Nel 1935 Gorizia era una millenaria città ancora interamente italiana.
In quell’anno, mentre dall’aeroporto militare della città friulana partiva la 41ma squadriglia della Regia Aeronautica Italiana alla “conquista” dell’Etiopia, in una casa medio-borghese del centro nasceva mio padre, Fernando Nicolini.
Questa la cronaca di quel giorno, così come trascritta nei propri diari da mio nonno Luigi, suo padre:
“Alle ore 7.35 del 13 settembre nasceva Fernando a Gorizia (Viale XX Settembre, primo piano, casa della signora Natalia Zucchelli de Finetti.
(…) Pregammo tanto per la nascita prima del giorno 16, giorno in cui io mi sarei dovuto recare a Padova per esaminare i riparandi lasciando mia moglie tutta sola, e fummo esauditi per merito della Santa Vergine.
Fui svegliato da Mary alle 3,20 ed alle 4,15 ero di ritorno con l’ostetrica . Tutto andò benissimo, anche se si sperava in una femminuccia alla quale, per ricordare il nome di Maria celebratosi il giorno prima, le si sarebbe messo il nome di Miriam.
Il neonato era un bel maschietto, che pesava ben quattro chili. Alle 9 circa corse il rischio di passare un brutto guaio. L’ostetrica, che sedeva col bimbo in braccio, cadde a terra per la rottura della sedia: guai se il bimbo avesse battuto la testina sul marmo del comodino!”
La maestra elementare bellunese di nome Mary Mimiola, partoriva il suo sesto e ultimo figlio per la felicità sua e quella di Luigi, professore d’italiano emigrato dalla natia San Marino.
Poche settimane dopo la nascita di Fernando, la famigliola avrebbe compiuto il proprio itinerante percorso, dettato dal Provveditorato degli Studi italiano, stabilendosi definitivamente a Padova, dove mio nonno avrebbe insegnato fino alla pensione.
Come spesso accade agli ultimogeniti, soprattutto se arrivati con qualche anno di ritardo su fratelli e sorelle, la crescita di Fernando fu caparbia ed autonoma, fortemente improntata allo sport all’aria aperta in quel salotto di vie fluviali, prati verdi e bimbi scalzi che era la vecchia Padova.
All’ombra dei pini dell’Antonianum, dove nel 1912 un gruppo di gesuiti aveva fondato la polisportiva che sarebbe entrata nella leggenda del rugby, Fernando divenne petrarchino indossando la maglia dei tuttineri della compagine calcistica; lo fece dopo aver a lungo militato nel Brusegana, sua squadra sin dall’infanzia.
Diplomatosi al Calvi, a diciannove anni diede una doppia svolta alla propria esistenza, superando il colloquio d’ingresso con la Banca Popolare di Padova e Treviso e, stipendiato di fresco, presentandosi in pompa magna alla sede storica, quella di via Goito, della Canottieri Padova.
Da allora fu un bancario ed un uomo di remo.
Al principio, quel remo fu una pagaia.
Le prue fendenti le acque del Bacchiglione, che lo avevano rapito mentre le osservava seduto sugli argini, finirono con l’essere mosse dalla sua vogata.
Pur avendo cominciato in età non verdissima, Fernando seppe ritagliarsi la propria acqua, arrivando a vincere la Roma-Fiumicino del ’69, un autentico campionato italiano di gran fondo, e sfidando i mari e i fiumi in numerosi raid solitari.
Poco più che ventenne, qualche anno prima, si era separato dal pontile della Canottieri Padova, aveva navigato il sistema di chiuse che tutt’ora sfocia in Adriatico raggiungendo, in solitaria, la lontana Pescara. In anni di comunicazioni molto diverse a quelle tambureggianti dei nostri tempi, Fernando spediva una cartolina ad ogni sosta alla sua fidanzata Pinuccia, una giovane pallavolista con cui si conosceva sin da bambino.
Altre imprese di simil tenore erano state la Padova-Trieste e la Padova-Torino-Padova.
Il suo grande amore remiero, però, finì col cadere nel legno lavorato e finemente intarsiato delle imbarcazioni di voga alla veneta. E fu pienamente ricambiato.
Nel 1975 rispose al richiamo del suo grande amore per Venezia e per la laguna partecipando alla prima Vogalonga, una regata di una trentina di chilometri che sarà il suo feudo acquatico per oltre quaranta edizioni.
Nell’arco dei furenti anni ’80 e ’90, Fernando aveva guidato la banca, per la quale aveva cominciato a lavorare da ragazzo come impiegato, alla fusione con Antoniana, lasciando il nuovo, grande Istituto col grado di Vice Direttore Generale; invece di raccogliere il frutto di tanta esperienza con ricche consulenze, come solitamente fanno manager pensionati, si dedicò alla gratuita ed onerosa presidenza della propria amata Canottieri.
Il 25 aprile del 2003, una bimba di nome Margherita, sfuggita al controllo della madre che prendeva il sole all’interno dell’area-piscina, in quel periodo dell’anno ancora chiusa, rincorse una palla caduta nella piscina dei piccoli, infilandosi sotto il telone e morendo annegata.
Fu ritrovata a galleggiare come una bambola, gettando nella disperazione i propri poveri genitori, molti nuclei familiari e, in second’ordine, i soci della Canottieri ed il suo presidente, mio padre.
Quella povera bimba innocente di soli diciotto mesi, mise l’amaro nel sorriso di Fernando e ne scalfì il cuore.
Portò al termine il proprio mandato con la consueta applicazione ma, svuotato della gioia che aveva sempre dimostrato in ogni suo compito, continuò a trovare conforto nel silenzio del fiume e nei tempi infiniti della navigazione remiera.
La Vogalonga seguitò ad essere un appuntamento immancabile; al via della quarantesima edizione, in bacino San Marco, c’era pure, su kayak singolo, suo figlio Marco, mentre l’anno successivo arrivò pure la terza generazione, con in acqua suo nipote Filippo.
Lo scorso maggio, reduce da un’operazione a cuore aperto, al tradizionale colpo di cannone Fernando non si presentò, per la prima volta dal 1975.
Le tante ore di anestesia, un episodio cardiaco ed altri problemi lo hanno leggermente piegato, ma non ancora spezzato.
Forse, nel 2017, Fernando saprà battere quell’avversario insidioso con la tenacia dell’uomo che voga fino allo sfinimento, che con calma riempie le distanze, che quieto ascolta ciò che le acque hanno da dire a chi, per muoversi, ancora le accarezza gentilmente.