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I simboli dei partiti: la parola all’esperto

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, dottore di ricerca in Teoria dello Stato (e tra poco dottore di ricerca anche in Scienze politiche – Studi di genere), attualmente assegnista di ricerca in Diritto dei partiti italiano e comparato all’Università degli Studi Roma Tre.
Giornalista e caporedattore di termometropolitico.it.
Si occupa soprattutto di diritto elettorale e dei simboli dei partiti, cui ha dedicato il sito www.isimbolidelladiscordia.it. Ha scritto, oltre a vari articoli di dottrina, i libri I simboli della discordia (Giuffrè, 2012) e Per un pugno di simboli (Aracne, 2014).
Ha anche la passione della musica e della televisione: con Alberto Bertoli, figlio di Pierangelo, ha scritto Come un uomo (Infinito edizioni, 2015).

Da dove nasce il suo interesse per i simboli in generale e in particolare per i simboli elettorali?
“Nasce come una passione fin da quando ero “solo” un bambino curioso. A metà degli anni ’80 in casa giravano “santini” e fac simile delle schede elettorali, in giro c’erano i manifesti dei candidati, ma soprattutto in televisione, nelle tribune elettorali e nelle maratone tv a seggi chiusi, spuntavano un sacco di simboli colorati (mentre sulle schede vere hanno abbandonato il bianco e nero solo nel 1992) e avevano catturato la mia attenzione. Mi piaceva giocare con qualcosa che sentivo appartenere ai “grandi”, per sentirmi un po’ più grande anche io, ma la curiosità per quei cerchietti sempre più colorati è cresciuta con me, fino a diventare interesse di studio dopo la mia laurea in Giurisprudenza. Ne ho fatto un tema di ricerca, cercando, raccogliendo e catalogando migliaia di emblemi, ma senza smettere di divertirmi”.

Un simbolo rappresenta (o almeno dovrebbe avere quest’aspirazione) un’ideologia nella maniera più immediata e calzante possibile. Che tipo di studio si cela dietro a questa scelta? Come viene portato avanti?
“Dovrei dire che in passato un simbolo rappresentava, più che un’ideologia, un complesso di valori e idee. Per decenni milioni di persone si sono identificate nella coppia di falce e martello (nella sua versione comunista o socialista), nello scudo crociato, nel garofano, nella fiamma tricolore, nell’edera, nel sole nascente, nella bandiera italiana o in altri segni grafici. Dietro alla scelta di un simbolo, per quell’epoca, più che uno studio vedrei il tentativo di riassumere l’intero bagaglio ideale dietro un’immagine, in modo tale che tanti potessero riconoscersi in questa. Oggi che le ideologie e molte idee sono tramontate, lo studio alla base dei simboli si è quasi annullato: ora è più facile cercare di ottenere un risultato grafico d’impatto o gradevole (non di rado senza riuscirci), giusto chi si richiama a vecchie tradizioni politiche mostra con orgoglio simboli e segni che hanno una storia, anche se magari in pochi la conoscono”.

C’è un filo rosso che accomuna i simboli scelti dai partiti?
“Oggi, francamente, a voler vedere un filo, questo sembra sempre più sottile. A livello internazionale certe scelte simboliche si sono ripetute in modo piuttosto regolare, specie per determinate aree politiche: è il caso di emblemi come la falce e il martello, la rosa, il garofano; in altri, casi, invece, il filo non si vede proprio. Un tempo, del resto, il disegno dei simboli era affidato a grafici interni, agli uffici propaganda dei vari partiti ed era frutto di un lavoro concettuale e soprattutto militante. Negli ultimi anni si sono coinvolti sempre di più soggetti esterni, come studi e agenzie di comunicazione e pubblicità: per loro spesso un partito non è diverso da un prodotto da promuovere e per farlo serve un marchio. Ecco, questo forse è il filo degli ultimi anni: i simboli, nati come segni identitari, sono diventati simili ai marchi, ma è raro che siano anche dei brand, segni capaci di evocare un insieme di valori. Forse il filo non è rosso, ma di certo è triste”.

Quanto incide il colore adottato?
“Alcuni colori di certo non passano inosservati: un emblema dominato dal rosso, dall’arancione o dal fucsia si nota e “buca” di più di uno basato sull’azzurro; questo non basta a renderlo bello, gradevole o efficace. Al di là delle considerazioni estetiche, in molti stati si è stratificato un “codice cromatico” che lega una o più tinte a un partito o a un’area politica: certi codici si somigliano (in Europa, ad esempio, il rosso accomuna un’area ampia, dal comunismo al socialismo alla socialdemocrazia), altri si distanziano (si pensi agli Stati Uniti, in cui i democratici sono legati al blu e non al rosso, che caratterizza invece i repubblicani); in alcuni paesi i colori sono addirittura il segno identificativo maggiore per i partiti, specie quando, più che i simboli, si adottano grafiche o lettering (come in Germania). In Italia, dopo l’introduzione della stampa a colori delle schede elettorali si sono moltiplicati gli emblemi basati solo o soprattutto sui colori nazionali (verde, bianco, rosso, ma anche azzurro): intenti a rivolgersi in modo rassicurante a tutti, senza escludere nessuno, di fatto non comunicano altro che il loro essere italiani e filoitaliani, ma francamente è davvero poco”.

“I simboli della discordia” è il nome del suo blog. Perché?
“È il nome del blog e prima ancora, era il titolo del mio primo libro in materia, di taglio giuridico. Il nome non fa altro che riprodurre la realtà: l’Italia politica ha iniziato a litigare sui simboli almeno quarant’anni fa, ma da quasi trent’anni lo fa con un’intensità incredibile. La discordia nasce quando in un partito qualcuno vive come un tradimento le scelte della maggioranza e vuole portarsi via il nome e le insegne, pensando di averne diritto; altre volte capita che qualcuno adotti un emblema simile per danneggiare un gruppo o approfittare del suo probabile successo; in certi casi si fa di tutto per difendere il presunto diritto a usare il simbolo di un vecchio partito che si vorrebbe riproporre, anche se negli anni quell’emblema ha preso altre vie. Spesso queste scaramucce finiscono in tribunale o in qualche altro ufficio pubblico; a volte si traducono solo in dispute mediatiche o scazzottate poco virtuali. Ho cercato di raccontare anche questo, e non solo i risvolti di carta bollata, nel mio secondo libro Per un pugno di simboli, di taglio più pop; continuo a farlo aggiornando il sito www.isimbolidelladiscordia.it, visto che le discordie sembrano un filone inesauribile”.

Il 25 marzo ha partecipato a San Marino al convegno organizzato da PSD, PS e MD parlando della “via simbolica al riformismo, dalla falce e martello alla botanica”. I simboli sono sempre specchio di una realtà che cambia? Sono in questo senso precursori del cambiamento?
“Specchio forse non lo sono sempre o tutti, ma di certo lo sono quasi sempre. Moltiplicandosi, hanno dato conto e danno conto della frammentazione crescente della politica; scomparendo o vivendo quasi solo in ambito parlamentare, hanno testimoniato l’inconsistenza di certi progetti. Complicandosi, mal tollerando gli spazi bianchi e facendo sparire immagini ben riconoscibili, i simboli hanno dimostrato la difficoltà sempre maggiore di trasmettere in forma grafica idee e programmi poco nitidi; ospitando i nomi dei leader di molti partiti, hanno reso palpabile il tasso crescente (a corrente alternata) di personalizzazione della politica. È raro che i simboli siano addirittura precursori, ma a volte è accaduto. È stato il caso, per esempio, del simbolo della Lista Marco Pannella: nel 1992 il sistema elettorale era ancora proporzionale, ma il leader radicale aveva capito che anche in Italia sarebbe arrivato il sistema maggioritario, in cui più dell’emblema contava il nome del candidato, per cui era bene metterlo al centro della proposta grafica”.

In Italia i simboli elettorali presentati in vista delle recenti elezioni politiche hanno spaziato da piante a animali, senza trascurare fiamme e bandiere. Un dato emerge immediato: sono in numero nettamente inferiore rispetto alle precedenti elezioni, per quale ragione?
“Si può dire che ne sono responsabili la burocrazia e la “meccanica elettorale”. Innanzitutto la soglia di sbarramento al 3%, senza ripescaggi di alcun tipo, ha convinto vari partiti a presentarsi all’interno di cartelli elettorali che riunivano fisicamente anche cinque emblemi, nella speranza (di solito vana) di superare la quota prevista dalla legge: questo ha già contenuto il numero. Questa volta, poi, la presentazione dei contrassegni elettorali richiedeva anche la presentazione di qualche documento in più, cosa che comportava sforzi e costi maggiori per chi era intenzionato a depositare un emblema con successo: questo ha evidentemente tenuto lontani dal Ministero dell’interno alcuni presentatori storici di emblemi, compresi quelli che si erano distinti per aver elaborato molti “cloni” grafici di altri fregi politici o altri simboli furbetti. Il rito di apertura delle elezioni ne ha guadagnato in serenità, ma di certo è stato meno divertente”.

Perché la botanica continua a essere terreno fertile nella scelta?
“Al di là dei casi in cui la tendenza botanica ha radici internazionali (com’è avvenuto soprattutto per la rosa e per il garofano), fiori e piante sono andati per la maggiore – soprattutto a sinistra o nel centrosinistra – forse perché danno un’immagine più gentile, sfumata, quasi poetica e ideale della politica, anche quando il calcolo prevale sugli aspetti più nobili: per questo, negli anni, in Italia non ci siamo fatti mancare querce, quadrifogli, anemoni, rametti d’ulivo, margherite, fiori d’arancio, fino alla più recente e subito appassita peonia. C’è stato anche un filone animale nella politica italiana, iniziato con aquile e leoni e che ha avuto il suo culmine nel 1999 con l’uso contemporaneo dell’asinello (schierato, in versione quasi disneyana, dai Democratici di Romano Prodi) e dell’elefantino (arruolato invece dalla coppia inedita Alleanza Nazionale – Patto Segni), con uno sguardo più americano che mai; a questo giro, invece, gli animali sopravvissuti all’estinzione sono stati pochissimi”.

I simboli sono sempre inseriti all’interno di un cerchio, come va letto questo dato?
“Va letto per quello che è: un tentativo di dare un minimo di regole comuni a un elemento importante della competizione elettorale. La legge impone a tutti i concorrenti di usare un simbolo tondo: anche emblemi che normalmente hanno altre forme devono adattarsi a quella circolare, uguale per tutti, senza che un angolo o qualche elemento possa uscire dalla conferenza. È una delle poche regole fissate per le elezioni, insieme soprattutto al divieto di confondibilità tra simboli di partiti diversi (per cui si dà tutela al partito rappresentato in Parlamento, dunque più noto agli elettori, o in subordine a chi si è messo in fila prima a depositare) e al bando per le immagini e i soggetti religiosi (per non carpire la buona fede degli elettori). Ciò che conta, ovviamente, è il contenuto di quel cerchio: ci si mette una croce sopra – la stessa che tracciavano gli elettori analfabeti una volta ottenuto il diritto di voto, non conoscendo un altro modo per esprimere il loro consenso – sperando che la persona o le persone scelte siano elette e mantengano le loro promesse. In questo, però, i simboli c’entrano poco”.

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