Dopo un paio di rinvii, dovuti ad un mare che non si voleva calmare, siamo salpati dalla nuova darsena di Rimini, intorno alla mezzanotte del 2 agosto, col mio kayak adagiato sul tender e legato alle draglie poppiere.
A bordo dell’imbarcazione, Gilberto, lo skipper, Luca, rugbista e fotografo, Enrico e Matteo, giovanissimi uomini di mare, mia moglie Rebecca, organizzatrice della logistica e sino ad allora mai salita su una barca a vela e Carlo Biagioli, il cui nome, unito alla ragione sociale della sua azienda, recitava lo sponsor principale dell’impresa.
Il mare non era calmo. Non lo era allora, non lo era stato prima, non lo sarebbe stato nei giorni successivi.
La preparazione alla traversata era stata lunga e carica di difficoltà: far combaciare le ferie di tutti con la disponibilità della barca, reperire le risorse ed organizzare la cambusa, andare e tornare in un giorno e mezzo dal Portogallo per prendere un kayak adatto, dopo che il mio era andato distrutto in un sinistro stradale mentre si trovava sul tetto del furgone; raggiungere una preparazione fisica rincorsa per mesi che, nonostante alcune vicissitudini, mi aveva portato a coprire giornalmente distanze costiere di quaranta chilometri.
Tutto rischiava di essere vanificato da un mare inclemente.
L’imbarcazione scelta in Portogallo era di derivazione olimpica, la stabilità e la velocità eccellenti non davano eguali risultati in condizioni di mare mediamente mosso.
Per arrivare ad Arbe abbiamo impiegato una ventina di ore, con una sosta a Lussino per il disbrigo delle pratiche doganali ed una in un isolotto più ad est, per la pesca dei ricci.
Quelle ore navigando a vela, oltre a regalare a tutti noi splendidi momenti di mare sotto le stelle, mi facevano pensare al fatto che la stessa distanza avrei dovuto coprirla a remi.
Giunti nell’isola del nostro amato Santo dopo il tramonto, ho varato il kayak, dalla poppa del catamarano, nel mare antistante il porticciolo della città; il colpo d’occhio era strepitoso, con i campanili del centro a ricordare i quattro alberi di un veliero e, di fronte, il cielo arrossato dal sole appena calato.
Messa la prua a ovest, sud-ovest, ho cominciato a pagaiare senza foga, non prima d’aver mandato furtivamente un pensiero alla cattedrale dedicata alla Vergine Maria, perché il mare di notte, affrontato su una piccola canoa, non è posto per i senza Dio.
Abbandonata l’isola del Santo dal punto più meridionale, sono passato al largo delle famose spiagge curiosamente chiamate Padova, ulteriore legame tra me ed Arbe, dato che sono mezzo sammarinese e mezzo padovano.
Le prime ore della serata, prima del sorgere della luna, le ho passate a pagaiare nel buio totale, ma rinfrancato dalle risate provenienti dal catamarano d’appoggio, dove la compagnia si dedicava al consumo di linguine coi ricci e bottiglie di champagne.
Da Arbe a Lussino sono oltre venti miglia, trentatré chilometri circa; ci sono arrivato in piena notte, col vento ed il mare che montavano alle spalle.
Nell’attesa che aprissero gli uffici doganali, mi son riposato a bordo, per poi partire, con sole luminoso e mare più calmo, la mattina successiva; a mezzogiorno ho raggiunto la piccola isola di Susak, ultimo avamposto croato nel mare Adriatico, mentre l’equipaggio del catamarano faceva dogana a Lussino.
Una volta ricongiunto con la barca d’appoggio, intorno a mezzogiorno, ho preso il mare aperto; avevo sino ad allora pagaiato per circa sessanta chilometri. Alla costa romagnola, ne mancavano centoquaranta.
Ero molto allenato, la dieta prescrittami da Emanuel Moretti mi aiutava a tenere il giusto bilanciamento nutritivo ed i liquidi sotto controllo, il mare ed il vento messisi di bora mi spingevano ad avanzare con rapidità; ma le onde disordinate tipiche dell’Adriatico rendevano spossante il dover premere continuamente sul puntapiedi per trovare l’equilibrio.
Al tramonto, superata la metà del totale tragitto, ero molto stanco; le pause si facevano più frequenti ed il morale si andava abbassando.
Il mare non aveva mai offerto condizioni ideali in ventisei ore di navigazione a remi, ma il vento si andava calmando.
Non tutti sanno che nel mare ci sono autentiche autostrade per le grandi navi e petroliere; attraversarne una di notte con un kayak può essere un’esperienza abbastanza probante, che rende l’idea di quanto sia piccolo un uomo nel mare.
Pur esponendo, sul mio kayak, luci di poppa e di prua, infatti, per le navi di enormi dimensioni non esistono precedenze che le costringano a manovre difficoltose che necessitano enormi spazi d’acqua; è sorprendente, inoltre, il fatto che, dopo averle avvistate a grande distanza, ci mettano pochissimo tempo ad apparire vicine.
Fortunatamente, nessuna nave mi è passata tanto vicina da mettermi in pericolo, anche se ho ugualmente dovuto patirne le grandi onde, rese nere e minacciose dal buio notturno.
Dopo una sosta a bordo della barca d’appoggio, intorno alle quattro del mattino, ho dovuto rintuzzare l’attacco della peggior crisi dell’impresa; mi dolevano le spalle e non sentivo più le braccia.
Mia moglie si occupava di me durante le soste, pur soffrendo terribilmente il mal di mare, cospargendomi di pomata le ascelle ed i posti di sfregamento, vestendomi adeguatamente, somministrandomi gli integratori, preparandomi la borraccia.
Questa volta, però, sentivo di non farcela, nemmeno dopo i suoi amorevoli trattamenti.
In mio aiuto è venuta la luce dell’alba che, da che mondo è mondo, è uno dei più potenti balsami per l’anima; arrivarci, però, è stata una lunga ricerca delle ultime energie.
Piano piano, ho ripreso fiducia, lo skipper mi annunciava che il GPS della barca d’appoggio cominciava a mostrare una Rimini un po’ più vicina: ho coperto altri dieci chilometri in poco più di un’ora, sull’onda dell’entusiasmo.
Alla sera sarei certamente arrivato a Viserba, anche nella più pessimistica delle proiezioni.
….ma più del pessimismo ha potuto la tempesta di maestrale.
Col sole non ancora alto, siamo entrati nel mare bianco della burrasca.
Lo skipper mi ha subito richiamato a bordo, ma avvicinarmi al catamarano era reso pericoloso dalle alte onde che, nell’alzare e far ricadere le code della poppa, mi facevano correre il serio pericolo di venirne schiacciato; solo la bravura di Enrico, Luca e Matteo, ragazzi forti e svegli, ha permesso il mio rientro a bordo ed il salvataggio del kayak.
A quel punto non abbiam potuto far altro se non puntare la terra più vicina e rientrare.
La traversata adriatica “Sulla Rotta di Marino” era interrotta.
A Rimini mancavano trenta miglia, cinquantacinque chilometri.
Alle tre del pomeriggio, leggermente scarrocciati verso sud per assecondare i venti, il mare si è calmato ed io ho potuto concludere in kayak gli ultimi dieci chilometri.
Intorno alle 16.30 ho toccato terra al Bagno Luca n. 15 di Viserba, sede estiva del Canoa Club Rimini, la cui dirigenza ringrazio infinitamente, insieme ai fratelli Giacomo e Michele Rossi, per la festa d’arrivo: una splendida serata in allegria.
Purtroppo, al totale successo dell’impresa, mancano quarantacinque chilometri, ventiquattro miglia nautiche che il mare non mi ha voluto concedere.
Passato il tempo per recuperare energie, per riacquistare amore per la pagaia e per metabolizzare il tutto, il mio sponsor, la Carlo Biagioli S.r.l., si sta attivando per trovare un’imbarcazione adeguata che mi traini alla distanza mancante per completare la traversata.
Ogni data, dai primi di gennaio alla primavera, sarà buona; dovrei coprire il tragitto, a Dio piacendo, in meno di sei ore.
Una volta conclusa la traversata che ripercorre quella del nostro Santo fondatore, potrò pensare ad un’altra impresa, perché i mari sono tanti ed il tempo, con un atleta di quarantacinque anni, non è affatto galantuomo.
Grazie per la lettura dei contenuti di zoomma.news.
Marco Nicolini