e inizia a giocare con le lamette: dice che così facendo ti sente più vicina. I poliziotti hanno avviato le indagini per la chiusura di quel sito solo un anno fa, poco dopo la tua morte. Marc e Maila non sono stati condannati, in compenso la giustizia ha fatto sì che prendessero parte a progetti extrascolastici, al fine di stimolare la propria creatività in attività che non prevedano l’uso del telefono. Fuori dalla tua scuola adesso c’è uno striscione dedicato a te:
“IN MEMORIA DI MIRANDA. SARAI SEMPRE NEI NOSTRI CUORI”.
Cara ragazza con il cappio al collo, ora che ti amano tutti, cosa te ne farai di tanto amore? Sarà sufficiente a riportare la gioia nel cuore di tua madre? Basterà a far sì che Claire guarisca? Riuscirà a far in modo che tuo padre finisca in prigione? Non te l’ho ancora detto, ma tua sorella ha intenzione di denunciarlo. Lo farà presto. Se tu fossi ancora viva, magari lo avrebbe già fatto. Cara ragazza con il cappio al collo, non ti ho scritto per rimproverarti, né per infierire, ma perché attraverso queste parole, tu possa continuare a vivere. Ormai è tardi, ma non abbastanza da impedire che altre, come te e come me, possano indossare quel cappio, lo stesso con il quale una grigia mattina di settembre hai deciso di fermare il tuo tempo.
Ti scrivo per dirti che essere accettati e amati da tutti non è poi così importante, specialmente quando hai di meglio da perdere, specialmente quando hai tanto da dare. Ti scrivo affinché tutti sappiano che avere giustizia è un atto che richiede tempo, ma decidere di gettare la spugna è questione di un attimo. Ci vuole tempo per punire. Un solo attimo per morire.