domenica , Novembre 24 2024

“Indifferenza” di Renata Rusca Zargar

INDIFFERENZA

(liberamente ispirato a due storie vere)

Annetta era entrata nel dolore, quel male che le prendeva il petto, le toglieva il respiro, le faceva sentire la vita come un peso enorme. Quando si sentiva così, non trovava alcuna soluzione. Gli altri non potevano capire e lei non desiderava parlarne perché sarebbe stata ancora peggio. Non ce la faceva ad accettare quell’incomprensione, quell’indifferenza, quel guardarla come a sottintendere che non c’era ragione di comportarsi in quel modo, che era una donna adulta, che doveva agire da persona matura. Non poteva discutere con loro, le avrebbero strappato il cuore con le loro frasi insensibili. Una volta che era stata male, tanti anni prima, suo padre, invece, l’aveva solo abbracciata. Aveva pianto insieme a lei e quel grumo di disperazione, a poco a poco, si era sciolto. Suo padre non c’era più e nessun altro l’aveva mai accettata veramente. Con l’auto si era diretta verso uno strapiombo sul mare. Sotto, le onde schiumavano e sbattevano furiose sugli scogli. Magari avrebbe potuto buttarsi, farla finita, chiudere con le delusioni. Invece, aveva poi fatto la spesa e l’aveva lasciata sul tavolo, in cucina. Ora, in realtà non sapeva dove andare ma non voleva rimanere a casa, non voleva preparare il pranzo come al solito. Specialmente, non voleva vedere il viso distaccato e freddo del marito e l’ostilità delle figlie.

Le pulizie, la spesa, la famiglia. Solo consuetudini e incombenze. Nient’ altro.

Troppo tempo era passato da quando aveva vissuto un attimo di libertà o una gioia che riguardasse solo lei. Cos’aveva fatto di male per meritare tanto distacco? Era troppo stanca, stanca di quella vita. Improvvisamente, le era venuto in mente che conservava le chiavi della casa di un amico occupata solo nei mesi estivi. Avrebbe potuto rimanere là qualche giorno per riposarsi e pensare. Forse, in famiglia, avrebbero compreso che aveva bisogno di una pausa. In quella modesta casetta c’erano vari cibi a lunga conservazione e non avrebbe sofferto la fame. Al piano di sopra, si trovava una camera spaziosa e persino un televisore, doveva solo stare attenta che la luce non trapelasse all’esterno e rivelasse la sua presenza. Il secondo giorno dalla sua scomparsa erano cominciate le ricerche. Lei stessa aveva visto la sua foto durante il programma “Chi l’ha visto?” e l’intervista al marito che diceva di non capire cosa fosse successo, che tutto andava bene in famiglia. Già, suo marito! Quell’uomo che si sedeva a tavola e mangiava con lo sguardo nel piatto, senza parlare, che aveva fretta di tornare al lavoro… Lei, invece, non lavorava più da quando si era sposata perché si era dedicata completamente a lui e alle figlie. -Il tuo lavoro ti impegna molte ore. – aveva detto il marito subito dopo il matrimonio

– Lo lascerai e ti occuperai di me, della casa, dei figli che verranno. Intanto io guadagno abbastanza. – Praticamente voleva dirle che lei era solo una commessa dell’unico negozio di abbigliamento dell’isola, non faceva qualcosa di speciale come lui e poteva rinunciare. Ora, però, che le figlie erano grandi e non le rivolgevano la parola se non era strettamente necessario, sentiva la mancanza delle chiacchiere con le clienti che provavano i vestiti. Qualche volta le aveva consigliate: -Annetta, dimmi tu come mi sta. – le chiedevano -Tu hai buon gusto. -. Ormai nessuno credeva più che avesse buon gusto, con i capelli lisci un po’ grigi legati dietro per non esserne infastidita, le gonne larghe per comodità, le scarpe basse…

La strada a curve si inerpicava su per una collina. Tutto era buio, non si scorgevano luci né case all’intorno. Giovanna non aveva idea di dove stesse andando. Avvilita e presa da un senso di soffocamento, con le lacrime che le pungevano gli occhi, si era infilata in auto, era partita e aveva imboccato una strada qualsiasi verso l’entroterra. Voleva solo fuggire. Fuggire da casa e dalla figlia che le aveva fatto troppo male con le sue parole cattive. Eppure, da quando era nata, l’aveva curata con amore. Non era stato facile all’inizio: la piccola Marisa era in ritardo nello sviluppo rispetto agli altri bambini. Lei, però, non si era persa d’ animo: la sua era una figlia voluta, desiderata, attesa, lentamente sarebbe cresciuta e si sarebbe rinforzata. Così era stato. Marisa era da tempo una giovane ragazza come qualunque altra: era brava a scuola, faceva sport, aveva alcune amiche.

Però odiava lei, sua madre, l’accusava con tono minaccioso per qualsiasi sciocchezza, la guardava come se volesse farla sparire. Perché? Non lo sapeva. Poi, c’era suo marito che dava a lei tutte le colpe di quel disaccordo e giustificava sempre la figlia. Ormai le giornate erano tutte uguali. Sembrava che lei non fosse niente, che non esistesse neppure, non avesse più sentimenti e desideri, solo incombenze da gestire. Le curve della strada erano sempre più strette, ai lati solo dirupi. Lentamente, stava scendendo anche la nebbia simile a un denso fumo bianco. Non vedeva quasi nulla e aveva tanta paura. E se fosse caduta in uno di quei precipizi ai lati della carreggiata? Così, procedeva a passo d’uomo, cercava di seguire la striscia del centro della strada, di tenersi lontano dai lati. Ma era sempre peggio. Infine, aveva dovuto fermarsi ed era scesa dall’auto per capire dove dovesse dirigersi. Forse, avrebbe potuto dormire un po’ in macchina e attendere il giorno, ma non sapeva neppure dove si trovasse né se ci fosse uno slargo in cui parcheggiare. Né sapeva se ci fossero animali in giro e di che dimensioni.

La nebbia si era diradata un poco e Giovanna aveva ritrovato la striscia bianca che divideva la strada. Il terrore di rotolare giù da una scarpata imprigionata tra le lamiere non le dava pace. Se fosse successo, forse sarebbe stata ferita e nessuno l’avrebbe soccorsa e, se fosse morta, chissà quando avrebbero ritrovato il suo cadavere! Infine, metro dopo metro, sperando di non commettere errori, era arrivata sulla cima. In fondo, all’altro lato della collina, dopo la discesa, si scorgeva come un presepe illuminato. Era un piccolo paese con le sue casette e i suoi viali ordinati. La nebbia non c’era più e la luna, con il suo faccione rotondo, illuminava il percorso così che era riuscita ad arrivare facilmente a quel gruppo di case. Nel viale principale, aveva scorto l’insegna di un alberghetto frequentato senz’altro, nella bella stagione, dai villeggianti. Là avrebbe potuto mettersi al sicuro (anche da se stessa) e trovare asilo e riposo. Così aveva pagato una cameretta singola e vi si era rifugiata. La mattina dopo ci sarebbe stata persino una colazione con i prodotti locali compresa nel prezzo. La stanza era davvero minuscola. A stento si passava tra il letto singolo e l’armadio. In alto, appeso al muro, c’era un televisore spento. Sul comodino di legno marrone chiaro, era poggiato il telecomando. A casa, era abituata ad addormentarsi con la televisione accesa. Chiudeva gli occhi e ascoltava un programma, così non pensava ai suoi problemi o a quello che avrebbe dovuto fare il giorno dopo. Si sarebbe comportata nello stesso modo pure lì per scacciare i cattivi pensieri.

Invece no, d’ora in poi Annetta avrebbe cambiato tutto. Si sarebbe vestita meglio. Per prima cosa sarebbe andata dalla parrucchiera e si sarebbe fatta fare un taglio di capelli più moderno. Poi avrebbe visitato un bel negozio fuori dell’isola e si sarebbe rifatta il guardaroba. Non si sarebbe più accontentata di quell’esistenza senza emozioni. Magari, avrebbe potuto seguire un corso di arte o di storia per adulti. Se ne trovavano tanti in internet, anche on line. Aveva sete ed era scesa in cucina. Da poche ore, finalmente, avevano sospeso le ricerche. Non c’erano più droni, elicotteri, carabinieri, volontari, cani molecolari ad aggirarsi per l’isola. Domani sarebbe uscita dal nascondiglio e avrebbe trasformato la sua vita. Non sarebbe stata più un pupazzo inespressivo nelle mani degli altri, si sarebbe ribellata, sarebbe tornata a lavorare e a curarsi di sé. Quella era l’ultima notte che avrebbe trascorso da sola. Si sentiva bene, ora che aveva deciso cosa fare. Non c’erano più bibite nella dispensa, sotto il lavandino era rimasta un’ultima bottiglia di succo di ananas. Non le piaceva molto ma l’aveva aperta e ne aveva buttato giù qualche sorso. Sì, non le piaceva proprio l’ananas, aveva un gusto davvero strano. Adesso le girava la testa e le veniva nausea. Avrebbe preso un po’ d’ aria fuori, nel giardino. Tanto, ormai, anche se l’avessero vista non aveva più importanza.

Giovanna fissava la luce e le immagini che si erano accese sullo schermo del piccolo televisore. Era Federica Sciarelli che parlava: -È stata ritrovata Annetta, la donna scomparsa da dieci giorni, nel giardino di una casa disabitata durante l’inverno. Dovranno fare l’autopsia e l’analisi della bottiglia di liquido che aveva con sé ma pare che si sia uccisa con un miscuglio di acido muriatico e cloridrico che il proprietario usava per le pulizie e le disinfezioni quando i turisti lasciavano la casa alla fine della stagione estiva. Il prodotto, estremamente tossico, si trovava, appunto, in una bottiglia di succo di ananas nascosta sotto il lavandino. – Le ore di angoscia trascorse al volante si stavano allontanando dalla sua mente. Forse, anche quella donna aveva provato quello che sentiva lei. Forse, era fuggita da casa spinta dall’indifferenza e dall’ostilità degli altri, forse, non era riuscita a gestire diversamente la sua sofferenza. Infine, però, si era suicidata o forse, chissà, aveva bevuto per errore da quella bottiglia. Nessuno l’avrebbe mai capito.

Anche lei avrebbe potuto morire su quella strada impervia e sconosciuta.

Sarebbe bastato un attimo, un piccolo errore e sarebbe precipitata con l’auto. Dio – o la fortuna, il destino, una forza sconosciuta – aveva voluto salvarla, non l’aveva lasciata morire! Lei era salva e Annetta era morta.

Non sapeva perché.

 

Renata Rusca Zargar

Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza di Letteratura e Storia nelle Scuole Superiori, abilitata in Filosofia, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.

Si definisce “donna che scrive storie di donne” perché la maggioranza dei suoi racconti, ambientati sia in occidente che in oriente, mette in evidenza la violenza contro le protagoniste e la mancanza di rispetto della pari dignità di tutti gli esseri umani.

Cura il blog:  https://www.senzafine.info/

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CHE TE NE FAI DI UN’ALTRA FEMMINA?

Per capire e sconfiggere la violenza sulle donne ma anche la quotidiana sopraffazione e gli stereotipi che tormentano le donne.

La donna è soggetta a qualsiasi capriccio del maschio e spesso è la donna stessa a perpetuare questa mentalità.
Perché si possa cambiare, deve cambiare prima di tutto la donna.
Deve educare maschi e femmine allo stesso modo, non deve più sentirsi padrona del mondo solo se ha partorito un essere con il pene.
Ognuno ha le sue particolarità.
È bello nascere maschio ed è meraviglioso nascere femmina: essere accogliente e poter dare la vita.
Come deve essere ugualmente magnifica qualsiasi identità sessuale, quando si possa liberamente vivere la propria natura.
Questi racconti trattano di donne che hanno amato molto, in Occidente o in Oriente, ma hanno incontrato il dolore della rinuncia o della crudeltà del maschio e della società.

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