Le mani sulla città di Francesco Rosi
Nel gennaio 2015 veniva a mancare, a novantatré anni di età, una delle figure più importanti del cinema italiano dagli anni Sessanta fino agli albori del nuovo millennio: lo sceneggiatore e regista napoletano Francesco Rosi. Ha lavorato e collaborato con altri personaggi di primissimo piano del calibro di Visconti, Zeffirelli, Antonioni e Gassman. Tra le sue pellicole principali si ricordano in particolare quelle di denuncia sociale e politica. Così in “Uomini contro” del 1970 affronta senza mezzi termini l’assurdità della guerra; poi ancora “Il caso Mattei” del 1972 e “Cristo si è fermato a Eboli” del 1979, entrambi con l’interpretazione di un grande Gian Maria Volonté, che sono film di successo in cui Rosi si occupa rispettivamente dell’attentato al presidente dell’Eni Enrico Mattei e della storia di Carlo Levi, tratta dall’omonimo romanzo autobiografico dell’artista, condannato al confino durante il Fascismo. Più recentemente, nel 1997, ha portato sul grande schermo un altro romanzo autobiografico: “La tregua” di Primo Levi, che tratta del lungo viaggio di ritorno dal campo di concentramento di Auschwitz.
Qui ne vogliamo tuttavia ricordare le capacità di sintesi giornalistica e di denuncia, proprie di un moderno documentarista, che emergono dalla pellicola “Le mani sulla città” del 1963, vincitrice del Leone d’Oro al Festival di Venezia, la cui sceneggiatura è stata condivisa con Raffaele La Capria. E’ un film ambientato a Napoli, che punta il dito sulla piaga della speculazione edilizia e dei rapporti tra mondo politico e criminalità, soprattutto quella dei cosiddetti e insospettabili colletti bianchi. Non si fa mai riferimento a nomi di partito, se non con un veloce e generico richiamo iconografico nel finale che ritrae reali manifesti elettorali.
Come recita infatti la didascalia conclusiva della pellicola, mentre le immagini dall’elicottero mostrano una città in costruzione ed espansione, «i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». Il film si chiude con la posa simbolica della prima pietra proprio nel punto in cui, all’inizio della pellicola stessa, un gruppo di politici capitanati da Edoardo Nottola (l’attore Rod Steiger), costruttore e consigliere comunale della coalizione di destra, valutano l’ipotesi dell’espansione urbanistica attuabile attraverso lo strumento assai remunerativo della cementificazione sfruttando il miliardario piano statale straordinario per il Mezzogiorno.
Un grave incidente di percorso, con il quale Francesco Rosi apre questo sipario sulla città di Napoli, sembra bloccare i progetti lucrativi dell’esponente comunale Nottola, che trova nel comunista De Vita (interpretato dal sindacalista e poi senatore Carlo Fermariello) il suo più acerrimo antagonista: il crollo di una palazzina in un vicolo, a causa di lavori riconducibili alla società edile gestita dalla famiglia Nottola, porta il consiglio comunale a convocare una commissione d’inchiesta su pressioni dell’opposizione di sinistra e della lista di centro. La gogna mediatica e politica si abbatte giustamente su Nottola che, in vista delle imminenti elezioni, si vede voltare le spalle dal suo stesso gruppo di appartenenza perché è ormai un uomo scomodo persino per la destra; riesce tuttavia, con funambolico tatticismo, a riciclarsi insieme al suo manipolo di fedelissimi in un’inedita coalizione di centro che risulterà determinante per la nuova maggioranza di centro-destra.
Nottola si eleva a profeta di un’edilizia moderna basata su case nuove e decorose contro le “catapecchie” fatiscenti in cui sono costretti a vivere i napoletani dei rioni popolari «ostaggio della propaganda comunista»; De Vita dal canto suo gli urla in aula tutto il proprio disprezzo con pesanti accuse di opportunismo politico e di mancanza di rispetto verso le regole del piano regolatore urbano. «Quelli che sono i vostri sudditi, quelli che vivono nelle “catapecchie”, stanno prendendo coscienza dei loro diritti di cittadini», grida l’inferocito esponente dell’opposizione.
Questo film è drammatico nel suo essere fotografia di un’ipocrita realtà sociale e ambientale, che potremmo riscontrare sicuramente anche altrove e non necessariamente a Napoli; non è un caso che alla posa con benedizione – poiché la fede anzitutto – della prima pietra nell’ultima scena, il regista faccia presenziare, oltre Nottola e il sindaco, anche un ministro e un alto esponente ecclesiastico. La pellicola è ambientata dunque a Napoli ma in realtà è lo specchio, in salsa quasi antropologica, della politica e della società italiana nel loro insieme.
E’ pertanto il riflesso di quell’Italia madrepatria del boom economico ed edilizio degli anni Sessanta, con tutti i suoi pro e i suoi contro; ma anche di quell’Italia virtuosa che comincia a prendere coscienza dei propri diritti, scendendo in piazza e urlando le proprie istanze di democrazia; e ancora purtroppo di un’altra Italia – evidentemente orfana di santi, poeti ed eroi – che scopre le opportunità celate nella bambola matrioska del voto clientelare, annullandosi dietro una pacca sulla spalla. Ecco perché questo film di Francesco Rosi sul malcostume politico del Belpaese ha sempre un qualcosa di attuale e di universale, sebbene con quel dannato retrogusto amaro di chi riesce a cogliere nei meandri della pellicola una piaga evergreen: il malaffare e la corruzione nel mondo della politica.
Simone Sperduto