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Chiamalo se vuoi: business oriented

“Business oriented”, quante le strade percorribili!

Lo scorso 11 Novembre si è svolto il Singles’ Day, il più grande appuntamento per il commercio elettronico cinese e mondiale, ma è anche andata in scena al Four Seasons di Milano la prima Ceo Roundtable, organizzata da Fashion, a cui hanno preso parte gli imprenditori del settore moda e del digital. Introdotta da Claudio Marenzi, presidente di Smi.

“La moda – ha esordito Marenzi – è uno dei primi vettori dell’e-commerce e questo canale rappresenta un’opportunità di sviluppo per tutti gli operatori di mercato, anche nel B2B”.

Da un’indagine svolta da Smi presso i propri associati, localizzati lungo tutta la filiera tessile-moda italiana, emergono conferme in questa direzione. “Solo il 35% dei nostri associati – ha aggiunto Marenzi – possiede un sito di e-commerce, e questa percentuale sale al 54% se si considerano le aziende del settore a valle, quelle cioè che trattano il prodotto finito. Eppure, nonostante i numeri siano ancora limitati, il 45% del nostro panel è convinto che le vendite digital rappresenterà almeno il 20% del business entro 10 anni”.

Sappiamo bene che molte piccole/medie aziende del settore tessile-abbigliamento, ancora oggi non sono dotate di un sistema e-commerce.

Anche la maggior parte delle aziende che Smi rappresenta, non si è ancora cimentata in una strategia retail cross channel.

Come mai?

“Dal punto di vista imprenditoriale – ammette Marenzi – devo fare outing e ammettere che Herno (l’azienda che guida, ndr) non ha ancora un sito di e-commerce, ma non perché non crediamo nel mezzo, ma perché vorremmo farlo nel modo più opportuno».

Conclude: “A lungo, a frenare noi come tutte le aziende concentrate sul wholesale, è stata la possibilità che le vendite online potessero penalizzare i negozi multimarca, ma ormai è chiaro che non è così. Ci sono però degli aspetti da evitare quando si parla di e-commerce: in Italia questo canale viene spesso utilizzato come discount o come mini-parallelo”. Continuiamo: Roberto Liscia, presidente del Consorzio Netcomm, intervenuto alla prima Ceo Roundtable di Fashion, sempre l’11 novembre a Milano, ha esordito con una serie di domande che gli imprenditori, soprattutto della moda, si fanno sempre più spesso:

“Come affrontare il digitale? Quali sono i reali vantaggi competitivi? Quanto costa a un’azienda la cosiddetta digital disruption”? “Le risposte passano attraverso i numeri” ha sottolineato, presentando una serie di dati sull’e-commerce a livello globale, europeo e italiano.

Attraverso l’osservatorio privilegiato di cui si avvale Netcomm, consorzio del commercio elettronico italiano, costituito nel settembre 2005, Liscia e il suo team hanno potuto seguire l’evolversi del settore nel tempo e fotografare le dinamiche di “un mondo planetario senza Schengen, dove quasi 3 miliardi di persone su un totale di 7,3 miliardi vanno su Internet e 1,2 miliardi comprano online”.

 “A questo punto – ha osservato Roberto Liscia – è chiaro che se non si parla il linguaggio digitale si rischia di non esistere. Non è tanto la vendita, quanto il consumatore stesso a essere diventato digitale e l’identità di un marchio non può prescindere da questa consapevolezza”.

Se non sei sul web non esisti.

  e-commerce

Paradossalmente aggiunge:

“ nel nostro Paese viene importata più merce online di quanta venga esportata. Ciò evidenzia un gap tra chi compra e chi produce”.

Valore dell’e-commerce nel mondo:

  • 1,9 miliardi di dollari nel 2014 (+13,6%)
  • Asia-Pacifico (740 miliardi, +18%
  • Cina in pole position
  • Europa (545 miliardi, +13%)
  • Nord America (495 miliardi, +9%)
  • America Latina (39 miliardi, +17%)
  • Paesi “Mena-Medio Oriente e Nord Africa”, con 21 miliardi e un incremento del 24%.

Il mercato globale è tuttora dominato dai grandi marketplace ed e-tailer.

Tuttavia l’Italia è ancora fuori dai Paesi maturi per l’e-commerce, che nel caso dell’Europa sono, dal punto di vista dei ricavi su questo canale, Regno Unito, Germania, Francia, Olanda e Austria».

E lo stivale? Fa tuttora parte della lista degli “emerging country” per quanto riguarda lo shopping online, al terzo posto per giro d’affari dopo Spagna e Russia e prima della Polonia. Nel 2014 si è accaparrata una minuscola fetta del mercato dell’e-commerce B2C in Europa, pari a un 3,1%. Per esempio un Paese più piccolo come la Svizzera ha un 3%, mentre i nostri “vicini” francesi si accaparrano un 13,4%. Inoltre, ha la conversion rate più bassa sul territorio europeo e il più elevato tasso di abbandono del “carrello” prima di poter concludere la transazione.

È chiaro che si può fare di più, perché se da un lato i consumatori sono sempre più attratti e sempre meno diffidenti nei confronti dell’online, dall’altro molte aziende made in Italy, costrette comunque a proiettarsi verso l’internazionalizzazione, stanno sottoutilizzando questo canale.

Su questi dati vorrei aprire uno spunto di riflessione.

È naturale che il commercio su web, per dirlo all’Italiana, è una realtà con la quale bisogna interagre, quanto meno conoscerlo. Alcune realtà non possono davvero non essere parte di questa tipologia di acquisto. Sono commerciante ed io per prima per il mio negozio da almeno un paio di anni valuto la possibilità di commercializzare on-line. Le attività come i negozi oggi sono aziende a tutti gli effetti.

Sulla considerazione che l’e-commerce non abbia influenzato il commercio al dettaglio, il negozio non sono assolutamente d’accordo. Hanno sicuramente cambiato l’approccio al consumo dell’utente finale e il rapporto con il negoziante/fornitore.

acquisti

Ci sono sicuramente categorie merceologiche che si prestano maggiormente all’acquisto on-line.

È sicuramente più disimpegnato acquistare elettronica che abbigliamento su internet.

Aggiungo, non sono assolutamente contro l’ecommerce, sarei atemporale. Ogni fenomeno, figlio della propria epoca, ritengo sia sacrosanto oggetto di studio e riflessione.

Ho motivo di pensare però che ci sono nazioni che hanno una logistica geografica complessa, rispetto alla nostra e di conseguenza culture con una mentalità maggiormente “on-line oriented” .

Non possiamo raccontarci che fare acquisti a NY crea lo stesso impegno e tempo che a Milano. Certe shopping experience rappresentano ancora un valore in qualche parte del mondo. Mi chiedo: l’aspetto “romantico” e umano dell’atto dell’acquisto che ruolo avrà? Che fine farà? Le piccole botteghe scompariranno? Che differenza esisterà tra fare acquisti di articoli diversi sul web? Da chi o cosa sarà sostituita la figura fisica del commerciante?

Pensiamo alle esperienze nel mondo del lusso, del cliente che acquista da Vuitton in via della Spiga nel cuore di Milano, capitale Italiana della moda, nel tempio del Brand, con 3 commessi a disposizione, qualcuno che offre lui un caffè e quella figura a mio avviso un tantino “inquietante” che apre e chiude la porta e sorride costantemente.

Beh direi che non neanche cosi diversa dal digitare un click su una tastiera no!??!

Ironia a parte, penso anche, che questa “facilità” nell’acquistare e accedere ai beni, sommata a quella branca del fast-fashion e del consumo a basso prezzo della catena di abbigliamento-accessori abbia ingigantito le esperienze del consumo creando numerose volte un bisogno inesistente.

È cosi necessario tutto questo consumo e il potenziamento di questo indispensabile canale di acquisto?

Certamente: un treno ad alta velocità che va dritto dritto al consumatore per produrre BUSINESS.

Si perché oggi il consumatore è sempre più smaliziato  e irraggiungibile.

Aggiungiamo un poco di potere del web, diverse decine di  portali internet di proposta fashion ed ecco qui che ci ritroviamo all’interno di qualche carrello virtuale ad acquistare articoli di cui non possiamo fare a meno!!?

(E pensiamo come sta già prepotentemente prendendo piede la diffusione sul mobile).

D’altronde e mi rivolgo alle donne in “ascolto”, a chi di voi non è mai capitato guardando ettari di cabine armadio di dire: “Non ho niente da mettere!”

Eh già.

Giulia Castellani

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