La moda può essere eco-sostenibile?
«Chi paga il vero costo di un abito che viene venduto a quattro dollari?». Questo quesito lo pone Livia Firth, fondatrice di Eco Age, l’associazione no profit che si occupa della sostenibilità nella moda.
Il quesito nella giornata di celebrazione della Settimana della Terra arriva come una lama a squarciare il velo dell’ipocrisia della così detta moda democratica, cioè il fast fashion a basso prezzo. Infatti, nella moda c’è un tema da studiare, che è la eco-sostenibilità, un’espressione da sfatare, e cioè il senso del significato che si dà a «moda democratica», che è strettamente legato alla sostenibilità perché coinvolge il fattore umano.
La sensibilità che spinge la moda ad essere eco-sostenibile è necessaria e prescindere dal materiale con cui essa stessa viene realizzata.
È un aspetto difficile perché, per quanto esistano marchi che fabbricano tutti i loro prodotti con fibre eco-sostenibili, al momento non è immaginabile sostituire i materiali ai quali la stessa storia dell’umanità affida il ruolo che ricoprono le pelli e la lana e il cotone. Da tempo si cerca di rendere l’impatto della moda sulla natura meno aggressivo, ma occorre riflettere bene prima di agire.
Facciamo un esempio: quando si è cercato di limitare l’impatto ambientale e sociale della seta e si è spinta la sua sostituzione con la viscosa, si è poi scoperto che il lavoro di sintesi della cellulosa, il materiale naturale da cui è ricavata, ha un processo altamente inquinante e, se non bastasse, consuma un’enorme quantità di acqua.
Proprio per questi limiti e per limitare i danni, gli studi sulla moda eco-sostenibile si sono spostati sui protocolli di lavorazione. In Italia, che può definirsi all’avanguardia su questo tema, i protocolli ecologici sono molti e sono molte le aziende che hanno studiato diversi modi di sostenibilità certificati dal Ministero dell’Ambiente. Basti citare, per tutti, il protocollo Social & Environmental Responsability di Gucci creato già nel 2004 e l’impegno sul tema di Prada che, oltretutto, il 21 marzo scorso ha ospitato la conferenza mondiale Shaping a Creative Future in collaborazione con Yale University e Politecnico di Milano.
E, sempre a Milano, il prossimo 24 settembre si terrà il primo evento mondiale sulla sostenibilità, The Green Carpet Fashion Awards. Iniziative che, però, non spostano la problematicità della situazione sulla sostenibilità della condizione in cui versano milioni di lavoratori nel mondo che ha portato Livia Firth, che è anche ambasciatrice di Oxfam e per l’Onu di Change, a mettere volutamente il dito nella piaga della moda a basso costo, vantata dalle grandi multinazionali del fast fashion come «la moda per tutti».
La moda per tutti, certo, ma a quale costo?
Se, infatti, la domanda è rimasta senza risposta «anche quando questo sistema è stato responsabile della morte di oltre mille lavoratori (soprattutto donne giovani) con il crollo del complesso Rana Plaza in Bangladesh nel 2013» vuol dire che «moda democratica» è un’espressione ingannevole perché l’acquisto a basso prezzo non rende meno gravi le colpe dello sfruttamento dei tanti che producono una quantità inimmaginabile di vestiti.
Firth dice anche che «la moda è una delle industrie più grandi della terra e purtroppo una delle più inquinanti. Prima di acquistare una gonna per pochi dollari pensate al pianeta e alle persone della catena di fornitura, tra cui milioni di giovani invisibili che trascorrono la loro vita a cucire roba per i nostri armadi in paesi come Bangladesh, Myanmar e Vietnam». Il problema, quindi, ci coinvolge in quanto consumatori. D’altronde il ragionamento è banale, nessuno regala niente a nessuno e dietro certi mondi, come quelli della moda, si nascondono cifre importantissime di guadagno. Pertanto…