In viaggio sul mio viso
Faccia larga, dai contorni un po’ allentati. Il tempo non passa mai, senza lasciare una memoria. Le rughe sulla fronte sono quelle della perplessità. Mi stupisco – non finirò mai di stupirmi – e alzo le sopracciglia verso l’alto. Come una preghiera, come a chiedere “qualcuno può spiegare?”.
Ma nessuno spiega mai. Così, quando mi disse che ero una persona meravigliosa e sperava di rimanere mio amico, pensai: ora aggiunge che sono troppo per lui e non mi merita. Fu meno banale, ma non meno tossico: da nove mesi frequentava anche Valeria e voleva stare definitivamente con lei. Spalancai gli occhi e impiegai qualche minuto a comprendere. Perché non me lo aveva detto nove mesi prima? O almeno sei? Avrei potuto decidere in quel momento se rimanere amica o meno; magari – a sprezzo della dignità – accettare persino un ménage in multiproprietà.
Non mi rispose mai, e la mia fronte rimase plissettata.
Sotto le rughe della perplessità, quelle dell’ira. Aggrotto le sopracciglia e compaiono due segni, paralleli e longitudinali. Due solchi di disappunto.
Quella è un’eredità paterna. Mio padre era capace di sfuriate memorabili; una volta, durante un litigio, spaccò un piatto con un pugno. I miei rapporti con gli oggetti sono più pacifici dei suoi, se si esclude qualche foglio stracciato nel momento stesso in cui ne terminai la lettura. La mia rabbia è lava, dal petto sale verso la gola, e dalla gola erompe in urlo. Ed è l’urlo che striscia poco più su degli occhi, corrompendone la pelle.
Intorno alla bocca, le rughe dell’ilarità. Da non credersi, ma rido anche. Non potrei mai innamorarmi di un uomo che non mi facesse ridere. Non potrei neppure accorgermi di lui. L’ironia è il valore aggiunto che fa della quotidianità uno spazio di esistenza e non di sopravvivenza. Ironizzo sui miei guai e le vedo sorridere, e so che questo non sminuisce la comprensione che nutrono per me, ma ne accresce il rispetto. No, non potrei neppure essere amica di una donna che non mi facesse ridere. Anche l’amicizia va nutrita, e una risata condivisa è la migliore caloria.
Le rughe intorno agli occhi sono quelle della miopia. Da ragazzina pensavo che gli occhiali sminuissero il mio fascino, così non li portavo e strizzavo gli occhi ogni volta che dovevo mettere a fuoco qualcosa. Bel risultato. Adesso ho gli occhiali, le zampe di gallina e il fascino un ricordo lontano. Con l’andare del tempo, però, a quegli occhiali mi ci sono affezionata: da scomodità si sono trasformati in protezione. Gli occhiali sono i bodyguard del mio sguardo, e nel rimpicciolire ogni cosa, per chi vi guardi attraverso, anche rughe, occhiaie e borse sotto gli occhi, spariscono.
Ma più di tutti c’è la cicatrice.
La cicatrice è una linea sghemba che attraversa a destra il labbro superiore, come una riga disegnata con la matita.
Ha una storia, la cicatrice. Non una storia avventurosa, ma una storia.
Avevo un anno e mezzo e stavo imparando a camminare. Per farmi coraggio tenevo un oggetto in mano: la mia barbie, un cucchiaio di legno, uno spazzolino da denti. Abbrancavo il feticcio e procedevo, fissando l’orizzonte.
Quel giorno avevo scelto una chiave. La grossa chiave della cassettiera, con una nappa di seta gialla e bordeaux che dondolava a ogni passo. La nappa davanti e io al seguito, procedevamo per il corridoio, decise entrambe a vincere la forza di gravità che attirava il mio didietro al pavimento.
Con noi c’era anche un cane. Un cane che era stato di mia nonna, poi mia nonna era morta. Si chiamava Pilù; acquistato come barboncino, crescendo si era rivelato un barbone gigante, alto come un dalmata, cocciuto come un mulo.
A Pilù non ero simpatica. Lui era abituato alle coccole delle anziane signore e ai pettegolezzi delle vicine, non alle intemperanze di una bambina. Così si teneva piuttosto alla larga: se io entravo in una stanza lui ne usciva, se mi avvicinavo borbottava con una specie di rantolo di gola, se tendevo la manina al folto ciuffo, era pronto a schivare.
Quel giorno decise di regolare tutti i conti in una sola mossa: con un balzo mi fu alle spalle, mi appoggiò le zampe sulla schiena e mi mandò lunga distesa sul pavimento.
Sventura volle che la parte sporgente della chiave fosse rivolta alla mia bocca, così mi ritrovai atterrata e sfregiata nel giro di pochi secondi.
Il sangue prese a zampillare e mia madre per poco non svenne. Poi qualcuno mi appoggiò un fazzoletto alla bocca e mi caricò in macchina. Io piangevo e sanguinavo, sanguinavo e piangevo, e al pronto soccorso ci volle del bello e del buono per farmi calmare. Alla fine tutto si risolse: io ci guadagnai un cerotto sulle labbra, Pilù una pedata nel sedere, e la chiave, con la sua nappina, finì dentro un cassetto, da cui non è più uscita.
Il segno sulle labbra fu piuttosto evidente, all’inizio. Poi piano piano sbiadì e si trasformò nella cicatrice, che si vede poco, in realtà, si nota solo quando rido.
Francesca Mairani