«Questa è l’ultima, per stasera!» Per me la vacanza è lavoro, sono un ladro. Di giorno giro per paesi e campagne e spio i casolari abbandonati, poi ci vado di notte, col rilevatore di metalli. La Toscana è una miniera immensa. L’anno scorso mi ha fruttato una scatola di monete e anelli e un rifugio pieno di armi dell’ultima guerra, per il resto solo vanghe storte e ferraglie arrugginite.
Ci vuole del fegato a entrare dentro case diroccate, col rischio che ti caschi una trave sulla testa o ti cedano i mattoni sotto i piedi. Col tempo ho imparato a saggiare un pavimento pericoloso e ad attraversarlo. Comunque, vi posso assicurare che una volta acceso il rilevatore tutto passa in secondo piano e aspetti solo che lo schermo s’illumini di rosso e parta il bip bip di un qualche ritrovamento. Più di una volta ci ho fatto mattina, scavando buche per cavar fuori un ferro di cavallo o uno da stiro. Ma è l’eccitazione a farmi continuare ancora.
Come stasera.
Sono rimasto per tutto un pomeriggio a osservare questa casa. Vasta, bellissima. Attorno sono solo ortiche e topinambur selvatici, finestre e porte chiuse con vecchi infissi. Tranne una sul retro. L’ho scorta perché c’è entrato un gatto, forse a caccia di topi. Dalla strada ha percorso un sentiero che solo lui conosce, smuovendo appena gli alti fusti d’ortica, fino alla porta accostata e a un grande roseto fiorito.
Entrerò da lì, stanotte.
Come un’ombra mi stacco dal bosco e attraverso la radura. La porta geme appena quando la divarico. L’aria sa di umido e di stalla. Inquadro delle greppie con la torcia schermata, entro in quella che era la cucina, dal grande camino affumicato. Un tavolaccio e due bicchieri ribaltati. La scala interna invita a salire. Non lo faccio spesso, ma a volte ci sono vecchie casseforti murate nelle nicchie. Qualcosa mi ronza forte nella testa, poi scorgo attraverso una porta a vetri parecchie persone che piroettano nel salone accanto. Organetti e un violino, qualcuno batte il tempo sul tavolaccio. Uomini baffuti e donne dalle mille sottane ballano una giga d’altri tempi, mentre in parecchi si danno da fare con boccali e bicchieri di quello buono: me lo dicono le loro facce estasiate. Sul tavolo c’è un gran vaso di quelle rose, petali cremisi come bocche socchiuse.
Arretro, non mi hanno visto, sono troppo occupati a divertirsi.
Torno di sotto, a cercare la cantina. Ci sono tante nicchie dove nascondere qualcosa di prezioso. Mi ritrovo in uno stanzone ricolmo di attrezzi. Sul fondo, un portone sbilenco promette bene. Sono dentro. Sorrido. Un torchio di legno, un tino e damigiane spagliate.
Direi che ci siamo.
Monto lo scanner, allungo il braccio telescopico e inizio a sondare muri e pavimento. Scarsi riscontri. Con la pratica, ho imparato a distinguere la differenza fra un chiodo sepolto a dieci centimetri da una zappa a un metro. Un oggetto piccolo non mi fa mai accelerare il battito: nessuno seppellirebbe una moneta o un anello. Cerco una scatola, una pentola, un bidone sotterrato.
Allargo il raggio della ricerca e trovo uno stretto tunnel che scende ripido. Allungo la torcia e scopro un altro locale e molti botti allineate. Sotto fa molto più fresco.
«Bevi un goccio assieme a me?» Un uomo corpulento si fa avanti, con una lanterna in una mano e un boccale d’ottone nell’altra. Ha la faccia rubiconda e simpatica, la camicia di flanella che gli esce dai pantaloni. Spilla del vino da una delle botti più piccole, senza chiedere chi sono e che ci faccio là dentro.
«Se bevi questo vino, non ne vorrai altro!», ammonisce. Rimedia un bicchiere da qualche parte e lo riempie. Me lo porge.
Allungo una mano tremante. Non mi è mai capitato di farmi beccare.
Bevo.
«È veramente ottimo!» Rimango estasiato. Sì che di vino me ne intendo. A forza di girare per paesi e osterie, mi sono fatto una cultura. Ma questo…
Tannini e aromi mi esplodono in bocca, mentre l’alcol mi riempie le narici, discreto ma potente. Allungo il bicchiere vuoto, deciso ad azzardare un altro giro.
Tempo dieci minuti e le nostre risate risuonano lungo il sotterraneo, non so nemmeno io dopo quanti bicchieri. Ardesio, così dice di chiamarsi il mio ospite, mi racconta che quella è la riserva speciale del suo padrone. È per lui che seleziona le uve migliori. Evoca di notti intere a travasare il mosto di botte in botte, di damigiana in damigiana, che non si deve perdere la luna buona.
«Adesso torno di sopra, che avranno finito il vino. Te, aspetta qua, che poi ti porto focaccia e salsiccia.» Prende un orcio e spilla vino da una botte diversa.
«Che tanto il padrone non capisce la differenza fra i due!» Mi strizza l’occhio e accenna alla botte di quello buono. Se ne va via, con la lanterna che cigola dall’anello.
Ne approfitto e saggio con lo scanner sotto e dietro le botti. Suona dappertutto. O i muri e i pavimenti sono foderati d’oro, oppure è pieno di ferri arrugginiti. Non so che fare. Dovrei scavare, ma fra poco quello torna, e che gli dico? Devo tornare un altro giorno.
Mi volto di scatto, un barattolo rotola da qualche parte. Forse un topo, oppure il gatto che lo insidia. Infine, la testa mi gira, lo stomaco mi fa un sussulto. Troppo vino. Attorno, vedo facce confuse, Ardesio che ride, ride di me. E una vecchia sdentata che sbuffa, bambini che mi tirano per le maniche. Fatico a tenere gli occhi aperti, tutto mi pare surreale, come di gente che si raduna a ballare in una casa abbandonata.
Non so più, l’ultimo pensiero è che non l’ho vista entrare, quella gente, io ero nel bosco da ore e…
Buio.
Mi risveglio con un urlo che rimbomba sulle pareti.
Ansimo, mi passo una mano sulla fronte sudata. L’aria sa di solfato di rame e zolfo. Accendo la torcia piccola: la cantina è come la ricordavo. Raccolgo in fretta le mie cose, inciampo in un oggetto metallico che rimanda un suono sguaiato. È la lanterna di Ardesio. La osservo stralunato. Apro la centina e tasto la candela: è morbida e lo stoppino mi tinge la mano. Mi avvicino alle botti e batto con la mano sul legno, ottenendo un cupo rimbombo.
«Vuote…» Né poteva essere il contrario.
Eppure…
Sono le quattro di notte, non si sente alcun rumore. Prendo coraggio, ripiglio lo scanner e lo passo sotto le botti. Suona forte.
Sudo.
Tiro fuori la piccozza e m’inginocchio. Sotto è pieno di cocci di vetro e sassi. Scavo alla cieca per una decina di minuti ma l’ansia me li fa sembrare ore. Ormai sono un bagno di sudore. C’è una tavola di legno, la tolgo. La luce mi rimanda una piccola nicchia e il cuore mi fa un sussulto. C’è qualcosa, là sotto. Tiro su una scatola metallica e dentro scopro vecchie carte e dei sacchetti di monete. Lo sguardo mi corre all’altra botte. Respiro ormai a bocca aperta, aria e polvere, non importa. Ne cavo un piccolo forziere, ma non riesco ad aprirlo. Infilo tutto nello zaino, devo andare via.
Lontano, s’ode un gallo cantare.
Nella penombra della stalla mi si fa avanti ancora Ardesio. Ha una faccia strana, fa paura.
Salgo le scale per fuggirlo, magari saltando da una finestra. Gli oggetti rubati mi fanno caracollare e rallentano il mio incedere, ma Ardesio pare non approfittarne. Nuovamente mi affaccio a quella porta a vetri, quella gente è ancora là a suonare e divertirsi.
Che fare?
Affrontarne uno o chiedere aiuto, sperando che credano a un ladro e non a un garzone?
Lo sguardo spento di Ardesio mi porta a valicare quella soglia.
Apro, e l’incanto svanisce: oltre la porta, nessuno.
«Ora tu hai spezzato la maledizione, amico mio…» Ardesio ha gli occhi umidi «Da cent’anni e più siamo prigionieri di questo luogo, a custodire un tesoro che non ci appartiene, nell’attesa di qualcuno senza paura. È tuo, goditelo con serenità…»
L’uomo che fu Ardesio sbianca e scompare, io appeso al muro.
Di nuovo il gallo canta, il mattino è incombente. Mi precipito per le scale e scappo via da questo luogo infestato. Mi volto: alla finestra una giovanetta, una rosa in mano.
Spero che il cofanetto contenga altri valori: vorrei girar per osterie, a raccontare quest’avventura sbilenca e a cercar il pari di quel vino fantasma…