Ferdinando e Genoveffa
Un racconto di Giovanni Renella
Tratto da “Don Terzino e altri racconti”
Graus Editore – Napoli 2017
Con il passare dei mesi, Ferdinando era sempre più convinto che, nel giro di qualche anno, l’Italia sarebbe stata coinvolta in una guerra e avrebbero chiamato in prima linea anche quelli come lui, della leva del 1890. Con i suoi ventiquattro anni, della vita aveva visto poco, desiderava conoscere il mondo, imparare un mestiere, godere delle gioie dell’amore e del calore di una famiglia. Ma avvertiva l’incombenza sinistra della follia di uomini che, pur parlando lingue diverse, recitavano uno stesso copione, di cui lui sembrava già conoscere le battute finali. Fu così che decise di partire per l’America e lasciarsi alle spalle un futuro senza avvenire. Era la primavera del 1914 quando s’imbarcò per attraversare l’oceano verso l’America, destinazione Ellis Island, “l’Isola delle Lacrime”. A Napoli lasciava papà Vincenzo e mamma Lucia, quattro sorelle e un fratello, tutti più piccoli di lui.
A New York rimase sei anni, imparando a fabbricare guanti di pelle dalle cuciture impalpabili. Fece fortuna e oltre a imparare il mestiere riuscì ad accumulare i soldi necessari che gli avrebbero permesso di impiantare una piccola fabbrica quando sarebbe tornato in Italia.
Certo, i primi tempi furono durissimi. Da solo, in un altro mondo di cui non conosceva la lingua, fu costretto a grandi sacrifici. Il lavoro, per chi non disdegnava la fatica, non mancava e Ferdinando era uno che non si tirava indietro. Cominciò a lavorare come giovane di bottega in una manifattura di pellami e, per risparmiare sull’alloggio, convinse il padrone a lasciarlo dormire nel laboratorio: arrangiandosi in un letto di fortuna, ricavato sotto un bancone, avrebbe fatto anche da custode notturno. Una notte, per opporsi a una rapina tentata da due balordi, fu accoltellato alla schiena. Se la cavò con qualche punto di sutura e un breve ricovero in ospedale. Il suo coraggio, però, gli valse la riconoscenza del padrone, che gli insegnò tutti i segreti del mestiere. Nel giro di qualche anno diventò uno dei più abili fabbricanti di guanti della città, fino ad assumere il ruolo di responsabile della produzione nella ditta in cui lavorava. Aveva sgobbato giorno e notte, senza concedersi sfizi o distrazioni, ma alla fine ce l’aveva fatta: poteva tornare a casa!
L’estate del 1920 era di nuovo a Napoli, nella sua piccola fabbrica, con i macchinari che aveva portato con sé dagli Stati Uniti. Oltre a pochi operai, che aveva formato personalmente, aveva assunto anche il fratello Arturo e le sorelle Anna e Clelia, ormai grandi e non ancora sposati, a differenza di Fortuna e Maria, già maritate e con figli piccoli. La Grande Guerra, che Ferdinando era riuscito a evitare, era passata e, anche se in Europa si avvertivano i primi vagiti dei nascenti nazionalismi, il futuro appariva più roseo del passato. Lavorando tanto e bene, i risultati non sarebbero mancati.
Fabbricante esperto e con una vocazione innata per il commercio, Ferdinando cominciò a girare per il vecchio continente e a piazzare i suoi ottimi guanti in Belgio, in Inghilterra e in Francia: la “Glove Manufactory di Ferdinando Giaquinto”, a Napoli, era diventato un marchio di fabbrica, sinonimo di eccellenza. Ma il giovane imprenditore, venuto su dalla gavetta più dura e realizzatosi grazie a una volontà ferrea, aveva realizzato il suo sogno solo a metà. Non aveva ancora incontrato la donna della sua vita, con cui metter su famiglia. Le compagnie femminili, soprattutto a New York, non gli erano mancate. Era un bel giovane, alto e robusto, ricercato nel vestire, dai modi gentili e dal fascino discreto. Aveva goduto del favore di alcune donne, con cui si era accompagnato senza reciproci impegni. L’amore vero, però, non l’aveva ancora trovato e dovette attendere qualche anno, sino all’incontro casuale con Genoveffa, avvenuto durante una passeggiata lungo via Caracciolo, in una sera di giugno del 1926. Di ritorno da un viaggio d’affari in Inghilterra, Ferdinando era stato a cena con alcuni amici, in un ristorantino sul lungomare, per festeggiare un importante contratto appena concluso a Londra. All’uscita del locale, il suo sguardo s’incrociò con quello di una giovane a passeggio con i suoi genitori: Ferdinando rimase folgorato da quegli occhi, in cui, in un attimo e per sempre, finì per perdersi. Non ebbe l’ardire di presentarsi subito, anche se l’impulso di conoscere quella donna era fortissimo. A un galantuomo non si addiceva un comportamento così sfrontato e non voleva rischiare di compromettere in alcun modo la speranza futura di fare una buona impressione. Combattuto fra l’impulso di conoscerla immediatamente, per il timore di perderla di vista in una città grande come Napoli, e il commettere un passo falso che gliel’avrebbe comunque fatta perdere, visse alcuni istanti che gli parvero un inferno. La fortuna, però, gli arrise. Uno degli amici, che erano con lui, conosceva la famiglia di Genoveffa, i Valerio e, colto al volo l’interesse di Ferdinando per la giovane, si avvicinò al padre per salutarlo. Seguirono le presentazioni e i due si conobbero. Da quel momento Ferdinando strinse d’assedio Genoveffa, con una corte così assidua e garbata che in breve riuscì a fare breccia nel cuore della ragazza e a ricevere l’approvazione dei suoi genitori, i coniugi Valerio.
Dopo poco si fidanzarono e non c’era giorno in cui Ferdinando, che si trovasse a Napoli o in una qualsiasi altra città d’Italia o d’Europa, non scrivesse un bigliettino o una lettera a “Jenny”, come la chiamava vezzosamente, per chiederle se avesse bisogno di qualcosa e manifestarle il suo amore. Quotidianamente le faceva recapitare prelibatezze gastronomiche di ogni genere, accompagnate da garbati messaggi che ne giustificavano l’invio (con pretesti addebitati alla golosità di Genoveffa), per non offendere la sensibilità dei futuri suoceri, che non navigavano nell’oro.
Si sposarono nel gennaio del 1927. Ebbero due figlie e si amarono teneramente sino alla morte di Ferdinando nel 1945, che questa volta non era riuscito a evitare gli orrori del fascismo, prima, e della guerra, poi. “Nonna Effa”, come l’avrebbero chiamata in seguito i suoi nipoti, gli sopravvisse per più di trent’anni. Si spense nel settembre del 1976 in silenzio, così come era vissuta, paga del suo grande amore per nonno Ferdinando. Questo racconto è dedicato alla loro memoria.