Era nata di tre colori: bianco, ocra e nero.
Aveva una chiazza sul naso, come se qualcuno si fosse accorto di essere in ritardo nel disegnarle il volto, e le avesse lanciato, da lontano, il colore destinato al musetto.
Al lato della testa aveva una piccola oasi spelacchiata, chissà perché…
Era la più piccola della cucciolata, e i suoi fratelli, tutti maschi, finivano il latte della mamma prima che lei potesse assaggiarne.
La mamma lo sapeva, la guardava con pena e cercava disperatamente di lasciarle il posto per mangiare, ma anche gli altri erano gattini affamati. Come poteva fare? E poi era tanto stanca: la vita era dura a Serravalle.
Susanna (ah già, dimenticavo: la gattina si chiamava Susanna) era più piccola degli altri, ma quello che le mancava in peso ed altezza lo compensava con astuzia e caparbietà.
Si metteva dietro al fratello più grande, lo mordeva alla base della coda fino a farlo distrarre e… zac! si infilava al suo posto per bere avidamente il latte della mamma.
Poi, però, il fratello tornava e reclamava il proprio posto.
Susanna aveva tanta fame e tanto freddo. Non poteva aspettare nemmeno un pomeriggio senza mettere qualcosa sotto i denti; quindi strofinò il muso contro quello della stanca madre, diede un distratto saluto ai fratelli, e scese il prato di erba alta in direzione della strada.
Susanna non lo sapeva, ma era giorno di rally a San Marino, e quelle scatole enormi con le persone dentro erano molto più veloci e rumorose del solito. Un altro colpo di sfortuna che, però, non spaventava il cuore coraggioso della piccola gattina.
Dalla parte opposta della strada c’erano sicure promesse di cibo, perché molti gatti crescevano grossi e ben pasciuti. Li vedeva. Sicuramente non le avrebbero fatto mancare una morbida crocchetta.
Susanna era terrorizzata da quei rombi fortissimi, ma voleva vivere e crescere. Era venuta al mondo da poco più di un mese.
Aspettò il momento di calma, prese un respiro e si gettò dal muretto del prato per superare la strada.
Si trovò, minuscola ed indifesa tra velocissimi e rombanti scatoloni di latta; non poté più proseguire e tornò sui suoi passi, trovando rifugio dentro un altro di quei mostri su ruote.
Era freddo. La piccolina non mangiava da giorni; il motore aveva ancora delle parti calde che lei cercò col piglio di chi voglia sopravvivere a tutti i costi.
Ancora una volta non si arrese.
Fu allora, mentre cercava il calore delle parti meccaniche, che la voce di un uomo le giunse dall’esterno.
Vieni fuori, gattino, mi prenderò cura di te.
Con un filo di voce, Susanna miagolò indispettita.
Non mi fido di voi giganti su due piedi. Ci avete preso a sassate, uccidendo uno dei miei fratellini.
Io non ti farò del male – le rispose il gigante – Stai pure quanto vuoi lì dentro: io ti aspetterò.
E così passarono le ore. La micina perdeva le forze e col tempo pure i sensi: si mise a dormire quello che credeva sarebbe stato il suo ultimo sonno.
Si svegliò in un posto caldo con del gradevole odore di cibo; si gettò subito sulla pappa. Non aveva mai avuto un momento migliore nella sua brevissima vita.
Intorno a lei c’erano i giganti su due piedi, ma poco le importava.
Dopo essersi saziata, Susanna entrò nel suo caldo rifugio approntatole dal gigante più piccolo.
Forse questi umani non erano così male ma, per non dar troppa confidenza, diede subito un morso alla mano del grande gigante che voleva prenderla in braccio.
Il caratteraccio di Susanna si evidenziò ulteriormente nelle settimane successive.
Più lei teneva le distanze, però, più i giganti umani la trattavano bene.
Strinse la più bella amicizia della sua vita con Sofia, la cagnolina di casa.
Le due piccole si facevano dispetti e si rincorrevano per casa per ore fino a crollare sfinite sul divano.
Perché non vuoi farti coccolare dai nostri padroni? Sono tanto buoni con noi – le disse un giorno Sofia.
Intanto – rispose Susanna – io non ho padroni! Se mi vogliono nutrire, che facciano pure, ma io sono una gattina selvatica, sono nata libera e libera sempre sarò.
Nella veranda del piano inferiore Susanna fece conoscenza con Giovannino, un anziano gattone rosso la cui testa era più grande del suo intero corpo.
Il gattone miagolava solo in siciliano e, all’inizio, non voleva saperne della piccola Susanna.
Giovannino aveva una filosofia di vita molto semplice.
Cu non fa nenti, non sbagghia nenti, diceva sempre (chi nulla fa, nulla sbaglia).
Per non correre rischi, il gattone non si puliva nemmeno dal cibo, andando in giro coi baffi unti e bisunti!
Susanna rideva sempre quando Giovannino chiedeva da mangiare in siciliano, anche pochi minuti dopo aver finito.
Divennero grandi amici.
Si era finalmente ambientata e cominciava a sciogliere il cuoricino indurito dalla vita difficile, quando un giorno seppe che se ne stava per andare.
Piano piano perse la voglia di giocare, mangiava meno ed era sempre stanca.
Non sapeva cosa le stesse succedendo, ma leggeva negli occhi degli umani che il suo tempo stava per terminare.
Te ne andrai in un posto oltre l’arcobaleno, piccolina, dove correrai libera come sempre hai voluto essere; mangerai ciò che ti andrà e berrai acqua fresca di cascata – le disse l’umano grande.
Ed allora, perché i tuoi occhi piangono -rispose Susanna.
Perché per un po’ di tempo non ci vedremo – ebbe in risposta.
Se potrò mangiare ciò che voglio, non ci saranno malattie e tutti saranno felici – disse Susanna – sarò contentissima, non devi piangere.
Prima del loro ultimo viaggio insieme, il gigante adagiò delicatamente la piccola Susanna sul parapetto del terrazzo, da dove la vista spaziava sulla strada di Serravalle in cui Susanna aveva passato la propria vita di gattina coraggiosa.
Il gigante la carezzò sulla testa e, stranamente, Susanna non si ritrasse.
Probabilmente – disse con uno dei suoi ultimi flebili miagolii – presto mi dimenticherai. Sono solo un mucchietto di pelo e ossicini come ce ne sono tanti.
No, piccina – rispose l’uomo – ti ho trovata per la strada e salvata dai pistoni di un motore.
Dirò a tutti di te e scriverò la tua storia, affinché i bravi bambini sappiano di come la micina Susanna sopravvisse al freddo ed alla fame con la sola forza del proprio piccolo cuoricino.
E lo fece.
In un pomeriggio ventoso ed assolato di un’isola dell’Egeo.
Questa storia.
Marco Nicolini-storyteller