La guerra di Boschetto
Sei allegro, padrone: è venuta a trovarti la nonna. L’adorata Irene dimora dalla figlia, quindi è a casa sua, ma, forse per l’innata timidezza, forse perché teme di dare fastidio, cerca di fare sentire il meno possibile la sua presenza. Parla poco, domanda: <<Permesso>>, per ogni cosa. Quando le dici qualcosa di carino, si raccoglie nella sua vestaglia verde, abbozza un sorriso e abbassa lo sguardo, per non palesare troppo la sua gioia; invece, quando le urli, facendo finta di essere adirato: <<Ora ti caccio fuori>>, laconicamente risponde: <<Vabbè me ne vado>>.
La nonna mi adora. Nonostante abbia mani deboli e rovinate dall’artrite, appena mi vede, rompe una fetta biscottata, per lei dura come un mattone, e me ne porge un pezzetto. Mentre la sgranocchio, sospira: <<Ah se ci fosse nonno Carmine. Quante feste ti farebbe, Luppolo>>.
Quando parla del marito, scomparso da poco più di due anni, Irene è solita aprire la sua scatola dei ricordi, dalla quale emergono frammenti di vita di un piccolo borgo, reminiscenze della guerra, del lavoro dei campi, dei sacrifici giornalieri, di cibi imbottiti di grasso, che noi oggi consideriamo piaceri da gustare a piccole dosi ma che, allora, erano principale nutrimento; sono storie di genti, di abitudini, di realtà che non ci sono più, ma dalle quali è nato il nostro presente. Tu, padrone, le avrai sentite centinaia di volte. Ma sono certo che ti emozionano ancora e ti sempre emozioneranno. Fanne ascoltare una anche a me, dai. Chiedile di cane Boschetto. Io avrei potuto chiamarmi come lui. Forza, nonna, racconta.
“Cane Boschetto nacque nella seconda metà degli anni ’30. L’anno preciso nessuno lo ricorda in famiglia. Zio Pasquale, papà di Nonno Carmine, lo prese da un allevatore di un villaggio sito poco lontano da Monteroduni. Non lo pagò. Lo scambiò con del cibo. Non si poteva pensare, all’epoca, di abusare di moneta sonante, spese che esulassero dalle necessità non erano concesse: si soffriva la fame, si viveva di ciò che produceva la terra, ci si destava alle quattro del mattino e ci si coricava all’ultimo suono delle campane; a cena, si mangiavano affettati, carne di maiale, pane fatto in casa, patate, legumi cotti in una pignata[1]. Un trionfo di fibre, grassi e colesterolo che generava uomini possenti, con muscoli di roccia e una tempra indistruttibile. Non avrebbe potuto essere altrimenti, con un quotidiano che obbligava a trascinare aratri, lavorare di zappe e rastrelli, scavare la terra con le nude mani o con rudimentali vanghe. Con qualsiasi clima.
Boschetto apparteneva alla razza Corso. Era nero come il caffè quando si brucia, alto come un adolescente, robusto come una pietra di fiume. Le sue zampe scavavano solchi ogni volta che si poggiavano sul terreno, per quanto erano massicce. Lo sguardo fiero e la dentatura bianca come una nuvola in montagna addolcivano anche l’uomo più spavaldo e rude che incrociava i suoi occhi. La lunga coda e le orecchie mozzate aggiungevano ancora più asprezza alla sua figura. A renderlo tanto forte, contribuivano il cibo uguale a quello del resto della famiglia e il latte delle mucche, la cui prima spremitura giornaliera gli spettava. Boschetto era nato come cane da pastore: doveva proteggere il gregge. Crescendo, aveva ricevuto altre mansioni. Innanzitutto, superata la fanciullezza, era diventato il primo e unico difensore della proprietà. Non aveva bisogno di impegnarsi per svolgere al meglio il compito: aveva sensi molto sviluppati, radar fatti a orecchie che gli consentivano di captare ogni tipo di pericolo con largo anticipo, un’innata propensione alla guardia. Inoltre, gli bastava una ringhiata per far sparire anche il più pericoloso degli sciacalli. Chi mai si sarebbe sognato di infastidire una statua d’ebano di almeno 50 kg, agile come una pantera, con al collo una catena di ferro e con fauci che sgranocchiavano i tocchi di legno come patatine? Boschetto aveva anche il ruolo di supervisore degli altri animali della casa: se un umano gli comandava di andare a separare le galline, grazie a qualche spinta con la testa e a uno zampone che, quando necessario, si faceva incredibilmente delicato, riusciva a dividere gli animali posto sotto la propria egida dagli altri. Come facesse a riconoscere il suo bestiame da quello del vicino resta un mistero. Infine, in quei pochi momenti di svago che la vita degli anni trenta concedeva, il gigante diventava un amico leale, fedele ed estremamente giocherellone: adorava fare lunghe passeggiate in montagna, si divertiva a inseguire una palla fatta di stracci, non disdegnava di accompagnare i suoi padroni più giovani nelle osterie di Monteroduni, dove si consumavano le notti tra galloni di vino, giochi di carte, foglie di tabacco.
Avrai capito, Luppolo, che Boschetto era un essere raro, per bellezza e intelligenza. Non a caso, in paese era anche noto come “Capecane”[2], soprannome col quale, ancora adesso, è conosciuto mio fratello, Zio Domenico. L’appellativo lo aveva conquistato quando, durante una scampagnata con “Minicuccio”[3], era riuscito a sottomettere, in una amichevole lotta, dieci simili di dimensioni pari alle sue. Li aveva sovrastati agevolmente grazie al fisico, alla velocità, alla agilità. Niente e nessuno avrebbe potuto sconfiggerlo. Nulla gli faceva paura. Non temeva neanche i sinistri suoni della guerra, non lo scalfivano i rumori dei cingolati e delle pistole, non lo turbavano le divise della Wermacht, che avevano occupato Monteroduni dopo l’8 settembre 1943. L’esercito hitleriano aveva imposto le sue crude leggi: donne giovani e forti, come me, ogni giorno, erano obbligate a preparare il rancio e a lavare i vestiti dei soldati al fronte; gli uomini dovevano costruire, lungo le rive del fiume Volturno, linee difensive, necessarie per difendere il territorio dall’avanzata inesorabile degli Alleati. Rischiavamo perciò la pelle ogni giorno, vivevamo nel terrore. Ma eravamo costretti ad obbedire. Altrimenti, “Kaputt”. Ce lo ricordavano sempre, in ogni momento quei dannati invasori.
Gli occupanti del Reich, per nutrirsi, facevano razzia di tutto ciò che si trovasse nelle floride campagne del paese. Per le famiglie, questo era il dramma maggiore: perdere il raccolto oppure essere privati del maiale, significava non mangiare per un anno, significava non poter lavorare, significava deperire, significava mettere a rischio la salute dei figli, significava morire. Purtroppo, non avevano pietà, non guardavano in faccia a nessuno, quei maledetti: agitavano il manganello, brandivano una pistola, un cane lupo faceva vedere i denti e razziavano tutto ciò che potevano. Con le buone o con le cattive. Solo da noi non riuscirono a rubare nulla. Quando un soldato giunse in campagna, incontrò Zio Pasquale, assieme al fedele Boschetto. Il padre di nonno era un eroe di guerra, Capitano pluridecorato, medaglia d’oro perché, nel 1917, aveva salvato trenta uomini, facendoli rotolare lungo un pendio del Monte Grappa, in Veneto. Aveva una cinquantina d’anni, durante il secondo conflitto. Il suo carattere era stato forgiato da anni di fatiche nei campi e dagli orrori del primo conflitto, vissuto in primissima linea. Con accanto un’arma micidiale come Boschetto, un capo dei cani, di certo non poter temere né la morte violenta né un soldato ariano. Non esitò, quindi, a opporre un “Nein” deciso alle richieste del soldato e a spingere il maiale lungo il corso del Volturno, che ancora oggi solca la nostra campagna. Il crucco non gradì: gli si avventò contro. Male fece. Boschetto fu rapidissimo e ferocemente scaltro. Dapprima, diede un morso alla gamba dell’aggressore; in seguito, saltò addosso al cane lupo e lo mise agevolmente fuori servizio, procurandogli una ferita sul collo. Per fortuna degli invasori, non gli fu possibile infierire: messo in fuga il militare, raggiunto, seppur di striscio, da un masso che lo Zio gli lanciò all’altezza del volto, Boschetto, al solo ordine di salvare il maiale di famiglia, corse a perdifiato fino ad un punto ove il fiume era meno impetuoso e bloccò, con la forza delle fauci, la futura riserva di carne della casa.
A seguito dello scontro, la famiglia di nonno fu costretta a rifugiarsi nello scantinato di un’abitazione di fortuna, temendo la rappresaglia teutonica. C’era sempre Boschetto a vigilare su di lei. Nascosto sotto un vecchio mobile, preavvisava del passaggio dei soldati, ringhiando. Senza abbaiare. Bastava dirgli: <<Zitto>>, e lui taceva, pur rimanendo sempre in allerta.
La reclusione forzata durò per mesi, finché non tornò la pace, finché i Tedeschi non furono messi in fuga. Dalle macerie, riemerse la vita. Io mi sposai con nonno. Boschetto riprese ad essere il re delle “Paravise”, zona in cui abitavamo. Nacque anche la mamma del tuo padrone: il cane venne adibito alla guardia della carrozzina.
Boschetto ci lasciò a circa quattordici anni, quando ancora era nel pieno delle forze. Fu un colpo di zappa infertogli, chissà perché, da un uomo con problemi mentali, ad abbattere la sua corazza. “Capecane” resistette per giorni, agonizzante. La famiglia lo accudì, lo curò con tutto l’amore di cui era capace, contemporaneamente badando a tenere buoni lo Zio Domenico e Nonno Carmine, che volevano farsi giustizia per conto del loro fiero e fedele amico.
Boschetto si spense in un pomeriggio d’estate, in uno dei tanti giorni sacrificati al lavoro dei terreni, in un giorno qualunque di quella vita, che era solo lavoro. Venne sepolto nella nostra campagna.
Da quel giorno infausto, Nonno Carmine divenne il più amorevole padrone dei gatti mai vissuto a Monteroduni. Fin sul letto di morte si preoccupò della loro alimentazione, sino all’ultimo respiro pretese che ai felini venisse dato il primo piatto della giornata, che gli fosse assicurato il miglior latte. Un cane, però, non riuscì mai più ad adottarlo. Era stato troppo intenso il legame con Cane Boschetto. Nessuno avrebbe mai potuto essere come lui. Sono certo, però, che, se Nonno fosse ancora con noi, tu, Cane Luppolo, oggi non mangeresti croccantini. Mangeresti la migliore carne della città. E saresti seduto accanto a lui, accanto ad un uomo con delle mani di pietra, alto e bello come un Dio, con gli occhi celesti, i capelli rossi e ricci, che ti avrebbe accompagnato, a furia di carezze, nel sonnellino pomeridiano, che ti appresti a fare”.
Note:
[1] Piccolo contenitore di terracotta, usato per cuocere i legumi sul fuoco.
[2] Capo dei cani.
[3] Vezzeggiativo di Domenico.
La guerra di Boschetto è un racconto tratto dal libro “The Canluppoly Tales – Storie pelose” di Carmine Tedeschi.
Un libro scritto a sei zampe: un cane e il suo sedicente padrone intrecciano il loro sguardo e la loro visione del mondo. L’esistenza dei due protagonisti oscilla tra la modernità della città e posti spazzati via dal Tempo, dove tutto sembra cristallizzato nelle ripetitive abitudini di un lontano passato. Proprio qui, in quest’eterno presente, Cane L. e assistente C. si raccontano nella quotidianità di sempre. Un infinito bisogno d’affetto, la necessità di non sentirsi più soli, il desiderio di piccole gioie di cui si è perso il piacere cambiano inesorabilmente la consueta vita di entrambi. A volte non è dai grandi cambiamenti che dobbiamo aspettarci la felicità, ma dai piccoli gesti di tutti i giorni: forse è solo la maniera in cui viviamo, giorno per giorno, che può raccontare ciò che siamo. Un libro che attraversa tutte le età di un uomo, una bellissima storia d’amore tra un cane e il suo padrone finto burbero, cambierà in noi l’idea di felicità (L.A.)
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