Negli incontri tra Joe Jeannette e Sam McVey credo di vedere, alla luce delle mie laboriose ricerche animate da passione ultratrentennale, una delle più grandi rivalità nella storia della boxe.
Il 17 aprile 1909, nell’arena concentrica del Circo di Parigi, colma in ogni ordine di posto, si disputò il terzo dei loro cinque match.
Il primo, disputato nei dintorni di New York, era stato vinto da Jeannette con una decisione giornalistica, secondo una consuetudine dell’epoca, mentre il secondo, combattuto due mesi prima nella stessa cornice parigina, aveva visto trionfare McVey al termine di venti riprese.
L’incontro di bella era un “fight to the finish” e non prevedeva un numero massimo di riprese. In palio c’era il campionato del mondo riservato ai pesi massimi di colore, una definizione che ben evidenzia le restrizioni razziste cui erano soggetti i pugili non bianchi. In una fredda primavera tardiva, andò in scena uno dei più avvincenti, emozionanti e cruenti incontri della storia del pugilato.
Sam McVey entrò prepotentemente nel match, forte di una preparazione fisica straordinaria. Nei primi diciannove round Jeanette saggiò il tappeto per ben ventuno volte: alla fine della diciassettesima ripresa poté raggiungere il proprio angolo solo con l’ausilio dei propri secondi. Ovviamente, nei tempi nostri, un incontro di tale durezza sarebbe stato prontamente interrotto.
Quelli, però, erano anni di sfida totale e noncuranza delle conseguenze: i pugili salivano sul ring con una fame torcibudella ed erano mossi da una determinazione ormai estintasi. Le regole del tempo non contemplavano, inoltre, l’interruzione del match se uno dei pugili non fosse stato contato a terra per dieci secondi. Joe Jeannette resistette alla punizione, rialzandosi sempre per tempo e, continuando a martellare il corpo di McVey, superò il dolore immenso di ossa rotte, timpano perforato, carni maciullate, gettando il cuore oltre i pugni micidiali dell’avversario.
Il ring era un lago di sangue. Sorpreso dalla monumentale volontà di Jeanette, McVey cominciò ad accusare la fatica ed a subire qualche colpo di troppo. Joe Jeannette, sfiorato dalla morte mentre ancora si trovava sui propri piedi, sentì le forze tornare a rinvigorirgli il corpo e Sam McVey toccò il tappeto, per la prima volta nel match, alla fine della trentanovesima ripresa.
Scoraggiato, senza più energie, McVey non rispose al richiamo della cinquantesima campana, consegnando all’avversario un match che aveva praticamente già vinto. A quel punto del match, McVey era andato al tappeto per 7 volte, mentre Jeannette, il vincitore, addirittura 27! I due pugili si sarebbero incontrati per altre due volte, sempre pareggiando, senza più tornare, fortunatamente, a fornire uno spettacolo di tale sanguinosa crudezza.
La carriera di Jeannette toccherà vette di grande valore, decretandone l’appartenenza al gotha del pugilato mondiale. A carriera terminata sarà oculato nell’investire i propri guadagni, terminando dignitosamente la propria esistenza a settantotto anni d’età. Sam McVey morirà da strepitoso pugile ancora in attività, a trentasette anni, per una polmonite fulminante: la tomba ed il funerale verranno silenziosamente pagati dal grande Jack Johnson, primo campione del mondo di colore dei pesi massimi.
Sam e Joe, riuniti dalla morte in un mondo che ancora non conosciamo, avranno accolto il nuovo arrivato Muhammad Alì nel lodge riservato ai grandi pugili della storia; sicuramente si saranno dati di gomito sorridenti per i suoi incontri di Kinshasa e Manila, meno impegnativi rispetto al loro di Parigi. Allora Alì, con un sorriso bonario, avrà fatto notare il fatto di essere molto più alto e grosso di entrambi e di aver smesso di tremare dopo quarant’anni di Parkinson.
Però di certo non hai il mio destro – avrebbe detto un uomo bianco dalla poltrona sotto la tivù.
E tu chi sei? – gli avranno chiesto i tre.
Sono Jack Dempsey – il pugile più potente della storia.
Più potente di quale storia? – avrà sorriso un italoamericano di nome Rocco Marcheggiano.
Da fuori la stanza, la scena sarà stata osservata da due amici di nome Joe Louis e Ray Robinson, che si saranno guardati negli occhi per poi sorridere indulgenti avviandosi a salutare i vecchi amici.
Forse. Sicuramente no… …ma cosa ci costa immaginarlo?