“La storia è la scienza delle cose che non si ripetono”. Così recitava Paul Valéry, morto nel 1945. Potremmo definire certamente la sua definizione ante tempus, non avendo vissuto dal vivo gli strascichi che la Seconda Guerra Mondiale si è portata dietro anche dopo la sua fine. Una fine che la nazione e il suo popolo hanno di certo omesso, evitato ed evirato, catalogando come tabù qualsiasi argomento correlato.
Che cosa accadrebbe se a un tratto si presentasse ai giorni nostri il protagonista assoluto del conflitto, l’uomo che con le sue folli ambizioni ha costruito il Terzo Reich sconvolgendo il mondo intero?
Lo ritroviamo settant’anni dopo, in un campetto di Berlino, esattamente dove tutto era finito. Stordito e incredulo, viene avvicinato da un cameraman, certo di avere di fronte un attore, un comico e lo prende a sé, facendolo diventare il protagonista indiscusso di uno show che ha un inizio sotto i riflettori di uno studio televisivo, ma che continua nelle vox populi spontanee e surreali che hanno il sapore di un confessionale.
Dalla penna di Timur Vermes alla regia di David Wnendt, Adolf Hitler è un’epifania, avvolto in una coltre di fumo, che diviene carne e ossa nella Germania dei tempi presenti. Il tema trattato, sia su carta stampata sia su pellicola cinematografica, è uno scacco matto all’omertà di una nazione, alla scabrosità di una storia che ha lasciato ombre e buchi neri nel popolo tedesco. La vera svolta, come sempre, è l’ironia con la quale il personaggio di Hitler, nelle sue fattezze, nel suo comportamento, nella sua spontaneità, è messo a confronto in una società che lo apprezza per le sue doti “attoriali”, lo schernisce e lo sfrutta per lo share, ma che tendenzialmente lo acclama come fosse una star, tra acclarati consensi e una manciata di selfie.
Tutto ciò è stato reso eccezionalmente dalla fisicità e dalle grandi capacità polimorfe di Oliver Masucci che si è ritrovato a stretto contatto non solo con attori di alto calibro, ma anche con gente comune, inconsapevole del ruolo che avrebbero assunto sul grande schermo. In questo modo il regista David Wnendt ha prodotto un film che ha il giusto mix tra satira, commedia, un po’ d’amore (che non guasta mai) e documentario, facendo anche leva sul ruolo grottesco che i media assumono, contaminando le scelte dell’individuo e di un popolo intero.
Il film prende in esame diversi temi, li affronta con audacia, li monta e li smonta concretando varie tecniche sceniche in un prodotto unico, talvolta con velature e sfumature inutili, altre volte con evidenti parossismi. In poche parole, pur avendo diversi picchi di attenzione, il prodotto finale rischia di cadere in un girato piatto, che ha l’altisonante premessa di moralizzare ironicamente gli spettatori su una storia che la Germania sa di aver dimenticato, ma le cui teorie dittatoriali potrebbero essere ancora oggi accettate, pur involontariamente, con una leggerezza che ha il sapore di una presa in giro. Fortunatamente questi sbalzi di attenzione sono ben dosati, grazie anche al “sudatissimo” montaggio finale che ha alle spalle quasi 380 ore di girato. Le tecniche di ripresa sono svariate e riescono nell’intento di specificare il carattere e l’approfondimento introspettivo dei personaggi, sotto quella grande ala del “mostro” che alberga in ognuno di noi. La fotografia, d’altro canto, è impeccabile e riesce a donarci degli ampi scorci e panorami che sembrano impressi su tela.
Nel complesso abbiamo, ai nostri occhi, una creazione scorrevole.
Il coinvolgimento effettivo da parte dello spettatore che sia lo scrittore Vermes sia il regista Wnendt volevano, ha risposta pronta con gli indici di accoglienza. Il film ha scalato le classifiche, con il più alto numero d’incassi in Germania nel 2015, mentre il libro è ormai considerato un best-seller con più due milioni di copie vendute e la traduzione in più di quaranta lingue.