L’ AVVENTURA DELLA SCUOLA
In me c’è un imprinting che non si cancella: la scuola comincia il primo ottobre!
Ogni anno in quel giorno non manco di ritornare con la mente, anche solo per un attimo, ai miei primi giorni di scuola di tantissimi anni fa, quando portavo la cartella con libri e quaderni e tutto odorava di nuovo; questo pensiero è sempre immerso in un’atmosfera autunnale, perché a Bologna, dove vivevo, il primo ottobre era già autunno pieno, ai tempi in cui le stagioni erano ancora quelle descritte nelle poesie e nei dettati che di lì a poco mi avrebbero riempito le giornate.
Ricordo bene l’inizio della prima elementare, mentre ho dimenticato molti dei successivi.
Nella scuola di quartiere, in uno stanzone affollato di mamme e bambini, alcuni insegnanti storici della scuola chiamavano a turno i loro nuovi scolari. Io ero curiosa per quell’ambiente mai visto prima, speravo di finire in classe con qualche bambina conosciuta all’asilo dalle suore: ora erano lì intimidite e come me si stringevano alle mamme, attente ai nomi chiamati via via.
Tiravo un sospiro di sollievo ogni volta che sentivo un nome diverso dal mio scandito da una certa maestra terribile, nota e temuta in tutto il quartiere. Ogni bambina che partiva verso di lei mi sembrava dovesse andare incontro a chissà quale supplizio e io speravo di scansarlo. Ma nemmeno le altre maestre mi chiamavano, cominciai a preoccuparmi. Le classi si formavano e pian piano si allontanavano verso le aule, io ero sempre lì.
Alla fine nel salone restammo in un gruppo di bambini con le mamme, a guardarci l’un l’altro perplessi. Era rimasta anche Annalisa, l’amica del cuore dell’asilo, e questo mi consolava, ma solo un poco. Poi le mamme notarono in un angolo una donnina minuta e scura di capelli, con alcuni fogli in mano: le più intraprendenti le chiesero spiegazioni e lei timidamente disse che era la maestra appena arrivata nella scuola, nei fogli aveva l’elenco dei suoi alunni, ora avrebbe controllato e… sì eravamo tutti con lei!
Le mamme sospirarono di sollievo, noi bambini non ci sentimmo più sperduti: avevamo trovato la nostra maestra!
Ero contenta: con me c’erano Annalisa e Lamberto, un piccolo amico vicino di casa, iniziavamo insieme l’ avventura della scuola.
Si trattava di una classe di risulta, formata per ultima, tant’è vero che era mista, maschi e femmine insieme, fatto eccezionale all’epoca, in una scuola così grande. Eravamo trentotto alunni e anche le altre classi erano così numerose!
In seguito quelli vennero chiamati gli anni del baby boom del dopoguerra, stavano anche iniziando le migrazioni dal sud d’Italia, nel 1957 i bambini erano moltissimi, le aule insufficienti e dovevamo fare i doppi turni, una settimana al mattino e una al pomeriggio.
Le mamme erano rimaste un po’ male per quell’inizio così umile e si chiedevano che razza di maestra sarebbe stata questa nuova, a tutti sconosciuta.
La ricordo come “la signorina Carini”, perché il suo nome di battesimo si è perso lungo la storia della mia carriera scolastica: aveva già una certa età, era nubile e tutta votata al suo lavoro, portava sempre un grembiule nero con la cintura annodata in vita.
Era una brava insegnante, le mamme si tranquillizzarono rapidamente, fu un anno sereno: io già leggevo e scrivevo e finii il libro di lettura da sola molto prima delle lezioni assegnate. Quel libro mi piaceva tanto, mi attiravano le letture, mi incantavo a rimirare a lungo le illustrazioni, realistiche e dai colori delicati; mi piaceva soffermarmi soprattutto su una doppia pagina che presentava l’alfabeto maiuscolo attraverso i nomi di ventun bambini allegri su un prato fiorito, alcuni dai nomi mai sentiti prima: Ivo, Olga, Zita… pensavo che avevano nomi ancora più strani e rari del mio.
Invece l’aritmetica mi piaceva poco e ricordo come un tormento le interrogazioni sulla metà dei numeri dispari a cui si doveva rispondere dal banco, contando su certi cartelloni di palline rosse e nere, appesi sopra la lavagna. Per fortuna dietro di me stava seduto il bambino più bello e bravo della classe, che mi suggeriva spudoratamente perché io fra tutte quelle palline mi perdevo!
I banchi erano ancora di legno a due posti col sedile attaccato e il buco in cui sistemare il bicchierino riempito d’inchiostro, usavamo pennino e penna, a Bologna detta “cannuccia” e per noi, piccoli scolari ancora inesperti, era grande la preoccupazione di non fare macchie nella scrittura.
La signorina Carini era l’unica maestra della scuola che durante la ricreazione faceva uscire a correre e a giocare nel corridoio, poi prima di rientrare in classe ci affollavamo tutti dietro una vetrata a guardare fuori il lavoro dei muratori: stavano costruendo un’ala nuova per ingrandire la scuola.
– Vedete bimbi, l’anno prossimo i doppi turni non ci saranno più!- diceva la maestra.
Ma non ci fu più nemmeno lei, con grande dispiacere nostro e delle mamme che alla fine l’apprezzavano molto: ebbe il trasferimento vicino a casa.
La nostra classe mista di risulta si sdoppiò: con l’arrivo di tanti altri iscritti nuovi si poterono fare due classi, una maschile e una femminile.
Eravamo sempre più di trenta bambine. La mia nuova maestra mi fu subito simpatica, perché mantenne per noi il fiocco celeste chiaro scelto l’anno prima dalla signorina Carini, a me piaceva tanto così originale, una classe femminile col fiocco azzurro a quei tempi era molto strano.
Questa insegnante ci accompagnò fino in quinta: una donna corpulenta, mora, con la pelle olivastra e gli occhi neri, profondi e indagatori. Era tranquilla, scrupolosa, severa, ci stimolava con gare a punteggio che duravano settimane, alla fine la vincitrice riceveva un piccolo premio. Le competizioni tagliavano fuori sempre le stesse povere bimbe, di famiglie disagiate, che arrancavano tra doposcuola e compiti in disordine.
Ma la scuola era ancora così, selettiva e spietata, qualche compagna la perdemmo per strada, bocciata. Io vincevo spesso, non avevo difficoltà, nemmeno più in matematica.
La scuola era per me un mondo piacevole, non solo un dovere, ma una porta che mi faceva entrare nelle meraviglie dell’apprendere: riuscivo bene in tutte le materie e la curiosità mi spingeva a imparare sempre di più, attraverso l’ascolto della radio, la lettura di libri e giornali che papà mi lasciava a disposizione in casa. La maestra si stupiva, diceva alla mamma che non aveva mai avuto una scolara che a nove anni conoscesse la vita e le opere di Vincenzo Bellini o le imprese di Garibaldi.
Avevo come amiche più care le migliori della classe e il nostro mondo era ricco di fantasie, non eravamo invidiose dei reciproci successi. Avevamo formato una “banda”, attiva durante le ricreazioni, ci davamo i nomi dei nostri eroi preferiti, tratti dai libri o dai films, il pirata Morgan o Nuvola Rossa, progettavamo imprese spericolate, più a parole che con i fatti: a scuola la ricreazione era breve e la disciplina rigida.
In quegli anni inventai un nuovo gioco, quando ero sola in casa: allineavo certi minuscoli mobili di legno della casa delle bambole come fossero banchi di scuola, vi sistemavo le mie bambole più piccole e diventavo la loro maestra, ripetendo ciò che avevo sentito durante le lezioni. Mi piaceva moltissimo, cominciava a formarsi nella mia testa un’idea: da grande mi sarebbe piaciuto fare la maestra…
Verso la mia insegnante, severa ma stimolante, provavo un sentimento complesso in cui si mescolavano la soggezione, per il senso del dovere e la serietà che emanavano dai suoi sguardi e dalle sue parole, insieme a una forte ammirazione per il suo lavoro, perché mi facilitava la strada della conoscenza in cui continuavo da sola, per appagare le mie curiosità.
Un’estate la ritrovai in spiaggia, a poche tende di distanza, in villeggiatura con le figlie. In un primo momento non gradii molto vederla lì ogni giorno, dopo tutti i mesi in classe!
Temevo che mi chiedesse: – Li fai i compiti? Quanti temi hai già scritto?- perché nelle vacanze ci dava sempre venti temi, dieci a soggetto libero e dieci col titolo assegnato, proprio un tormento!
Ma poi mi considerai privilegiata ad aver avuto la maestra come vicina di spiaggia in estate, una familiarità nuova si era aggiunta ai sentimenti provati verso di lei.
Questo si accentuò in quinta: dovetti fare un complesso intervento ortopedico all’inizio dell’anno scolastico e senz’altro sarei stata bocciata a causa della lunga assenza, dato che a quel tempo non c’erano insegnanti di sostegno per chi aveva gravi problemi di salute, si ripeteva la classe e basta. La maestra decise che mi avrebbe mandato le lezioni a casa tramite un’altra bambina, se ce la facevo a studiare da sola: in effetti i compiti e lo studio mi riempivano le giornate, combattevano la noia in quell’autunno solitario.
Quell’insegnante fu davvero generosa: ogni tanto veniva a casa a trovarmi, si accertava che procedessi senza troppe difficoltà nel lavoro autonomo, così quando finalmente rientrai a scuola poco prima di Natale ero in pari con le altre ed evitai la bocciatura. Questi incontri e il suo interessamento mi sostenevano e mi davano un enorme piacere. Durante le sue visite lei si guardava attorno nella modestissima cucina in cui io facevo i compiti sul tavolo grande e la mamma lavorava a domicilio per rimagliare le calze velate delle clienti sul tavolinetto e i discorsi tra le due donne si allargavano ad argomenti della quotidianità, soprattutto i problemi economici. Erano confidenze importanti e riservate, per l’onore della famiglia non si doveva far sapere in giro quanto noi fossimo in ristrettezze.
A quel tempo, alla fine della scuola elementare, si poteva continuare alla scuola media “seria”, col latino, porta d’ingresso per la prosecuzione degli studi, oppure accontentarsi della scuola “avviamento” per chi a quattordici anni sarebbe entrato nel mondo del lavoro.
Papà cominciò a dire che per me ci sarebbe stata la seconda scelta, avrei dovuto andare a lavorare presto, non potevamo permetterci di mantenermi a lungo a studiare.
Eppure pareva contento dei bei voti che portavo a casa, del mio interesse per la cultura, ma si tormentava per le finanze familiari così scarse.
La maestra lo venne a sapere, credo fu per il suo interessamento che mi iscrissero al concorso di una borsa di studio, c’erano da fare un tema e un esame orale. Li superai, arrivò un po’ di denaro sicuro e papà si convinse a iscrivermi alla scuola media. La somma mi avrebbe accompagnato ogni anno, fino alla terza, bastava essere sempre promossa a giugno: anche per questo ci tenevo a fare bene, ma non avevo difficoltà. Alle medie l’ultimo anno vinsi un premio come migliore della scuola.
Ogni tanto tornavo a salutare la maestra, nella sua nuova classe. Mi accoglieva sorridendo, mi fermavo un po’ mentre faceva lezione, a volte mi invitava ad aiutare qualche bambina, a me piaceva molto venire così coinvolta, mi sembrava che quello fosse proprio un bellissimo mestiere.
Durante la terza media, le idee di mio padre divennero opprimenti:
– Farà la sarta, anzi la camiciaia! Deve fare la camiciaia! Quello è un mestiere sicuro, le camicie vanno sempre. Come è possibile farla continuare a studiare, con quel che costa? –
Contava e ricontava le spese, i pagamenti, le tasse, brontolava, con gli occhi abbassati sui fogli sparsi a coprire mezzo tavolo in cucina… sull’altro mezzo tavolo io fingevo di leggere o di studiare, lo sbirciavo e sentivo un nodo alla gola.
La mamma sosteneva la mia causa: – Ce la faremo, intanto proviamo a ottenere una nuova borsa di studio! –
Mi accompagnò alla prova del concorso, un nuovo tema, un nuovo esame, io lo affrontavo come una battaglia e volevo assolutamente vincere. Sì, ce la feci, potevo iscrivermi alla scuola superiore, ma quale?
Mia madre chiese un parere ai professori e, dato che andavo bene in tutte le materie, arrivarono suggerimenti diversi.
La professoressa di lettere mi vedeva al liceo classico e mi immaginava nel futuro addirittura accolta alla Normale di Pisa!
L’insegnante di matematica indicava il liceo scientifico, diceva che per le mie capacità di ragionamento era il più adatto.
Quella di disegno insisteva che la mia creatività unita alla precisione nei lavori mi dovevano portare al liceo artistico, da grande avrei avuto senz’altro successo.
Non mi avevano per nulla chiarito le idee, in tutto questo io decisamente escludevo un futuro matematico-scientifico, per il resto ci riflettevo parecchio e ne discutevo con mia madre.
Il liceo artistico mi affascinava, ma qui l’ostacolo venne dai genitori: lo consideravano una scuola poco seria, frequentata da gente con idee strane (si sa, gli artisti!), non adatta a una signorina per bene come dovevo essere io. Lasciai perdere.
Restavano il liceo classico e l’istituto magistrale, entrarono in gioco allora considerazioni estremamente pratiche: il primo durava cinque anni e mi obbligava poi a proseguire all’università, il secondo dopo quattro anni mi dava già un titolo di studio spendibile nel mondo del lavoro, soprattutto nel lavoro di maestra che tanto mi affascinava.
Con l’aria che tirava in famiglia era bene non illudersi né impegnarsi troppo a lungo nel futuro. Guardai i programmi di studio, scoprii che al Magistrale tra le materie c’era anche disegno e ne fui contenta, non avrei dovuto abbandonare ciò che mi piaceva tanto, ebbe un peso rilevante nella mia scelta: mi iscrissi senza più nessun dubbio.
Lo studio diventava ogni anno più impegnativo, ma continuava a interessarmi, anche se mi scontravo con alcuni professori un po’ strani, che si ostinavano a renderci la vita complicata. Però io ero più ostinata di loro: dovevo sempre essere promossa a giugno. Guai se fossi stata bocciata o anche solo rimandata! Avrei perso tutto, la borsa di studio per me era una garanzia.
Ce la facevo e con medie abbastanza alte che mi davano una certa notorietà nella scuola: studiavo volentieri, anche se come tutti brontolavo perché oltre allo studio volevo mi restasse tempo per altro, soprattutto per qualche ora con gli amici.
La mamma aveva capito presto la mia indole di intellettuale, ero pochissimo portata per i lavori casalinghi e cercavo di evitarli accuratamente, di questo si lamentava parecchio, mi prevedeva un pessimo futuro di moglie e madre.
– Speriamo che tu possa permetterti la donna di servizio. – diceva sospirando.
– Quando ci sarà bisogno, vedrò di imparare anche le faccende di casa. – le rispondevo in silenzio, dentro di me.
E usavo spesso il buon profitto scolastico come arma nei confronti dei genitori, quando tentavano di impedirmi le uscite con qualcuno o in qualche luogo non di loro gradimento: era un ricatto, certo, ma se andavo bene a scuola c’erano meno motivi di rimproveri, speravo di allentare le loro proibizioni e di avere concessa qualche libertà. Qualche volta funzionava.
Man mano che procedevo, soprattutto quando cominciammo ad andare per le classi della scuola elementare a fare il “tirocinio”, mi convincevo sempre di più di aver fatto la scelta giusta: mi piaceva stare con i bambini, mi sembrava facile e divertente, mi offrivo volentieri se, come esercitazione, c’era da preparare qualche piccola lezione da proporre a quegli alunni che già fantasticavo potessero essere i miei.
Sarei diventata maestra, senz’altro!