giovedì , Novembre 21 2024

“KOKOÈ”: il racconto di Renata Rusca Zargar premiato in Campidoglio a Roma

RACCONTO PREMIATO IN CAMPIDOGLIO A ROMA

VINCITORE DEL I PREMIO AL CONCORSO LE PAROLE DEL GECO BANDITO DALLA SCUOLA DI SCRITTURA CREATIVA DI CIAMPINO

 

 

KOKOÈ

Kokoè era nata un paio di anni dopo il fratello Foli eppure, anche se era più piccola, toccava sempre a lei andare a prendere l’acqua nello stagno che si trovava un po’ fuori del villaggio. Poi tornava con l’enorme secchio che trascinava a fatica. Arrivata vicino alla capanna, doveva travasare l’acqua facendola passare attraverso un tessuto per purificarla dalle impurità. Nello stagno, infatti, vivevano parecchi animali, tra cui un coccodrillo, ma almeno non c’era da camminare a lungo nella brughiera per giungere a una fonte o a un pozzo.

Dopo, doveva raccogliere i pomodori maturi cresciuti sulla pianta che strisciava a terra vicino alla loro capanna perché non marcissero e, infine, preparare un pasto decente per quando la mamma sarebbe tornata.

Foli nel frattempo giocava con gli altri bambini del villaggio perché era un maschio e a lui non spettavano i lavori domestici.

Inoltre, tra pochi mesi, Foli sarebbe andato a scuola in una grande capanna fuori dell’abitato che i capi villaggio del circondario avevano costruito e adibito a quello scopo. Lui avrebbe imparato a leggere e scrivere mentre Kokoè sarebbe restata a casa perché la mamma aveva bisogno di lei.

La mamma lavorava a giornata nei campi gestiti da una multinazionale e tornava, stremata, solo quando scendeva il buio. Come donna, prendeva un salario minore di un uomo e non era abbastanza per vivere, quindi, appena avesse avuto almeno sei anni, Kokoè sarebbe andata anch’ella a raccogliere arachidi, ananas o frutti del cacao dai quali estrarre i preziosi semi.

La domenica, però, tutti insieme, con un vestito presentabile che conservavano per le feste, si recavano in chiesa a Kpalimé a sentire la Messa. Dovevano fare alcuni chilometri a piedi ma ne valeva la pena. Kpalimè aveva case in muratura, bancarelle zeppe di mercanzie, persino auto che si spostavano per le vie polverose. E poi, durante la funzione si cantava, si respirava il magnifico profumo d’incenso e, infine, il prete offriva ai bambini una caramella o un cioccolatino. Meritava, pensava Kokoè, attendere tutta la settimana per vivere un’esperienza tanto piacevole!

Il tempo trascorreva così, sempre uguale.

Foli, intanto, aveva iniziato la scuola e, qualche volta, raccontava in famiglia quello che stava imparando. Non aveva libri né quaderni ma il maestro usava foglie e semi per insegnare a contare e della carta vecchia per scrivere. La mamma lo ascoltava poco perché era sempre tanto stanca ma Kokoè era attenta e gli faceva molte domande.

Cercava di imparare anche lei, seppure il suo destino di femmina fosse già segnato: avrebbe lavorato a giornata in campagna, si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei figli.

Una sera, però, la mamma non era rientrata dai campi.

Il buio era già sceso da tempo ed ella non arrivava ancora. Nessuno nelle capanne ne sapeva nulla, così il capo-villaggio aveva organizzato un gruppo di uomini per andare a cercarla.

Gli occhi di Kokoè bruciavano di lacrime mentre si stringeva al fratello. Ormai non avevano altri al mondo che la mamma. Cosa le era successo?

Qualcuno, intanto, aveva avvisato il prete, padre Antoine, che era arrivato con un piccolo mezzo e alcune torce. Mentre gli uomini si addentravano nella boscaglia, padre Antoine aveva condotto i due bambini in parrocchia a Kpalimè e li aveva sistemati in una stanzetta in attesa di notizie.

Nella stanzetta, oltre ai gechi che si allungavano sulle pareti e sul soffitto, c’era solo un letto e un crocefisso appeso ma quel letto aveva le lenzuola, una copertina e persino un cuscino.

-Hai visto? C’è l’acqua che esce dal tubo nel gabinetto! – aveva notato la bambina.

-Certo. Nelle case c’è l’acqua dappertutto.

-Te l’hanno detto a scuola? E come fanno a metterla nel tubo?

-Non lo so. Però so che tutti in città hanno l’acqua in casa.

-Che bello! Forse, c’è qualcuno che la va a prendere al pozzo e poi la infila dall’altra parte del tubo.

-Può darsi, non lo so. È poco che vado a scuola, non posso sapere tutto. –

I bambini si erano addormentati sotto la copertina.

Kokoè aveva sognato che la mamma era bellissima, tutta avvolta da una nuvola d’oro.

Quando il prete era venuto ad avvisarli che la donna era stata ritrovata senza vita, non si era stupita.

-Dovete pregare bambini per la mamma. – aveva detto loro – So che siete soli al villaggio. Non c’è più nessuno della vostra famiglia. Per ora starete qui con me, poi vedremo cosa fare. –

 

 

Una settimana era già passata. La mamma riposava ora nella terra dietro la chiesa con una croce di legno che alcune pietre tenevano in piedi. Ogni tanto, Kokoè andava a guardarla.

Era stata una vita pesante, quella della mamma.

-Perché sei andata via mamma? Cosa devo fare ora? – le chiedeva Kokoé.

La povera donna non aveva lasciato nulla se non un paio di vestiti buoni e le tuniche lise che usava per lavorare nei campi. “Anch’io dovrò fare le stesse cose. -pensava la bimba – Lavorare sempre, crescere i figli…”

Il fagottino con i suoi averi era stato comunque consegnato ai bambini. Dato che Foli non se ne faceva niente, Kokoé aveva nascosto tutto sotto il letto. “Un giorno indosserò i vestiti della mamma così non la dimenticherò mai!” pensava. Ogni tanto, apriva il misero sacco e stringeva quelle stoffe colorate. Se chiudeva gli occhi, poteva credere che la mamma fosse lì con lei.

Suo fratello ora andava alla scuola che la parrocchia aveva organizzato per i ragazzi di Kpalimè.

-Presto mi manderanno a Lomè dove c’è un istituto agricolo a imparare il mestiere dell’agricoltore. – le spiegava – Non ho voglia di studiare a lungo e neppure voglio faticare tutto il giorno per pochi soldi come nostra madre. Mi hanno detto che con un corso di coltivazione del cacao o qualcosa di simile, si può lavorare per una grande azienda straniera. Voglio comandare gli altri, non essere comandato. Alla scuola mi aiuteranno. –

Kokoè taceva. Che avrebbe potuto dirgli? Che lei, invece, avrebbe desiderato studiare? Lui non avrebbe capito. Dentro di sé, però, pensava sempre alla mamma. Quanto aveva faticato per pochi soldi!

Al villaggio non c’era l’acqua di fonte e spesso la gente moriva perché beveva acqua non pulita. Non c’era la luce, il buio di notte era assoluto ma, soprattutto, senza elettricità non si poteva far salire l’acqua pulita che si trovava a una certa profondità della terra…

Come si poteva fare per portare l’acqua al villaggio?

 

Il prete, infine, non aveva avuto il coraggio di mandarli via. Dove sarebbero andati? Non aveva trovato una famiglia che li adottasse perché ormai erano grandi e la bimba avrebbe potuto solo andare a fare le pulizie o lavorare in campagna. Don Antoine, però, si era accorto che Kokoé era come assetata di sapere. Cercava di capire tutto quello che poteva dai discorsi degli altri e spiava nel libro di Foli di nascosto perché suo fratello non voleva che lei toccasse la sua roba. Così, le aveva insegnato a leggere. Da allora, lei aveva esaminato piano piano tutti i libri che aveva trovato nella piccola biblioteca della parrocchia.

-Mi raccomando, non leggere di notte alla luce della candela. -le raccomandava il prete – Ti rovinerai la vista! –

Finalmente, Foli era partito per Lomé per fare il corso di agronomia e un piccolo miracolo era capitato anche a Kokoè: l’avevano assunta alla scuola per fare le pulizie e, per intercessione di Don Antoine, poteva persino seguire le lezioni la mattina.

Al pomeriggio, dunque, Kokoè metteva in ordine le aule, portava via la spazzatura, lucidava le cattedre, toglieva le impronte di mani dai vetri, lavava e lustrava i pavimenti… Era un lavoro duro ma sorrideva sempre perché ora possedeva dei libri, poteva scrivere sulla carta, imparava cosa ci fosse nel mondo anche se non si era mai mossa da quella piccola città.

Rientrava canticchiando in parrocchia la sera che era già buio, mangiava qualcosa e leggeva le lezioni. Cadeva addormentata sul libro dalla stanchezza ma il suo cuore era felice.

 

Qualche anno era passato. Suo fratello era andato a lavorare per una grande impresa che esportava legname pregiato in Cina. Kokoè sapeva dei pericoli del disboscamento, dell’erosione del terreno, della desertificazione di larghe zone del territorio ma Foli la rassicurava sempre: -Stai tranquilla, è tutto legale. Gli alberi ricresceranno, prima o poi. –

Kokoè non era affatto convinta. Chi si preoccupava dell’Africa? Chi pensava agli indigeni e alla loro povertà nonostante il continente fosse così ricco?

Intanto, lei si era diplomata con onore. Non ce l’aveva fatta ad avere il massimo dei voti ma era andata piuttosto bene.

– Ti iscriverò all’Università, ad Accra o a Lomé, secondo il corso che vorrai fare. La parrocchia cittadina ti ospiterà e potrai continuare a studiare. – le aveva assicurato don Antoine.

-Grazie, padre. Sarò felice di quello che deciderete per me. Dato, però, che mancano alcuni mesi all’inizio dei corsi, intanto, ho trovato lavoro. Andrò ad aiutare in una piccola impresa che macina i semi di treculia per produrre olio e farina. Almeno fino a quando non partirò per la città.

-Sei sempre stata una ragazza avveduta e responsabile.

-Sai, padre, quanto sia dura la vita delle donne in Africa. Quanto debbano lavorare per pochi soldi e quanto la loro vita sia in pericolo per le gravidanze e le malattie. Non hanno nulla e molte volte perdono i loro bimbi proprio per le cattive condizioni di igiene. Non so cosa vorrei studiare all’Università, ma certamente qualcosa che mi permetta di aiutare la mia gente, che renda la loro vita meno difficile. Pensaci tu, padre. –

 

Nel frattempo, per interessamento della Diocesi di Kpalimè e con la collaborazione di un’Associazione caritatevole italiana che aveva istituito una borsa di studio, lo studente migliore del Liceo di Kpalimè sarebbe stato mandato in Italia, a Savona, a seguire un corso di Ingegneria Meccanica ed Energia e Produzione. In quel Campus, infatti, si produceva già energia con i pannelli fotovoltaici e l’esperienza si sarebbe allargata presto allo stadio di calcio che sarebbe stato ricoperto proprio con i pannelli per fornire energia a tutto il quartiere.

Lo studente designato, però, non aveva interesse per l’ingegneria e aveva rifiutato l’offerta. Don Antoine aveva capito subito che quella sarebbe stata la strada giusta per Kokoè e si era attivato perché fosse lei a partire. Un giorno, come desiderava tanto, lei avrebbe portato l’acqua pulita e la luce elettrica al suo villaggio, cioè avrebbe squarciato il buio dell’indigenza.

 

Poche settimane dopo, l’aereo si era alzato da Lomé. Sotto, le case e le baracche, le strade polverose, i mercati, i bambini sporchi che correvano incuranti del traffico, si allontanavano velocemente. Intorno, nelle campagne, le donne accucciate a raccogliere la frutta con i bimbi legati sulla schiena perdevano la fisionomia e non si vedevano più…

All’aeroporto di Genova era venuto a prenderla don Fulvio, il parroco di Legino, il quartiere che comprendeva, tra l’altro, il Campus universitario e lo stadio di calcio.

– È tutto magnifico qui! – aveva subito esclamato Kokoè mentre percorrevano l’autostrada da Genova a Savona – Le strade sono pulite, le case sono alte e colorate, le scogliere si gettano nel mare spumoso, i bambini sono ordinati e ben vestiti…-

Anche la cameretta al Campus le era sembrata un paradiso in terra con i mobili laccati, il piccolo bagno, la scrivania, la libreria… “Magari, questo legno viene dalle foreste del mio paese…” pensava mentre lo accarezzava.

A Savona, d’altra parte, a seguire i corsi c’erano molti studenti stranieri che non la lasciavano sola.

-Vieni, – la invitavano spesso – andiamo a fare un giro in città, oppure andiamo alla spiaggia.

-Al mio paese non amiamo andare a prendere il sole se non quando siamo obbligati a lavorare. -rispondeva lei -Ma qui, è tutto così bello: gli stabilimenti balneari, le sdraio, gli ombrelloni colorati… Io, però, non posso abbronzarmi come voi, sono già nera!- e sorrideva.

Ormai, conosceva le vie principali, i palazzi signorili, le incantevoli spiagge dei paesi vicini, i resti delle antiche civiltà, le testimonianze artistiche.

Qualche volta, studiava con altri ragazzi: facevano ricerche, esperimenti e discutevano su quello che stavano imparando. Tatiana, Raj, Mirko, Alessandra, Susanna: era un bel gruppo e con loro stava bene.

Poi, l’amicizia con Mirko era cambiata. Una sera, sulla passeggiata vicino al mare, alla luce della luna, lui l’aveva stretta a sé e baciata.

– Sei bellissima. Non riesco a stare senza di te, senza vederti. -le aveva sussurrato.

Kokoè non aveva risposto nulla, poi si era abbandonata ai suoi abbracci.

-Ti farò conoscere meglio l’Italia, così l’amerai anche tu come l’amo io. – aveva continuato lui.

– L’Italia è un paese meraviglioso, lo so.

– Sì. Ti condurrò a Roma, la città più bella del mondo e a Firenze, il trionfo dell’arte… Poi, a Venezia, costruita sull’acqua, e in tanti altri luoghi che ti conquisteranno. –

 

 

C’erano tutti alla festa di laurea dei suoi compagni: mamme, papà orgogliosi, fratelli, sorelle, parenti vari e tanti tanti amici.

Lei, invece, non aveva avuto nessuno perché la sua casa era molto lontana, solo i compagni dell’Università e Mirko.

-Sarei sola se non ci foste tutti voi. – aveva ribadito, ringraziando il gruppo di cui aveva fatto parte per quegli anni di studio.

-Sei una di noi e devi rimanerlo. Saremo sempre amici ovunque andremo e qualsiasi cosa faremo. – le avevano risposto in una specie di giuramento di amicizia eterna.

Così, quando l’avevano chiamata a ricevere il suo diploma di laurea si era sentita felice e orgogliosa. Ce l’aveva fatta! Aveva raggiunto un traguardo importante e non aveva tradito chi le aveva dato la possibilità di studiare.

-Mi vuoi sposare? – le aveva chiesto Mirko quella sera stessa sempre davanti al mare con le onde illuminate dal faccione rotondo della luna.

Mirko era il suo primo e unico amore: cosa poteva volere di più?

-Vedrai che troverai un buon lavoro – aveva continuato lui – e staremo bene insieme. –

Kokoè l’aveva abbracciato stretto senza rispondere mentre una lacrima le era scivolata furtiva su una guancia.

L’avrebbe sposato, sarebbe rimasta in Italia e avrebbe imboccato la strada di una vita semplice e agiata. Avrebbe generato i figli di lui, del suo amore italiano.

Non avrebbe partorito come sua madre seduta per terra vicino alla capanna, non le sarebbero morti i figli appena nati come spesso succedeva al suo paese, avrebbe goduto tutte le comodità delle case italiane e un buon lavoro che le avrebbe dato abbastanza denaro per vivere.

Forse, un giorno sarebbe tornata in Africa ma per ora non se la sentiva.

In quegli anni, non aveva parlato molto con Mirko del suo paese. Non aveva raccontato delle capanne senza acqua e dello sfruttamento di donne e bambini per pochi soldi.

Davanti alla straordinarie bellezze delle grandi città che Mirko le aveva mostrato, come avrebbe potuto spiegare la miserevolezza di tante zone dell’Africa? Mirko non c’era mai stato e non avrebbe potuto capire.

Ormai, Kokoè voleva solo diventare parte di questo paese evoluto, avanzato, voleva dimenticare il passato e vivere una nuova vita.

Al villaggio, prima o poi, ci avrebbe pensato qualcun altro.

Sì, certamente, avrebbe fatto così…

 

 

L’aereo stava scendendo verso l’aeroporto di Lomé. Intravedeva già la brughiera intorno alla città, i campi coltivati e poi i tetti delle case, le baracche… Immaginava i bambini che correvano scalzi per le strade sporche e trafficate. Più lontano, al suo villaggio, qualcuno andava a prendere l’acqua nello stagno del coccodrillo mentre le donne, con i bimbi piccoli legati sulla schiena raccoglievano la frutta nelle piantagioni delle multinazionali. Ora tutto sarebbe cambiato. Sarebbero arrivati i pannelli solari e lei avrebbe insegnato a montarli e a usarli. Avrebbero potuto avere l’energia per scavare un pozzo da dove avrebbero fatto salire con un meccanismo a elettricità l’acqua pulita e persino rischiarare la notte così buia. Poi, sarebbe andata in altri villaggi a cambiare l’esistenza di tante persone come lei, come la sua mamma. Quel giorno, indossava proprio uno dei vestiti della mamma che aveva sempre conservato con sé.

Voleva sentirsela vicina a mostrarle la via.

– Bisogna fare qualcosa per l’Africa, bisogna cambiare la vita dei più poveri. Bisogna trasformare l’Africa. Noi che abbiamo avuto la fortuna di studiare dobbiamo tornare a vivere e operare qui.- aveva sussurrato sorridendo. Certamente, la mamma la stava ascoltando.

Allora, anche il ricordo di Mirko si era fatto meno doloroso.

 

 

Renata Rusca Zargar

Liberamente tratto da una storia vera.

(sezione B1 – LE DONNE E LA SCIENZA)

 

Kokoè, dal Togo al Campus Universitario di Legino:

il mio racconto premiato in Campidoglio a Roma

Una Roma assolata e confusa, con truppe di turisti di ogni dove a batterne i sampietrini. Una Roma diversa, dove è difficile trovare del cibo tradizionale italiano, dove l’abbacchio è sostituito dal poke e dal sushi. Una Roma dove intere zone sono gestite da etnie che non hanno mai neppure sentito la parola Campidoglio.

Eppure Roma è sempre Roma, magica e accogliente come nel lontano passato, pronta a conquistare popoli non più con le armi ma con la forza del lavoro.

Ero andata a Roma per la prima volta con la gita scolastica a 17 anni. Le suore delle Rossello, dove studiavo, ci avevano portato a visitare tutte le meraviglie di un passato imperiale. Ogni alunna, però, aveva avuto un monumento di cui relazionare per le compagne. A me era toccato proprio il Campidoglio e la statua di Marco Aurelio a cavallo. Allora, ero rimasta un po’ delusa: avrei preferito il Colosseo oppure i Fori imperiali. Non sapevo che un giorno molto lontano sarei stata, invece, così felice proprio in quel luogo. Ma sapevo già che avrei voluto fare la scrittrice anche se poi la vita conduce a fare molte altre cose e la scrittura rimane un po’ come l’ultima spiaggia, verso la conclusione della vita, quando c’è più tempo, le idee sono chiare e soprattutto non si ha più paura.

Scrivere per me rimane ancora un’attività educativa e sociale, una prosecuzione del mio amato lavoro di insegnante. Attraverso la forma del racconto, che di solito prediligo, ho cercato sempre di sensibilizzare contro la violenza sulle donne e di far comprendere che ogni identità sessuale deve ottenere pari diritti e pari dignità.

Nel caso del racconto premiato, mi aveva stimolato a comporlo il tema dell’intelligenza della donna e della capacità di percorrere la via della scienza.

“Kokoè”, la mia protagonista, è una bambina che vive in un minuscolo villaggio africano dove non c’è acqua pulita né elettricità. Io sono stata, insieme a mia figlia Samina, in uno di quei villaggi con l’Associazione “Savona nel cuore dell’Africa”. Per comprendere quanto soffrano esseri umani come noi, che tipo di povertà debbano affrontare, il nostro gruppo aveva dormito una notte per terra in una capanna completamente al buio. Avevamo visto con i nostri occhi le donne e i bambini prendere l’acqua in uno stagno dove viveva persino un coccodrillo. Prima di berla, semplicemente, la filtravano attraverso un velo e solo nella migliore delle ipotesi la

facevano bollire. La loro speranza di vita non è certo come la nostra, tanti bambini muoiono e, in generale, la gente non può curare le malattie. In quella misera capanna avrebbe potuto strisciare anche un serpente o qualsiasi altro animale. Per il resto del tempo, avevamo alloggiato, comunque, in modestissime stanze di una scarna costruzione in cemento usata per l’accoglienza e le riunioni dei contadini locali.

Dunque, il destino di Kokoè è già segnato: un giorno sarà bracciante agricola per una multinazionale per pochi spiccioli come la mamma. Suo fratello, in quanto maschio, invece, potrà almeno imparare a leggere e scrivere ma per lei, che deve aiutare la madre nelle faccende, sarebbe tempo perso. Il destino, però, sceglie diversamente perché, dopo la morte prematura della mamma, viene ospitata dal parroco della piccola città vicina che le insegna a leggere. Attraverso varie vicissitudini, lavorando e studiando, riesce infine ad arrivare al Campus universitario di Legino in Savona e a laurearsi in ingegneria dell’energia. A Legino, molte persone conseguono questa laurea e qualcuno utilizza quello che ha imparato nel suo paese di provenienza. Forse, Kokoè potrebbe rimanere per sempre in Italia ed essere felice perché ha trovato l’amore. Invece, torna in Africa al suo villaggio per dare agli abitanti, attraverso i pannelli fotovoltaici, finalmente, l’acqua pulita e l’elettricità.

Aver vinto un premio tanto prestigioso é stata una forte gratificazione. Ora il mio impegno è pubblicizzare quanto scritto perché tante persone possano aprire la loro mente, vincere il razzismo e l’indifferenza nei confronti dei popoli africani.

Manzoni sosteneva che la scrittura dovesse avere il vero per oggetto, l’utile per scopo (utilità storica e utilità morale) e l’interessante per mezzo. Oggi questi principi non sono di moda ma io mi ci attengo lo stesso. Scrivere deve essere utile e formativo della società come credevano i Grandi davanti ai quali mi sono sempre inchinata come insegnante e come persona. Altrimenti, la scrittura rimane un gioco letterario di bravura del tutto simile a una PlayStation.

 

Renata Rusca Zargar

 

 

https://www.ivg.it/2023/09/un-racconto-della-savonese-renata-rusca-zargar-premiato-in-campidoglio-a-roma/

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