I capelli neri le scendevano in morbidi riccioli sulle spalle magre, lucidi come se avesse ancora vent’anni. Allora, ormai cinquant’anni fa, era uscita di fretta da casa, senza salutare, come se andasse a una festa: il vestito di cotone, nero a grandi fiori colorati stampati a caso come fossero una cascata, era quello della sera prima, quello che metteva per andare a ballare, per farsi vedere bella, per farsi corteggiare. Le piaceva cogliere gli sguardi ammirati degli uomini che, eccitati dalle sue forme e dalle sue movenze, le carezzavano il corpo snello. Ed era facile, in quei momenti, fare un po’ la civetta con quelli che più le piacevano e colpivano la sua fantasia o che le accendevano dentro il corpo il desiderio di fare l’amore.
Gisèle era piccola di statura, ma si faceva notare per quel suo portamento naturalmente altero, da regina. Il capo si ergeva dritto, lo sguardo rivolto in avanti fisso negli occhi dell’interlocutore, e quei due occhi marroni con un taglio a mandorla appena accennato riflettevano per intero i sentimenti della donna, conferendole un’espressione indecifrabile, viva, in perenne evoluzione. La bocca carnosa e ben disegnata sottolineava coi movimenti delle labbra il mutare delle sue innumerevoli espressioni: a volte si schiudeva in un accenno di sorriso appena sufficiente a mostrare lo splendore dei denti, talaltra si serrava in una linea dura a sottolineare il disappunto generato da una frase o da un atteggiamento sgradevole del suo interlocutore. E allora gli occhi erano punture di spillo nella pelle di chi le aveva suscitato quel sentimento.
In genere Gisèle era allegra, eppure non si esaltava facilmente, né prorompeva in esclamazioni fuori misura o nei gridolini festosi delle sue amiche, quelli che a lei sembravano tanto sciocchi e ridicoli. Al contrario, il suo comportamento misurato e le reazioni controllate anche nella gioia contribuivano ad accrescere il suo fascino e quell’aura di sicurezza che da lei emanava, avvolgendo chi le stava attorno.
La pelle bruna del corpo pareva quasi avesse la capacità di assorbire la luce per poi rifletterla in bagliori dorati, mentre i raggi del sole giocavano a nascondino nelle ombre dei suoi riccioli bruni. Le coprivano le spalle come fossero una cascata, quei capelli, e le scendevano morbidi fino alla vita esaltando, per contrasto, la curva decisa del seno che, pur piccolo, dichiarava sfrontatamente la sua presenza con le punte erette e prominenti come se volessero forare l’abito per affermare il loro diritto di essere e di esistere nella più piena libertà di espressione. I fianchi dalla curva morbida facevano da naturale quinta ai glutei sodi e tondi che seguivano il ritmo delle gambe con movenze da ballerina. E tale era l’impressione che si aveva nel vederla avanzare con quel suo passo deciso che delineava le cosce snelle contro il sottile cotone dell’abito.
Gisèle era una donna nata per piacere, e lei ne era consapevole, eppure non accentuava nulla di sé per conquistare gli altri, a meno che non lo avesse voluto. Lei si sentiva libera di scegliere chi voleva ed era abbastanza disinibita da proporsi lei stessa.
Ma il fidanzato non lo voleva. Né ora, né mai. Per non essere schiava di un uomo, come lo erano stati i suoi nonni e i nonni dei nonni quando in quegli stessi campi che ora recingevano la sua povera casa, si coltivava il caffè e la libertà era solo un lontano ricordo della vita nei villaggi della natia Africa. Gliene avevano raccontate di storie di quei tempi, quando era ancora bambina! La nonna era colei che deteneva la conoscenza parlata della genealogia, della famiglia nella sua interezza, dalle lontane origini nel Sudan occidentale fino alle vicende attuali. Una famiglia solida, che era rimasta unita per più di due secoli nonostante il cambiare dei padroni e delle vicende politiche dell’isola, a onta dei soprusi e delle violenze subite, malgrado la povertà e la solitudine della vita quotidiana nella piantagione. Nei primi tempi di schiavitù, la cultura della loro Africa era un ricordo ancora vivo nella mente; i riti sacri li celebravano di nascosto la notte; poi, dopo che vennero scoperti e puniti con i ferri e il fuoco proprio da coloro che predicavano l’amore e la fratellanza tra gli uomini, si nascosero nella stessa religione dei loro aguzzini. I loro dei divennero i santi della Chiesa, cambiarono nome, fisionomia e atteggiamento esteriore, ma non identità e attributi. I loro riti, la loro religione, il loro credo profondo, il motivo stesso della loro sopravvivenza, rimasero un patrimonio indelebile e, nel tempo, si trasformarono fino a divenire misteri per quegli stessi uomini che avrebbero voluto osteggiarli e distruggerli. Quello era stato un momento di vera unione e di profonda fratellanza tra loro: non più schiavi ma uomini, non più guerrieri impegnati in feroci lotte tribali ma fratelli, tutti uniti per non morire.
Scelsero i sacerdoti e le sacerdotesse in rappresentanza dei loro dei in terra; a loro chiedevano consiglio, nella loro conoscenza riposero l’onere di tramandare la cultura dei loro popoli, alla loro saggezza affidavano le scelte di vita.
La sera prima di partire, Gisèle era andata dalla sua madrina per un consulto, giacché sentiva una forte agitazione dentro l’animo, una sorta di tremito che le partiva dal cuore e le offuscava la mente. Ma non era per un amore infelice, quello, anzi, le dava gioia.
Era un malessere che la investiva come la pioggia degli uragani di agosto lasciandola tremante e fragile, come se fosse nuda. Non capiva cosa potessero essere quelle sensazioni, e quando ci pensava non riusciva a dentro comprenderne la ragione tanti erano i pensieri che le si affastellavano nella testa.
«Non avere paura», le disse la madrina, «le caracolas non mentono: devi partire al più presto, domani stesso, per non perderti dietro un uomo antico che ti sarà padrone senza darti nulla. La tua vita è altrove, tra luci e applausi, tra gente felice che ti farà sentire felice, anche se dentro di te, nel tuo essere più profondo, non lo sarai mai. Parti e prendi la tua vita tra le tue stesse mani, perché solo se sarai libera potrai amare ed esistere. Non esitare».
Sul momento quelle parole la atterrirono, ma immediatamente dopo averle percepite come vere, una grande serenità si diffuse nel suo animo e allora decise. Il mattino dopo sarebbe partita. Forse per sempre. Forse per non tornare più.
A passi affrettati si era diretta al porto. Non aveva abbastanza denaro per un biglietto aereo e poi non aveva neanche i documenti necessari per l’espatrio. La sua unica speranza era che il marinaio con il quale aveva passato le ultime sere a ballare e fare l’amore fosse ancora in porto e, soprattutto, che accettasse di nasconderla a bordo della nave su cui era imbarcato. Era un’autentica pazzia la sua, lo sapeva, ma non aveva alternative: così o mai più. Con l’ansia che le cresceva dentro, si avvicinava alla banchina e ogni metro di cammino era sempre più lungo e faticoso. Mille dubbi le si affastellavano nella testa e le proiettavano immagini che le oscuravano la vista.
L’indecisione, la paura dell’ignoto la spingevano a tornare indietro, a cancellare per sempre quel sogno folle. Ma la madrina aveva detto il vero. Doveva andare via da lì.
Doveva trovare il coraggio di vivere la sua vita.
Avanzava automaticamente lungo il molo senza vedere dove mettesse i piedi, senza la minima coscienza di quel che facesse, quasi avesse la visione di un miraggio davanti agli occhi. Un fischio acuto la riscosse dalla catatonia nella quale era piombata: il suo amico la chiamava dalla murata della nave. Le faceva dei gesti che lei volle interpretare fossero di gioia.
«Da quanto sono qui?», si chiese. «Sembra un anno intero, ma forse mi sono fermata solo un momento».
«Vieni alla passerella», le gridava l’uomo, «sali ora che la strada è libera, poi potrebbe essere troppo tardi».
«Forse gli ho parlato in sogno», pensò tra sé Gisèle. «Come fa a sapere? Com’è possibile che legga così bene nel mio cuore?».
A passi lenti, pesanti, staccando quasi a fatica i piedi dal suolo, Gisèle si avvicinò alla scaletta e dopo un ultimo attimo di esitazione, dopo essersi guardata per l’ultima volta alle spalle, alzò il viso e iniziò a salire verso il suo destino. Gli occhi velati di pianto non versato, il petto ansante per il timore, la donna avanzava con coraggio e trepidazione, tenendosi forte al corrimano per non mostrare la paura che le attanagliava l’animo.
«Vieni, coraggio, amore mio», le soffiò nel cuore il suo uomo. E allora lei volò, superando di slancio quei pochi ultimi gradini e cadde tra le sue braccia, finalmente felice.
Era stato un viaggio lungo, quello. Lungo quanto le isole dei Caraibi. Ogni porto, una settimana di sosta, a volte di più secondo il mutare del tempo e del carico da sbarcare o da stivare. Ma per Gisèle quella rappresentava, ormai, la routine quotidiana da quando faceva ufficialmente parte dell’equipaggio.
Dapprima sconcertato e pronto a gettarla direttamente in mare, dopo pochi giorni di corvée in cucina, il comandante l’aveva arruolata come aiuto cuoco, con l’obbligo preciso di cucinargli ogni giorno il suo piatto preferito, i gamberi alla creola. E lei lo aveva fatto, perché era una brava cuoca e perché, in fondo, dietro quei suoi modi burberi e secchi, il vecchio capitano era una gran pasta d’uomo. Gli aveva, anzi, variato la dieta, poco a poco, senza che lui quasi se ne rendesse conto. Però una sera dopo cena le aveva fatto un gran sorriso e con aria sorniona le aveva chiesto se il giorno dopo gli avrebbe cucinato di nuovo i gamberi.
«Ma si, li cucinerò i gamberi», rispose ridendo a gola piena, «ma a modo mio, come li facevo nella vecchia casa di Haïti».
Da allora fu lei a detenere il potere in cucina, con il beneplacito del cuoco che, in verità, era ormai stufo di quella vita. La vita di Gisèle, invece, era finalmente felice e piena: il suo uomo l’amava davvero e il resto dell’equipaggio anche, per di più con il rispetto dovuto alla moglie di un compagno e collega.
Andava tutto per il meglio e anche il tempo si era mantenuto stabile, nonostante si avvicinasse la stagione degli uragani. Finché, appena prima di iniziare il viaggio di ritorno che li avrebbe portati a Saint-Nazaire e poi a Nantes, il suo uomo aveva pensato bene di cadere dalla passerella resa scivolosa dalla guazza notturna e di precipitare nel solco di mare tra la carena e la banchina. Aveva preso un brutto colpo al torace e sarebbe affogato nella melma del porto se non lo avessero tirato fuori prima. Ma aveva bevuto e l’acqua gli era entrata nei polmoni e così l’infezione se l’era portato via dopo tre giorni e tre notti di febbre e di delirio, nonostante lei lo avesse assistito senza mai lasciarlo, pregando i suoi lwa e chiedendo al Dio creatore di farlo guarire. Non c’era stato nulla da fare: la morte se l’era preso, portandolo via da lei che ormai non aveva altri occhi, né respiro, né futuro che non fossero i suoi. Era sola, ormai, ma a differenza di prima, la paura non la assalì togliendole la lucidità e la voglia di continuare a vivere.
Per quanto fosse stato breve quell’incontro, la condivisione di spazi, desideri e sogni con quello che considerava il suo uomo le avevano dato sicurezza. Aveva capito quale potesse essere il suo ruolo in una vita che all’inizio le era sembrata, per molti versi, estranea. Ora sapeva di poter riuscire a vivere anche un rapporto di convivenza, purché fosse basato sull’amore e sul rispetto reciproco.
Era andata al funerale insieme a tutto l’equipaggio. Il comandante aveva indossato una sorta di divisa, che odorava ancora di antitarme, ma che gli conferiva un aspetto marziale e autoritario. Proprio quello che lui voleva avere agli occhi dell’equipaggio, che pure lo conosceva bene e sapeva quanto fosse benevolo e accomodante di carattere, ma soprattutto nei confronti delle autorità del porto, che dopo quel deprecabile incidente avevano espresso dei dubbi, neanche tanto larvati, sulla sua capacità di comandare una nave facendola tenere in ordine dai suoi uomini. Perché altrimenti quel caso doloroso non si sarebbe verificato. Pregiudizi, lo sapeva, ma quelle voci lo avevano infastidito, come pure l’insistente chiacchiericcio che la sua nave fosse, in realtà, un bordello, vista la presenza a bordo di quella giovane donna bruna e avvenente che non si era mai discosta dal capezzale del morto, ma che in tutti quei giorni non aveva versato una lacrima di dolore. No. Certamente non avrebbe permesso che l’onore suo e della nave venissero insozzati da tutti quei pettegolezzi! Avrebbe pensato lui a mettere a tacere quelle voci. Intanto, aveva iniziato con l’applicare una rigida disciplina alla condotta dell’equipaggio: niente più canti e schiamazzi sul ponte, ma un comportamento sobrio e rispettoso del lutto che li aveva investiti. Avrebbero curato il modo di vestire e sarebbero scesi in franchigia solo al momento del funerale, ma senza andar per bettole.
A Gisèle, poi, aveva regalato una mantilla nera che le coprisse le spalle tornite e il seno che si indovinava sotto le vesti. E lui si era messo in tiro indossando la sua giacca bianca di gala e il berretto da comandante con i gradi di quando era nella Armada. Al fischio del nostromo erano scesi sul molo e in una fila ordinata si erano avviati alla vicina chiesa. Per una forma di rispetto, ma anche per far vedere a tutti la considerazione in cui la teneva, aveva offerto il braccio a Gisèle e lei, dopo un breve attimo di indecisione, ci si era appoggiata, sempre più di peso mano a mano che si avvicinava il momento dell’addio. Aveva pianto, allora. Un pianto silenzioso che pareva essere più un saluto sussurrato all’uomo che così tanto l’aveva amata, che l’espressione di dolore per una perdita incolmabile. Grazie alla conoscenza dell’animo umano che aveva affinato in tutti quegli anni di navigazione con uomini sempre diversi, il vecchio capitano aveva percepito la forza d’animo della donna e apprezzato la sua gentilezza. In quei pochi momenti di commozione e di intimità, il vecchio e rude uomo di mare si era reso conto di quanto la giovane fosse ormai entrata a fare parte della sua vita, di quanto la sua risata birichina fosse un dono che si aspettava al momento del pranzo, quando dopo averlo servito gli chiedeva con occhi brillanti di gioia se quella ricetta fosse stata di suo gradimento. Erano stati una bella coppia quei due, anche se gliela avevano fatta grossa facendola salire a bordo da clandestina. Lui conosceva quel ragazzo fin da quando era ancora un moccioso e sua madre glielo aveva affidato per farlo diventare uomo, diceva, mentre in realtà era il solo modo che avesse per garantirgli di sfamarsi. Il giovane era cresciuto con lui, nella sua nave, eseguendo i suoi ordini senza mai avere un attimo di esitazione, come se li avesse ricevuti dal suo stesso padre. E come tale lo rispettava, mentre lui lo vedeva come un figlio. Aveva temuto che quel suo invaghirsi di Gisèle fosse stata la reazione alle moine della donna, aveva pensato che lei lo avesse circuito per fuggire, ma nel vedere come era equilibrato e rispettoso il loro rapporto aveva compreso che quella era una nobile, quanto semplice e diretta, forma di amore, scevra da tutte quelle sovrastrutture che lo avrebbero potuto rendere complesso o difficile da vivere. A modo loro si erano amati quei due giovani e lui aveva iniziato, senza neanche accorgersene, se ne rendeva conto ora, a trasferire alla donna parte dell’affetto che provava per il marinaio. E si accorgeva adesso, sentendola piangere sommessamente e con dignità appoggiata al suo braccio, di quanto quell’amore fosse divenuto grande. Aveva perduto un giovane che amava come un figlio e aveva ricevuto il dono di una figlia. Al rientro sulla nave volle che pranzassero insieme quel poco che aveva preparato il vecchio cuoco e le aveva parlato; le aveva confessato il sentimento che aveva compreso di provare per lei e cosa significasse per lui, ora che quel giovane se ne era andato. Volle che nulla cambiasse nei loro rapporti, ma si impegnò a far sì che lei potesse avere una vita diversa da quella che avrebbe potuto condurre su una nave, una vita con sicurezze maggiori e, soprattutto, rispettabile, più di quanto la convivenza con dei marinai le avrebbe offerto.
La traversata di ritorno si svolse senza intoppi su un oceano che emetteva i suoi profondi respiri tra onde alte e regolari, senza mai dare segni di essere innervosito dalla presenza di quella nave che ne solcava le acque. Per Gisèle, quelli furono, giorni di riflessione e di crescita. Comprese il significato vero del rapporto che l’aveva unita al giovane, comprese che quella forma di amore aveva potuto accettarla solo perché era paritaria, perché in quel rapporto non c’era prevaricazione ma accettazione e rispetto dell’altro, giacché ambedue sentivano di essere liberi e di stare scegliendo ogni momento di amare l’altro. Capì, allora, cosa lei volesse nei rapporti d’amore, ma soprattutto cosa non avrebbe mai accettato di subire in un qualsiasi rapporto, che fosse di amicizia o d’amore. Capì il proprio bisogno di libertà e si accettò per come era.
Mentre si avvicinavano alla città, risalendo lentamente l’estuario della Loira, un freddo intenso le si insinuava dentro. Gisèle si avvolse stretta nello scialle chiudendo le mani sul seno, quasi a difendersi da quella nebbia leggera che le inumidiva le ciglia e le faceva rimpiangere il sole luminoso della sua Haïti, caldo anche nel periodo delle piogge quando l’acqua si riversava copiosa dalle nubi addensate sul mare in neri groppi per poi ruscellare a fiotti lungo le strade delle colline, tra le povere catapecchie di lamiere e di fango che ormai ospitavano più della metà degli abitanti di quella così controversa città. La sua Port-au-Prince, capitale di governo e di corruzione, centro di commerci e di scambi, luogo di ricchezze incalcolabili e d’indicibile povertà. Un posto ove la stessa esistenza poteva costare fatica quasi fosse un lavoro. La pioggia faceva bene alle favelas sulle pendici delle colline affacciate sulla piana del vecchio porto; quell’acqua abbondante e improvvisa, violenta quasi fosse un uragano, riempiva le cisterne ormai secche per il troppo sole, ridava vita alle piante di mango e agli orti impiantati nel suolo reso arido dal caldo dell’aria, lavava cortili e vicoli mentre i bambini si tuffavano nelle pozzanghere, liberi ormai di giocare pure col fango, giacché poi la pioggia li avrebbe lavati. Fragili muri di fango si sgretolavano fino a sciogliersi in rivoli giallastri che poi scorrevano a valle trascinando con sé le foglie secche e i rifiuti degli uomini, pulendo ogni anfratto di quei miseri agglomerati di costruzioni improvvisate fino a intasare l’alveo dei canali che scaricavano direttamente in mare brandelli di vita e di natura. D’improvviso la pioggia cessava e il sole ricompariva tra gli squarci delle nuvole diradate dal vento di mare, l’aria si faceva di nuovo calda e la forte umidità bagnava la pelle e imperlava i capelli di minute invisibili goccioline. Qui, però, non c’era il caldo del sole a dare conforto al corpo stanco della lunga traversata, né il bruno sordo e uniforme del fiume poteva essere paragonato al blu del mare caraibico: le ciminiere degli stabilimenti svettavano alte e affusolate tra le gru dei moli, confondendosi con il grigiore del cielo, scomparendo tra nuvole tanto basse da confondersi con l’indefinito profilo delle rive nella nebbia del mattino. Il freddo dell’aria si faceva sentire sulla pelle ma Gisèle avvertiva un freddo dentro che sapeva di insicurezza, di paura, di attesa. E nessuno scialle avvolto alle spalle avrebbe mai potuto attutirlo.
Attraccarono al molo, infine. Augustín, il capitano, la chiamò allora nella sua cabina e col suo fare brusco, ma al contempo gentile, le comunicò che presto, non appena sbrigate le pratiche portuali, l’avrebbe accompagnata a Parigi, nella casa di suoi conoscenti ove avrebbe potuto, se le fosse piaciuto, restare a servizio.
«È gente benestante, ma semplice. Vedrai che ti piaceranno», le andava dicendo con tono rassicurante.
«Andrò ovunque lei decida, capitano», rispose con voce flebile ma decisa. «È già tanto che sia potuta fuggire dalla mia isola infelice e che abbia potuto vivere questa parte di vita sulla sua nave. È stato buono ad accogliermi, e ancor più ad accettarmi come se fossi una figlia. Le sarò sempre grata di questo».
I giorni passavano senza che nulla accadesse. Le pratiche per lo sdoganamento si facevano sempre più lunghe e lei capiva che il vecchio metteva scuse per non farla partire. Allora prese la sua decisione e lo affrontò, con la sicurezza che il ricordo delle parole della madrina le dava ogniqualvolta ripensava a quel lontano consulto.
«È ora che io vada, capitano», gli disse sorridendogli serena. «Mi accompagni dai suoi amici o mi dica come fare, andrò da sola se serve, ma non posso più rimanere qui.
Non è il mio avvenire».
Il mattino successivo presero il treno. Il comandante sentiva la tristezza pervadergli l’animo per quella che, ne era consapevole, sarebbe stata una separazione definitiva; era felice per la giovane, però, e si augurava che quel suo lontano compagno di accademia conservasse ancora intatto il ricordo della loro amicizia, tanto da fargli il grande favore di accogliere Gisèle nella sua famiglia.
Il palazzo affacciava su una via larga ombreggiata da alberi alti e fronzuti. Erano ippocastani, ma Gisèle non lo poteva sapere giacché quelli non erano alberi della sua isola, non avevano nulla a che vedere con il verde che ricopriva i monti attorno alla città nella quale era nata e vissuta fino al momento della sua fuga. Il verde intenso delle foglie sfrangiate ai bordi era lo stesso dell’albero di mango, e la prossima primavera avrebbe visto che le infiorescenze erano simili di forma, ma non di colore né per i frutti che avrebbero prodotto. Avrebbe avuto desiderio di quella polpa gialla e dolce che si scioglieva sulla lingua quando addentavi il frutto maturo appena colto; ma anche questa sarebbe stata un’esperienza a venire. Ora esistevano solamente quel portone, il portiere dai baffi bianchi che con estrema gentilezza li aveva accompagnati alla porta dei signori Gonzàles e quello spicchio di luce che si era acceso sopra la porta allo squillare del campanello.
La porta aperta rivelava la sagoma di un uomo leggermente sovrappeso, i capelli appena brizzolati nonostante gli anni, il portamento eretto, lo sguardo incuriosito.
«Augustín!», esclamò sorpreso l’uomo nel vedere il suo vecchio compagno di gioventù, mentre un largo sorriso gli illuminava il viso.
«Fernando!», rispose con voce rotta il capitano. «Dopo tanti anni ancora mi riconosci!», soggiunse allargando le braccia e stringendo a sé l’amico. Ma subito si riscosse e voltatosi prese la ragazza per un polso e con delicatezza la spinse innanzi, alla luce perché il suo amico la vedesse bene. «Questa è Gisèle, la mia figlioccia», disse a mo’ di presentazione, «Viene da Haïti e ha viaggiato con me, sulla mia nave, per quasi un anno badando così bene al vecchio Augustín che mi ha fatto ingrassare a forza di gamberi alla creola e ricche salse», concluse ridendo felice.
Fernando si fece da parte per farli entrare e con naturalezza abbracciò la giovane dicendole che se era la figlioccia del suo compare, da quel momento sarebbe stata anche la sua; che entrassero in casa, finalmente.
«Annie, Annie», gridò allora chiamando la moglie, «vieni a vedere che bella sorpresa ci ha portato l’autunno», continuava mentre con affetto e gentilezza li spingeva verso la sala.
In quello stesso momento, da una piccola poltrona posta accanto alla finestra, in uno spazio ristretto rischiarato da una lampada a stelo, si alzava una donna minuta, magra, ma dall’espressione energica. Annie era bionda e i suoi capelli conservavano ancora la lucentezza della giovinezza illuminando l’ovale del volto esile. Gli occhi di un azzurro accecante si fissarono sui due nuovi entrati, riconobbero dopo un breve attimo di incertezza i lineamenti marcati di Augustín (non era cambiato molto in tutti quegli anni, pensava tra sé) e infine si fermarono su Gisèle, stupiti, forse, di tanta bellezza e semplicità.
«Che bella ragazza è tua figlia Augustín?», chiese sorridendo, «Da quando siete a Parigi? Ma sedete, e tu raccontami tutto di questi anni che non ti sei più fatto né vedere né sentire», concluse precedendoli verso il piccolo salottino.
Era felice di quell’accoglienza, il vecchio, mentre sedeva nella grande poltrona che ricordava dalle sue ultime visite. E come se il tempo non fosse passato, cominciò a raccontare dei suoi viaggi, della moglie mai sposata, dei figli mai avuti e di come, d’improvviso, la solitudine della sua vita di marinaio si fosse annullata trasformandosi nella serenità del risveglio mattutino da quando Gisèle era comparsa sulla sua nave.
Raccontò della paura di essere inghiottito dalle onde durante le burrasche nel Mar dei Caraibi, del silenzio dei ghiacci australi, delle bonacce in balia dell’oceano al largo delle Isole di Pasqua quando il solo movimento del mare erano i salti dei delfini, sorrise al ricordo delle traversate affianco delle balene azzurre e delle megattere nel freddo del Capo Horn, si accigliò pensando alle stragi indiscriminate compiute dai balenieri giapponesi; raccontò, come se leggesse nel libro dei suoi ricordi, fino al giorno in cui quella testa ricciuta era comparsa all’improvviso dal boccaporto di prua per chiedergli, con un’espressione timida e impertinente allo stesso tempo, di potere rimanere a bordo, perché lì, aveva detto, c’era il suo uomo. E cosa avrebbe potuto mai rispondere lui, che sarebbe vissuto d’amore se non avesse amato più di ogni altra cosa al mondo la libertà che solo la vita di mare riusciva a fargli assaporare. Rise, infine, e carezzò con dolcezza il capo della ragazza dicendo, con espressione improvvisamente seria: «L’affido a voi, ora, perché la vita del marinaio non è quella che si addice a una ragazza con le sue qualità. So che per voi sarà come una figlia e so anche che lei saprà farsi amare da voi, così come è riuscita a farsi amare da me», concluse rivolto alla fanciulla. Non attese risposta, Augustín, e con fare improvvisamente burbero si alzò e rivolto già verso la porta disse: «Addio Gisèle, sii felice», quindi ringraziò Annie e con un braccio sulle spalle di Fernando uscì dalla sala con il suo passo dondolante, i piedi ben fermi a terra, come se fosse già sulla tolda della sua nave.
Non lo aveva più rivisto il vecchio. Un giorno, qualche anno dopo il suo arrivo a Parigi, Fernando le aveva detto che la nave di Augustín aveva fatto naufragio, proprio durante una di quelle burrasche tropicali che tanta paura gli facevano. L’equipaggio si era salvato tutto, pur se sballottato per giorni dalla furia del mare, ma lui non aveva voluto salire sulla scialuppa ed era rimasto fino all’ultimo sul ponte di comando abbrancato al timone nel folle tentativo di salvare la sua nave. E così se lo era preso il mare, travolgendo barca e capitano con un’onda alta quanto un palazzo; dopo, sulla superficie rotta dalle bianche creste delle onde non era rimasto altro che due scialuppe e un grappolo di uomini avviliti e attoniti.
***
Da allora, la vita di Gisèle era stata regolata dai tempi della prima colazione, della spesa con Annie, dei servizi di casa e della preparazione del pranzo e della cena. Aveva la sua camera, piccola ma, certo, più confortevole dell’alloggio sulla nave e della baracca di fango che era la sua casa di Haïti. A quella, anzi, cercava di non pensare, perché, nonostante avesse voluto fuggire da quella realtà, a giorni provava un’acuta nostalgia di quei luoghi e della gente, delle sere di balli e degli amori effimeri e intensi consumati nel buio fitto dei giardini. Non che non fosse libera di uscire o di avere amici; aveva il suo giorno di libertà e, già dopo poco tempo, aveva stretta amicizia con delle ragazze del quartiere. Insieme andavano al cinema e anche a ballare, uscivano con i ragazzi e avevano i loro amori, ma lei, Gisèle, non riusciva a farsi coinvolgere da quel mondo. Le persone, i locali, la gente per la strada, tutto le pareva freddo e distaccato, né il tono allegro con cui le si rivolgevano i negozianti e i vicini scacciava l’impressione di isolamento che provava. Eppure era serena, in qualche modo felice, ma sentiva un’ansia dentro come se le mancasse qualcosa, come se fosse in attesa di un evento che la scuotesse e rompesse quel bozzolo che, pian piano, le si era costruito attorno. Gli anni erano trascorsi senza i lustrini e le luci sfolgoranti che le aveva predetto la madrina, ma lei non se ne adombrava, né aveva rimpianti, e ora, distesa nel suo letto, rivedeva la sua vita come una bella fiaba, forse la più bella che avesse potuto mai vivere.
L’intero palazzo era silenzioso, quel mattino. Sembrava quasi che all’esterno il mondo non esistesse. Rimase stesa in quel suo nuovo letto assaporando con piacere il contatto col cotone delle lenzuola fresche di bucato. Era un lusso che non si era mai concessa. Prima, anni prima, nella casa dei suoi genitori non sarebbe stato possibile. Ma ora, qui, in questa nuova casa, era serena e poteva concedersi questi pochi minuti di piacere e di nostalgia. Allo scadere dei settant’anni, infatti, era andata in pensione. In realtà, anche se continuava ad essere ancora indipendente e attiva, non poteva più rimanere nella casa dei suoi padroni. I padroni, li aveva chiamati. Che strana cosa che lo avesse fatto proprio lei! Lei, discendente di quegli stessi schiavi che si erano ribellati alla dominazione francese conquistando la libertà e una patria, lei che era fuggita dai suoi genitori per non essere schiava di un uomo che non avrebbe mai potuto amare, proprio lei era finita a fare la serva di una famiglia francese, in una città francese, nel cuore dello stesso paese, la Francia, che aveva oppresso e sfruttato il suo per secoli.
Eppure non era stata male con loro, né era stata mai trattata duramente o con disprezzo.
Anche se, a volte … No, meglio non rimuginare sul passato; era ancora troppo doloroso.
La radio trasmetteva il notiziario e la voce del commentatore si confondeva con i suoni riverberati dai suoi ricordi, aiutandola a confondere realtà e sogno.
D’improvviso un nome, una notizia la riportano alla realtà: «Un terremoto devastante ha colpito l’isola di Haïti, la capitale Port-au-Prince è distrutta, la popolazione fugge nelle campagne mentre le scosse si susseguono».
Di colpo Gisèle è fuori dal letto. Afferra un vestito e lo indossa senza neanche sciacquarsi il viso, afferra una borsa di quelle a righe dell’Ikea, capiente e resistente, e inizia a riempirla con ogni cosa pensa possa essere utile in un frangente simile. Esce ansante nel corridoio, incontra la padrona, si guardano, lei capisce e le porge una busta con dei soldi. «Per il biglietto dell’aereo», le dice. Piange mentre l’accompagna in auto all’aeroporto di Orly al terminal dell’Air Caraïbe. La saluta al controllo passaporti, l’abbraccia stretta, sa che non la vedrà più.
Gisèle è frastornata. Siede tra la gente senza vederla stringendo alle gambe magre quella sua borsa piena di tutti i tesori che poteva trovare e portare con sé. Non se ne vuole separare, ha paura di perderla o che gliela portino via; con quella borsa perderebbe anche la sua vita passata e la speranza della nuova che va ad affrontare.
Chiamano il volo. Si avvia all’uscita con in mano il passaporto e la carta d’imbarco.
L’addetta le sorride e le augura un buon volo, ma lei non sente. Non può sentire le voci delle persone attorno se nella testa le rimbomba il suono delle case crollate e delle grida dei moribondi, dei feriti, dei bambini rimasti soli sotto le macerie. Cosa ne sarà stato dei suoi nipoti, dei fratelli più giovani, delle loro famiglie; quanti di loro troverà ancora al suo arrivo. Domande che non avranno risposta se non dopo il suo arrivo. Barcolla per il peso di quella grande borsa che la sbilancia e la costringe a camminare piegata da un lato. Una giovane vuole aiutarla, lei scuote la testa e prosegue. Il volo è lungo, ma Gisèle non dorme né mangia nulla di quello che le danno. Sembra assopita, e invece guarda nella notte fuori dal finestrino come se volesse accelerare la corsa dell’aereo.
Eccola, infine, la sua isola: la spiaggia bianca affianco all’imboccatura del porto, la pista di atterraggio che si allunga tra le case delle borgate periferiche. Ma dove c’erano le case ora è una distesa marrone di fango sbriciolato, dall’alto i campi sono coperti da file di tende blu divise da stretti sentieri nei quali si muovono piccole figure frenetiche. È questo dunque il terremoto?
All’uscita dell’aeroporto, ridotto ormai a un semplice capannone, riesce a prendere posto in un bus che va in centro. È seduta accanto al finestrino, in coda. Vorrebbe chiudere gli occhi per non vedere la distesa di case rase al suolo, ripiegate su se stesse come sandwiches con i piani a fare da pane e le macerie e i morti come condimento.
Non c’è più polvere, né vita in quegli spazi a eccezione dei pochi che scavano tra i calcinacci per tentare di estrarre un pezzo di mobile o il corpo di un figlio. Non ci sono più lacrime per quella gente. Non hanno il tempo di piangere, neanche più quello di vivere. I giardini che riempivano di verde il quartiere attorno al porto sono agglomerati di tende blu, verdi, gialle, alcune bianche, a seconda di chi le ha inviate, e per saperlo basta leggere le scritte stampigliate sui teli, come se quella catastrofe fosse ancora occasione di farsi pubblicità. In mezzo, la gente sta seduta in attesa di cibo, di acqua, di speranza. Si riparano dal sole con teli stesi tra i filari di tende, come nei mercati; se piove il terreno si allaga e diventa fango, buono solo per i giochi dei bambini. Lungo il bordo esterno di questi nuovi quartieri alcuni più ingegnosi, o forse solo più fortunati, hanno allestito piccoli negozi di generi necessari: alcuni vendono pantaloni, altri vestiti, altri ancora frutta o scarpe. Tutto è riciclato, di seconda mano. La frutta viene direttamente dalla campagna, come la verdura, ed è sufficiente riuscire a vendere due o tre cipolle per avere il necessario per sfamare la famiglia.
Gisèle scende alla piazza del Municipio. Lì vicino viveva la famiglia della sorella maggiore, ma la casa non c’è più. È smarrita, la donna, e si guarda attorno nella speranza di incontrare uno sguardo amico, un volto conosciuto. Di lei certo non si ricordano dopo tutti questi anni; le nipoti non l’hanno mai conosciuta di persona, ma lei aveva inviato delle fotografie e ne aveva ricevute da loro negli anni passati. Sotto un tendone ci sono dei ragazzi che ballano; chiacchierano tra loro, amoreggiano con le ragazze, fumano come se fossero al bar.
Una voce la chiama: «Zia Gisèle cosa fai laggiù nella strada, siamo qui, vieni. È bello vederti».
Una delle nipoti, non ne ricorda più neanche il nome in questa confusione, le si avvicina, l’abbraccia, la conduce a una delle tende accanto al bordo del campo, la fa sedere, le mette in mano un bicchiere d’acqua e le dice di aspettare. È sola. Nessun altro si è salvato. Lei vive lì, ormai, ma cerca di lavorare quando e come può perché ha bisogno di tutto. Forse le possono servire le cose che ha portato da Parigi, chiede Gisèle e apre la borsa affondando le mani tra gli oggetti che ha portato.
«Non aver fretta», le dice di rimando la nipote, «Aspetta ancora un attimo, c’è una festa».
La vede allontanarsi di corsa e poco dopo eccola di nuovo che attraversa la strada ridendo portando felice una piccola griglia con sopra due ali di pollo arrostite e pochi pomodori.
«Bentornata, zia, ti aspettavo», dice offrendole il cibo.
Piange, allora, Gisèle, finalmente liberata da quel bozzolo che per anni l’aveva chiusa al mondo. Prende in mano la sua porzione di pollo, l’addenta, ne coglie il sapore conosciuto e parte dei suoi ricordi. Ride, scuote la testa agitando quei suoi capelli bruni che non vogliono invecchiare, stringe la mano della giovane e guardandola negli occhi le dice con dolcezza e determinazione: «Ora, figlia mia, ricominciamo a vivere».
Costantino Meucci