Edwin Valero fu trovato cadavere, vittima di quello che appariva a tutti gli effetti come un suicidio, più verosimilmente aiutato nel suo proposito da qualche poliziotto, il 19 aprile dell’anno 2010 nella propria cella del commissariato di Carabobo, in cui era stato rinchiuso per l’assassinio della giovanissima moglie Jennifer Carolina.
La scia di sangue e violenza culminata con la doppia tragedia si era originata qualche settimana prima, con Valero che aveva accompagnato Jennifer all’ospedale, coperta di ecchimosi in tutto il corpo ed una costola conficcata in un polmone; entrambi dicevano che le ferite erano da addebitarsi ad una fortuita caduta dalle scale.
Medici e paramedici avevano messo in dubbio la cosa e Valero non aveva trovato meglio da fare se non picchiarli e minacciarli; fu arrestato immediatamente!
Dimessa Jennifer e rilasciato Valero, i due si erano incontrati nella hall dell’Hotel Continental, conversando tranquillamente per un paio d’ore; saliti in camera, in un ultimo amplesso furioso in cui odio e amore non trovavano bordi cui appigliarsi, Edwin aveva accoltellato l’adorata moglie, confessando subito dopo il crimine.
Due giorni dopo penzolava da una corda legata alla grata della cella.
Aveva 28 anni.
Nell’inferno di Caracas, in cui io stesso subii una violenta rapina con pistola puntata in faccia, nel 2007, la giustizia può essere sbrigativa, senza bisogno di giudici o procuratori: Jennifer era un autentico angelo del Venezuela e Valero, pur essendo stato un grande campione, non poteva passarla liscia.
In quei giorni terribili, Yoel Finol, fratello di Jennifer Carolina, non aveva nemmeno quattordici anni.
Aveva cominciato la boxe da cinque anni e tutto quel che sapeva lo aveva imparato dal cognato; come lui, era mancino.
Per temprarlo, Valero aveva iniziato Yoel agli incontri di strada, nei sobborghi tetri e pericolosi di Maracaibo, dove la vita di un uomo vale quanto il costo di un pacchetto di sigarette.
Il pugilato era già entrato nel ragazzino, quando tutto l’amore nutrito per suo cognato Edwin fu sostituito dall’odio per l’assassinio dell’amata sorella.
Una rabbia ed un senso di privazione che Yoel Finol gettò nella lotta per emergere sul ring.
Lo scorso agosto, è tornato da Rio con un bronzo olimpico, conquistato nei pesi mosca, per il suo Venezuela.
Non odia più lo zio Edwin: lo ha perdonato perché con maturità ha cercato di darsi una spiegazione di quell’insondabile violenza perpetrata alla ragazza più adorabile del mondo, che Valero amava alla follia e che era madre dei suoi figli.
Edwin era nato nel dicembre del 1981, in un poverissimo quartiere di Merida, ed il suo talento era incontrovertibile.
Un incidente con lo scooter, nel 2001, gli aveva lasciato una placca di titanio al lato del cervello; le commissioni mediche statunitensi non gli avevano mai dato il permesso di combattere negli Stati Uniti, mentre il Venezuela di Chavez lo aveva spinto a vincere per promuovere la nazione.
Se gli avversari non furono quelli di massimo richiamo, comunque, Valero fece il massimo con quelli che gli si pararono davanti: 27 incontri, 27 vittorie, 27 ko! In 19 occasioni vinse alla prima ripresa.
Il voler transigere con la follia del cervello mutilato che lo stava consumando, per preservare un simbolo venezuelano, costò però la vita ad una giovane e bellissima mamma.
…e costò pure la vita al talento di Merida, che da anni non era più lui: non sentiva dolore, non conosceva paura. …ma non aveva più la parte del cervello per riconoscerli.
Con queste premesse ai fatti che storpiarono la sua infanzia, Yoel è uscito dal tunnel del rancore.
“Edwin mi ha insegnato tutto, mi ha insegnato le basi ed a combattere come un uomo!”
“L’incidente e le droghe che prendeva lo avevano reso un’altra persona: lui non c’era più da tanto, quando uccise mia sorella”
“Dio mi ha tolto mia sorella e mio cognato: forse mi darà qualcosa in cambio in futuro”.
La maturità di Yoel, a dispetto dei soli vent’anni d’età, è straordinaria!
Vaya con Dios, giovane Finol: facci vedere quello che sarebbe potuto diventare quella testa matta di tuo cognato.
Forse ci sarà la sua ombra nei tuoi pugni di quando passerai professionista: la morte lo avrà cambiato, lasciandogli solo il meglio dell’anima, come farà per tutti noi quando verrà la nostra ora.