Gino si rese conto di aver dimenticato la busta con le scarpe da risuolare proprio mentre il portone si richiudeva alle sue spalle, con un gracidare metallico che gli ferì le orecchie.
Maledì in silenzio prima l’amministratore, che non aveva ancora provveduto a farlo oliare, come promesso nell’ultima assemblea condominiale; poi se stesso, per essere troppo in ritardo e non poter tornare indietro a prendere le scarpe.
Meno male che aveva la macchina lì vicino. Il suo sguardo percorse la lunga serie di vetture disposte a lisca di pesce e si soffermò su un tetto di un blu brillante che spiccava fra gli altri, tutti nelle anonime varianti del grigio metallizzato.
«Blu oceano.» Così il concessionario aveva definito il colore dell’auto. Era rimasto conquistato da quel nome, più che dal colore stesso. Gli era sembrato profondo, dilagante, come un’onda di vernice che avesse ricoperto la carrozzeria.
«La prendo» aveva risposto senza esitazioni.
Il suo passo era svelto ma all’improvviso Gino rallentò: un furgone scassato era fermo in doppia fila, proprio dietro la sua auto. Diverse persone di colore scaricavano dal retro del mezzo degli involucri piuttosto voluminosi. Cominciarono a trasportarli in un fondo lì davanti, la cui saracinesca arrugginita venne tirata su con sforzo.
Altri extracomunitari di merda, persino sotto casa sua. E gli stavano pure bloccando la macchina.
Premette il pulsante sulla chiave e la sua auto cominciò a lampeggiare, in contemporanea con il clic di apertura degli sportelli: il segnale d’inizio delle ostilità.
Un nero con una tunica verde brillante, appoggiato al furgone, incrociò lo sguardo bellicoso di Gino che brandiva la chiave col braccio teso, come fosse una spada.
«Amico, amico… Spostare subito furgone» disse, scoprendo i denti in un sorriso conciliante.
Gino ringhiò. L’uomo montò al posto di guida senza scomporsi e fece marcia indietro, per consentirgli di uscire dal parcheggio.
Gino continuò a fissarlo dallo specchietto, con uno sguardo che sperava riuscisse a esprimere tutta la sua disapprovazione. Fu con rammarico che vide il furgone entrare nel posto che lui aveva lasciato libero. Come si permettevano, non ne avevano il diritto.
«Ma perché non ve ne tornate a casa vostra!»
Con un’ultima occhiata rabbiosa nello specchietto, li vide scaricare dei sacchi di juta. L’auto davanti a lui frenò bruscamente all’incrocio.
«Cornuto!» urlò inchiodando. E gli extracomunitari con i loro sacchi misteriosi svanirono dalla sua mente.
Alle due del pomeriggio, mentre rientrava a casa dal catasto, trovò un posto libero proprio accanto al furgone scassato, parcheggiato ancora davanti al fondo. E se gli avessero fatto un coccio uscendo?
Allungò il collo fuori dal finestrino ma non c’erano altri spazi liberi nella strada. Era una fortuna trovare un posto così vicino casa a quell’ora. Sospirò e allineò la sua macchina blu oceano al furgoncino, di un colore indefinibile per via della ruggine e dei vari strati di vernice della carrozzeria. Uscì dall’auto e provò una sensazione piacevole, prima di rendersi conto che la fonte di piacere proveniva dal fondo: un odore di caffè.
In quel momento la porta di vetro opaco del fondo si aprì. Ne uscì una donna alta dalla pelle d’ebano, gli occhi liquidi come quelli di una gazzella, messi in risalto da una sorta di turbante rosso e arancione. Incontrò lo sguardo di Gino e schiuse le labbra carnose e scure in un sorriso.
Non ancora sul marciapiede, gli occhi al livello della sua bocca, Gino fu sul punto di ricambiare il sorriso della sconosciuta. Riprese subito il controllo di sé, grugnì, abbassò lo sguardo, chiuse l’auto tendendo la chiave con ostentazione e si diresse con passo rapido verso casa, senza più guardare la donna.
La porta del suo appartamento era accostata.
«Quante volte le ho detto di tenerla chiusa!»
L’abitudine della madre di socchiudere la porta all’ora del suo rientro, gli suscitava un misto di irritazione e affetto. La signora Rosa era rimasta legata ai rituali di una vita trascorsa nei casermoni popolari, un universo fuori dal tempo, dove le porte rimanevano aperte tutto il giorno e i bambini entravano nelle case l’uno dell’altro senza chiedere il permesso.
Aprì la porta, che sembrò sospinta non dalla sua mano ma dall’aroma quasi solido delle lasagne, specialità succulenta quanto pesante dell’anziana signora.
«Mamma, lo sai che ho il colesterolo! Non posso mangiare il ragù! C’è la carne rossa!»
Si chinò a baciare la linda vecchietta, con i capelli pepe e sale e un vestito acrilico a fiori dai colori elettrici, di almeno una taglia più grande.
«Devi anche smettere di lasciare la porta accostata! Questo è un quartiere residenziale. Non è elegante! E soprattutto non è sicuro. Proprio stamani, nel fondo poco più avanti, quello chiuso da anni, ho visto un gran via vai di negri!»
Mentre parlava gli tornò alla mente il sorriso della donna alta, incorniciato da quelle labbra turgide, scure quasi quanto la sua pelle.
Sua madre sorrise e tornò a dividere in porzioni la teglia di lasagne.
«Ma non è ragù. È sugo di pomodoro fresco, con un pochino di macinato… »
Gino allargò le mani. «Mamma, ma il ragù è sugo di pomodoro con la carne macinata! Neanche la besciamella posso mangiare!»
La madre lo guardò di nuovo.
«Prima che tu mi dica che la besciamella è solo latte con farina e poco burro, mi cheto.» E Gino si sedette a tavola, rassegnato.
«Ecco, bravo. Che arrabbiarti sempre ti fa peggio del colesterolo. E poi la cucina casalinga non fa male a nessuno» rispose, mettendogli nel piatto un rettangolo di lasagna più grande del tovagliolo.
A onta delle sue aspirazioni di stile, adeguate a un impiegato del catasto con casa di proprietà, Gino si legò il tovagliolo al collo con doppio nodo. Non l’avrebbe mai fatto altrove o davanti a degli ospiti ma nell’intimità della sua cucina, le lasagne di mamma non avrebbero sprigionato tutto il loro sapore. Lo teneva al collo quando era piccolo e il budget familiare consentiva di portare in tavola le lasagne solo una domenica al mese, seguite da pollo arrosto con le patate al forno. Era un rito, quella domenica. E solo la presenza di tutti gli elementi che componevano il rituale poteva riproporlo nella sua sacralità.
Placato e anzi soddisfatto, si accinse ad affondare la posata nei dieci centimetri di strati ipercalorici, quando un particolare gli fece affiorare un pensiero sgradevole.
Sua madre aveva l’abitudine di predisporre sul tavolo tutte le portate del pranzo. Gino cominciava a mangiare mentre lei disponeva il secondo e il contorno nei vassoi, sbucciava la frutta o metteva il dolce nei piattini.
Fu il vederla avvitare la caffettiera, che poi lasciava sul fornello, pronta ad accenderla dopo aver mangiato il dessert, a ricordargli l’odore di caffè proveniente dal fondo in cui erano entrati gli immigrati.
«Ti ho detto che c’erano un sacco di negri stamattina qua in strada?»
La madre fece sì ripetutamente con la testa, era il suo modo di far capire che stava ascoltando.
«La Licia del secondo piano sa sempre tutto. Di sicuro ti avrà detto che ci fanno lì. Si sentiva odore di caffè… »
Mentre lo diceva capì cos’erano i sacchi di juta che aveva visto scaricare.
«Certo che la Licia me l’ha detto. Vengono dall’Etiopia. Mettono su una torrefazione.» Si sedette. La porzione di lasagna nel suo piatto era un quarto di quella di Gino. Vide che quella del figlio era ancora intatta.
«Che hai? Ti senti male?»
«Etiopia? Ma il caffè non viene dal Sudamerica?» Gino aveva lo stomaco chiuso. «Torrefazione? Vuoi dire che quindi li avremo qui mattina e sera? Con altri immigrati che verranno a comprare da loro?»
Era peggio di quanto avesse immaginato. Folle di negri dai vestiti colorati, che emanavano sentori speziati, avrebbero invaso il suo quartiere decoroso, dove era la sua casa di proprietà, dove era la sua macchina blu oceano.
«Bisogna far qualcosa! Magari una petizione, una raccolta di firme nella via! Lo dicevo io che questa globalizzazione avrebbe portato un’invasione di pezzenti, ansiosi di rubarci il lavoro! Ti rendi conto che, con questa gente nella zona, la nostra casa rischia un deprezzamento sul mercato immobiliare? Forse anche un migliaio di euro al metro quadrato!»
Se ne intendeva di queste cose, non per nulla era un impiegato del catasto.
La vecchietta prima annuì, sorridendo compiacente. Poi si fece seria.
«Se non ti sbrighi a mangiare, le lasagne si freddano.»
Gino alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. Ma attaccò il suo metro quadrato di lasagne.
Da quel giorno, tutte le volte che usciva di casa guardava la vetrata opaca del fondo con rancore, come se avesse subito un affronto personale. Ogni volta sperava di trovare la saracinesca chiusa e di veder sparire il furgoncino scassato. Aveva fatto un esposto formale all’ufficio d’igiene e alla guardia di finanza, esigendo un accertamento sulla situazione sanitaria e tributaria della sedicente torrefazione.
Una mattina il vetro opaco fu sostituito da una lucida vetrina, l’odore di caffè si diffuse per tutta la via e il fondo fu aperto al pubblico. Gino, sconfitto ma non meno rabbioso, ebbe il duplice smacco di scoprire che il negozio fungeva anche da degustazione. Riconobbe la donna alta col turbante al bancone, impegnata a servire tazzine di caffè. Tra i clienti vi erano diverse persone che abitavano nella zona. Si sentì tradito.
A fine pranzo si sfogò con sua madre.
«Indovina dove ho visto il carrozziere del terzo piano e anche la bionda grassa che sta qui di fronte, quella che il marito è scappato con un’ucraina? Dentro a quel buco di negri.»
Si rifiutava di chiamarlo negozio e tantomeno torrefazione. Gli avrebbe riconosciuto una dignità che non meritava.
La signora Rosa cominciò subito ad annuire, lo faceva per tutto il tempo in cui Gino continuava a parlare.
«Cioè, tuo marito scappa con un’extracomunitaria e tu diventi cliente loro?»
«Gino, sono etiopi, non ucraini.»
«Ucraini, negri, marocchini… Che differenza fa, mamma? Tutti la stessa feccia.»
Rosa continuò ad annuire, mentre gli toglieva il piatto con le bucce del mandarino e posava al suo posto una tazzina colma di caffè fumante.
Gino schioccò le labbra, pregustando il piacere che lo aspettava. Da grande intenditore di caffè quale si riteneva, sollevò la tazzina col mignolo alzato e succhiò rumorosamente un piccolo sorso. Si leccò le labbra soddisfatto, col sapore squisito che gli impregnava la lingua.
«È più buono del solito, mamma.»
Alzò di nuovo la tazzina quando venne trafitto da un atroce sospetto. La riposò sul piattino.
«Mamma, non è il solito caffè.»
Sua madre cominciò subito ad annuire.
«Non l’avrai… No, no, non è possibile… Non l’avrai mica comprato alla tor… cioè, da quei negri?»
Rosa sorrise, placida.
«Ma no, tesoro, sai bene che con queste gambe gonfie esco malvolentieri di casa.»
Con un sospiro di sollievo, Gino risollevò la tazzina all’altezza della bocca.
«Ho dato i soldi a Licia e me lo sono fatto comprare da lei.»
Il secondo sorso andò di traverso a Gino.
«Come hai potuto, mamma! È la stessa cosa! Non importa se ci è andata Licia, abbiamo dato a quei negri i nostri soldi!»
Non riusciva a crederci. Aveva il nemico dentro casa. Una fautrice della globalizzazione.
«Quel caffè è buonissimo. L’hai detto anche tu. E costa poco.»
«Ma bisogna farli fallire! Fare in modo che non abbiano clienti, così saranno costretti a chiudere! È l’unica maniera per mandarli via!»
Vide un futuro da Day After, dove i negri si espandevano come cavallette, compravano gli appartamenti nel suo stesso stabile, votavano contro di lui nelle assemblee di condominio.
«Gino, ti fa male al fegato arrabbiarti sempre per tutto. Hai detto che c’era la bionda separata, alla torrefazione? Perché non ci vai a bere un caffè anche tu? Magari simpatizzate. Vorrei tanto che tu trovassi una brava ragazza e mi deste un nipotino, prima di morire.»
«È molto più probabile che muoia io, prima. E per colpa tua! Si sta parlando di un problema serio e tu tiri fuori un discorso che non c’entra per niente! Come se poi non ti avessi detto mille volte che non ho nessuna intenzione di accasarmi! Sono tutte poco di buono, le donne, al giorno d’oggi!»
Si alzò stizzito, gettando il tovagliolo sul tavolo. Andò in camera sua e sbatté la porta.
La signora Rosa sospirò. Aprì un cassetto e prese una vecchia foto, sepolta sotto i tovaglioli. Guardò un Gino di dieci anni più giovane che sorrideva, abbracciato a una ragazza bionda.
«Non era così, sempre in lotta col mondo» disse piano, scuotendo la testa.
Le piaceva parlare con se stessa, a volte.
«Da quando Elena l’ha lasciato sei mesi prima delle nozze, si è trasformato.» Ripose la foto nel cassetto, sotto i tovaglioli.
«Pensare che è ancora un bel giovanotto. Me lo dicono tutte le inquiline del palazzo. Mi chiedono se è fidanzato…»
Ignaro delle amare riflessioni di sua madre, Gino si era sdraiato sul letto, a bofonchiare per la rabbia. La silenziosa penombra della sua camera lo aveva piano piano placato. Chiuse gli occhi, scivolando nelle associazioni mentali confuse e incoerenti che preludono al sonno.
Un’immagine ovaleggiante, scura, prese forma dietro le sue palpebre. Diventò sempre più definita, tanto che Gino, quasi incosciente, cominciò a distinguere la profonda fessura ombrosa che la tagliava a metà, la superficie opaca e liscia. Quando la sagoma misteriosa si allargò in modo minaccioso, Gino ebbe uno scossone e riemerse dallo stato di semiveglia, un po’ turbato. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di conosciuto in quell’immagine inquietante, qualcosa che lo attirava e lo spaventava insieme. Si alzò dal letto, la fronte appena sudata. In cucina, sua madre stava stirando. Era incapace di stare con le mani in mano.
«Esco a fare due passi» le disse in tono freddo.
Era un buon camminatore. Arrivò sulla passeggiata a mare e la percorse tutta, disperdendo i suoi cupi pensieri in quell’azzurra immensità. Con la mente purificata tornò verso casa, quasi sorridente.
Erano le cinque passate e cominciò a sentire un languorino allo stomaco. Era abituato a fare una merendina a quell’ora, come i bambini. Stava pensando di fermarsi a un bar, quando gli venne un’idea tentatrice.
Per combattere il nemico, bisogna conoscerlo.
Ignorava l’autore della citazione ma fu comunque orgoglioso di averla ricordata.
Perché non andare a prendere un caffè in quel buco e guardarsi un po’ intorno. Vedere se era pulito… o se rilasciavano lo scontrino. Più ci pensava e più l’idea lo attirava. Arrivato davanti al fondo, si guardò svelto intorno con aria furtiva, poi entrò.
L’aroma di caffè impregnava l’aria, era così intenso da dare l’impressione che dai pori della pelle penetrasse nelle vene, circolando nel corpo al posto del sangue. Al bancone non c’era nessuno. Si sentivano delle voci provenire dal retro.
Gino si guardava attorno alla ricerca della benché minima imperfezione, ma rimase deluso. Tutto era pulitissimo, lucido, addirittura. Si avvicinò al bancone e il piano in vetro gli restituì l’immagine del suo volto aggrottato.
«Buonasera.» Una voce profonda ma morbida, avvolgente come l’odore di caffè, lo riscosse dalla contemplazione delle paste contenute in una vetrinetta. Trasalì. Era la donna alta col turbante. In realtà non aveva più il turbante ma un’acconciatura raccolta che non impediva ai suoi capelli nerissimi di luccicare quanto il vetro del bancone.
«Buonasera» biascicò Gino. Non voleva essere cordiale ma il suo sorriso lo attraeva. Erano le sue labbra. Così grandi, non rosate e neppure rosse ma di un color bruno caldo. Sembravano morbidissime.
«Un caffè.» Ritrovò il consueto tono brusco.
«Come lo preferisce? Normale, lungo, ristretto?» La donna continuava a guardarlo con un sorriso amichevole, come se si conoscessero da tempo.
Parlava benissimo l’italiano, Gino era stupito.
«Ristretto. E già che ci siamo anche quel budino di riso.»
«Non è un budino di riso. È un dolcetto ai cereali. Una ricetta tipica dell’Etiopia. È molto buono. Lo vuole assaggiare?» Il sorriso si allargò, sembrò a Gino diventare infinito e pacificatore, come il mare.
«Se dice che è buono… » Gino tese la mano per prendere la pasta. Non appena la donna gli volse le spalle, per armeggiare alla macchina del caffè, Gino si riscosse, come uscito dall’ipnosi.
Prese il caffè che lei gli porgeva senza guardarla, con un grugnito. Si sedette a un tavolino e voltò con ostentazione le spalle al bancone. Cercò di non ammettere che il dolce etiope era squisito e bevve il caffè il più rapidamente possibile: era divino. Quando si alzò, vide con sollievo che alla cassa c’era un nero anziano, dalla faccia rugosa. Il suo sorriso sdentato non suscitò in Gino alcuna emozione. Perciò pagò, prese con rammarico il regolare scontrino e uscì biascicando uno svogliato buonasera.
Quella notte fece uno sogno strano. Camminava in un campo, su un altopiano, sapeva di essere in Etiopia. Qua e là crescevano piante con grandi fiori. Si avvicinò e si accorse che i fiori erano in realtà i dolci di cereali della torrefazione. Dopo essersi assicurato che nessuno lo vedesse, ne colse uno. All’improvviso qualcosa di scuro apparve in lontananza, avvicinandosi minaccioso. Iniziò a scappare, pensando fosse un leone. Poi riconobbe quella strana forma scura, ovale, con un taglio profondo nel mezzo, che rotolava verso di lui, simile a un grosso pallone da rugby. Si svegliò col cuore che batteva forte e faticò a riaddormentarsi.
A pranzo, di fronte a una cotoletta fritta i cui margini fuoriuscivano dal piatto, si lamentò con sua madre.
«Sto cominciando a soffrire d’incubi. Forse è il caso che tu mi faccia da mangiare qualcosa di più leggero, specie la sera.»
La madre, che aveva già cominciato ad annuire appena Gino aveva iniziato a parlare, si adombrò subito.
«Sono quarant’anni che ti preparo da mangiare. E non hai mai avuto un incubo.»
Gli mise davanti la tazzina di caffè e uscì dalla cucina con offesa dignità.
Gino, umiliato, bevve il caffè con rammarico. Non voleva far rimanere male sua madre. Per la seconda volta in due giorni si rinchiuse in camera sua, invece di farle compagnia mentre guardava la soap opera in tv. E anche stavolta si rilassò al punto di addormentarsi. La misteriosa sagoma bruna si formò di nuovo dagli abissi reconditi del suo inconscio e Gino provò il desiderio di lasciarsene catturare. Al suo agitato risveglio cominciò a rifletterci su. Non aveva dubbi, l’incubo era iniziato quando aveva cominciato a bere il caffè dei negri. Forse era tostato con delle sostanze nocive, o addirittura con delle droghe. Decise di tornare subito alla torrefazione e di tentare di introdursi dove il caffè veniva macinato e tostato. Magari avrebbe scoperto finalmente qualcosa per riuscire a far chiudere l’attività degli extracomunitari invasori.
Aveva contato sul fatto che a quell’ora non ci sarebbero state molte persone all’interno del locale. Che fortuna, la porta era accostata. Entrò senza far rumore. C’era solo il vecchio grinzoso che dormiva, appoggiato sul piano dei tavolini. Dal retro non proveniva alcun suono.
In punta di piedi, Gino costeggiò il bancone, tenendo sempre d’occhio il vecchietto, poi s’infilò rapido nella stanza sul retro. Era solo una specie di magazzino, pieno di sacchi di juta. C’era una porta sulla parete di fronte, probabilmente i macchinari per la torrefazione si trovavano là.
Aprì comunque uno dei sacchi. Si aspettava di trovarci del caffè, ma rimase lo stesso folgorato. Ora l’incubo era chiaro. Gino tuffò la mano nel sacco e la ritrasse piena di grossi chicchi di caffè: bruni, leggermente ruvidi, tagliati nel mezzo da una fessura da cui proveniva l’aroma più intenso.
La porta di fronte si aprì e la donna alta entrò nella stanza. Gino sobbalzò e nascose dietro la schiena la mano, ancora colma di chicchi di caffè.
«Ero venuto… cioè… a vedere se c’era qualcuno… perché… insomma… il signore di là dormiva… »
La donna sembrava trafiggerlo con gli occhi di un nero brillante, in cui l’iride si confondeva con le pupille.
«Vuoi venire a vedere la torrefazione?»
Gino non aveva mai sentito un modo più gentile per accusare qualcuno di essere un bugiardo. Rimise i chicchi di caffè nel sacco.
«Seguimi, Gino.» lo invitò la donna, con la sua voce calda e bassa.
«Come fai a sapere il mio nome?»
«L’ho chiesto alla signora Licia, quella che sta nel tuo palazzo. Tu sei carino…» Il suo sorriso si allargò.
Era tanto che Gino non si sentiva così, spogliato di ogni diffidenza, di ogni ostilità.
«E tu come ti chiami? Come mai parli così bene l’italiano?» Desiderava davvero saperlo.
«Shalima. Il mio bisnonno era italiano. Un soldato. Quando l’Etiopia era una vostra colonia. Il mio cognome è Giusti. Abbiamo sempre mantenuto i contatti con i nostri parenti in Italia. Sono venuta qua spesso, sin da bambina. Ecco perché parlo bene. La mia famiglia ha coltivato il caffè per generazioni. Sai che l’Etiopia è il paese dove è stato scoperto per la prima volta?»
«No, non lo sapevo.»
«Secondo la leggenda, un pastore di nome Kaldi vide le sue capre brucare una pianta sconosciuta su uno dei nostri altipiani. Arrivata la notte le capre, invece di dormire, si misero a vagabondare piene di energia. Il pastore capì che quella strana reazione dipendeva dalla pianta che avevano mangiato. Allora ne raccolse i semi, li mise in infusione e ottenne il caffè.»
La sua voce profonda cullava Gino come una musica. Tutto in Shalima esercitava su di lui un fascino ipnotico ma soprattutto gli infondeva una carica emotiva nuova, un’energia vitale mai provata, come la pianta del caffè alle capre del pastore Kaldi.
«È una bella storia… Bella quasi come te» disse un nuovo Gino, con un calore insolito nella voce e un’insolita visione della vita. Non era più ristretta alla sua auto blu oceano, alla sua casa quasi signorile e alle premure della mamma, ma spaziava sugli altopiani dell’Etiopia, fra piante di caffè, cieli sconfinati e donne dalla pelle d’ebano con turbanti arancioni.
Shalima sorrise, avvicinando piano il suo volto a quello di lui.
Gino ebbe la definitiva rivelazione. Quella larga bocca carnosa, di un caldo color bruno, con i semiovali delle labbra separati da una fessura più scura dove baluginavano i candidi denti, era la misteriosa sagoma dei suoi sogni. Sorprendentemente simile a un grande chicco di caffè.
Fin dalla prima volta che aveva visto Shalima sorridere, aveva desiderato di baciarla. Solo adesso lo ammetteva con se stesso.
Mentre si lasciava catturare dal carnoso e morbidissimo chicco di caffè dei suoi incubi, Gino pensò che la globalizzazione aveva i suoi vantaggi.
Francesca Ramacciotti