domenica , Novembre 24 2024

Maurilia Grossi e l’incrocio

È l’incrocio fra Corso Napoleone e Via Dei Mille, quel punto dove le due arterie della città si congiungono in un manicomio di clacson, segnali luminosi, cartelli stradali.

Il traffico è congestionato, di giorno come di notte, i gas di scarico sono miscele esplosive, il livello delle polveri pari a quello di Città del Messico.

La siepe di Corso Napoleone, che ha ovunque un’aria malandata e sofferente, qui pare addirittura moribonda. Le foglie sarebbero gialle come i neon delle vetrine, se non ci fosse la patina di smog a mitigare il riverbero.

Maurilia Grossi vedova Calamai, di anni 81, abita in Via Peschici, una traversa di Via Dei Mille. Piccola di statura, raggrinzita come una mela rimasta troppo a lungo nel forno, ha lunghi capelli bianchi – folti, per la sua età – che porta acconciati in una crocchia. Acuta ancora di cervello e svelta di lingua, vive con un po’ di disonore l’artrite che, da qualche anno, rende i suoi passi – ma forse sarebbe meglio chiamarli passettini – incerti e caracollanti.

Ai piedi deformati e gonfi indossa dei mocassini ortopedici con strategici rinforzi e plantari, che le rendono il camminare un po’ più lieve ma di sicuro non disinvolto. E pensare che da ragazza aveva due caviglie come una ballerina, e mai sarebbe uscita di casa senza tacchi.

Maurilia Grossi odia l’incrocio maledetto, come lo hanno ribbattezzato con le amiche del Centro Sociale “Ancora Giovani”.

Lo odia per quei trentacinque secondi scarsi di verde dell’attraversamento pedonale. Cosa ci fa, lei, in trentacinque secondi? A malapena scende dal marciapiede.

Per percorrerlo fino in fondo, avrebbe bisogno, per lo meno, di un minuto e mezzo. Ma in un minuto e mezzo farebbe in tempo a morire cinque volte, con quelle auto che sfrecciano come siluri. E quel tombino lì in mezzo, poi, che sembra messo apposta per fare inciampare i vecchi.

Così ha organizzato la sua vita in modo da non dover attraversare mai. Il panificio, la farmacia, il macellaio, tutto dal suo lato della strada. Frutta e verdura se li fa portare a casa: paga poco di più e non deve neanche preoccuparsi delle scale.

Questa mattina, però, non ha proprio potuto evitarlo, l’incrocio maledetto.

Il dottore le ha detto che ci vuole l’impegnativa per l’esame e con la farmacia chiusa, le tocca andare all’ASL. Che non è lontana, per carità. Ma è proprio dall’altra parte della strada.

Così si è attrezzata. Ha messo i suoi mocassini, calzati ben bene, e si è fatta prestare dalla vicina il bastone da passeggio del marito. Se gli automobilisti vedono una vecchia con la zanetta, si dice, rallenteranno pure.

Sono dieci minuti buoni che aspetta all’incrocio. Aspetta il momento giusto, quello del “tre due uno partiti”. Davanti a lei i verdi si sono succeduti ai gialli che hanno virato nei rossi per poi tornare verdi. Non le manca la determinazione. Vuole solo essere sicura che l’attimo le sia favorevole.

All’inizio aveva sperato che qualche giovane di buon cuore si offrisse di aiutarla ad attraversare. Ma qui vanno tutti sempre così di fretta. E chiedere… chiedere no, non è da lei. Maurilia Grossi preferisce arrangiarsi.

Ecco. Ora sente che il momento è arrivato. E’ sola all’incrocio, nessuno accanto a lei, nessuno all’altro lato. Nulla che possa anche involontariamente rallentarla. Le pare che il rosso inizi a tremolare. Si sente come un’atleta ai nastri di partenza. Allo scattare del verde, come una spinta dentro sé. Il colpo sparato dallo starter.

Non è una falsa partenza. I piedi vanno veloci, quasi frenetici. Frenetici per come possono andare i piedi di Maurilia Grossi. Marcia con risoluzione. Lo sguardo fisso verso l’obiettivo. Le spalle un po’ incassate. Un pugile con la crocchia e le scarpe ortopediche che avanza verso il centro del ring. Il giallo inizia a lampeggiare, ma ormai ha quasi raggiunto la metà dell’incrocio. Le pare un segnale positivo. Da quel punto in poi le macchine saranno costrette a rallentare, non potranno che farle concludere la sua corsa.

Appoggia il primo piede sul temibile tombino. Ora il secondo. Rallenta un poco per prudenza e spezzare il ritmo le è fatale. Un rombo che erompe verso l’alto. La sensazione di un tremolio ancor più forte di quello solito della sua artrite. L’esplosione arriva imprevedibile.

La prima sensazione è di leggerezza. Maurilia Grossi continua ad alternare i piedi uno avanti all’altro, coscienziosamente, ma i suoi passi non avvertono alcun attrito. Anche la zanetta non produce più quel toc toc sull’asfalto, appena percettibile nella cacofonia del traffico, piuttosto una specie di fruscio, come di una lama che taglia l’aria. L’aria. Maurilia Grossi si guarda intorno e si accorge di fluttuare.

Quante cose si possono vedere nella frazione di un attimo. I palazzi con i loro balconi, i cornicioni scrostati, le crepe nell’intonaco e le finestre con le tende tirate. Tutto quello che di solito può sbirciare solo a naso in su, ora lo osserva ad altezza sguardo. Quattro piccioni dall’espressione ottusa girano la testa nella sua direzione. Stupidi animali sabotatori di bucati, che tentazione assestarvi un buon colpo di zanetta. Su un davanzale un geranio anoressico pare recitare le sue ultime preghiere. Le foglie sono avvizzite, lo si potrebbe anche bagnare un po’ più spesso. Da un terrazzino una bambina con le trecce e il moccio al naso la guarda spalancando gli occhi. Maurilia Grossi agita la mano sinistra per salutarla.

E’ morta? Sta andando in paradiso? Invero immaginava qualcosa di più cerimonioso. Un coro d’angeli, una grande luce, una passatoia di velluto rosso. Una cosa meno repentina che essere sparati in alto come un proiettile. D’altra parte, chi è lei per giudicare le procedure divine? Chissà se il suo Guido la sta aspettando dall’altra parte dei cancelli. Ne ha di cose da raccontargli, su questi dieci anni che è rimasta sola. E questa è sicuramente la più eccitante.

Invece l’ascesa pian piano rallenta. La forza di gravità riprende il sopravvento. Maurilia Grossi, dopo tanta aerodinamicità, sente se stessa farsi improvvisamente pesante. Qualcosa la attira verso il basso in un risucchio. La gonna di vigogna marrone le svolazza davanti al naso come in un film di Marylin. Una delle scarpe ortopediche si allontana mulinando su se stessa. Poi il nulla.

La prima cosa che le hanno portato all’ospedale le amiche del Centro Sociale, sono stati i ritagli di giornale. Quelli che parlavano di lei, naturalmente.

“Incidente nel centro storico” titola il Gazzettino. “Fuga di gas semina il panico in Via Dei Mille” scrive il Corriere. “Anziana scagliata verso l’alto, sfiorata la tragedia” puntualizza la Voce.

Le amiche si congratulano con lei. L’ha scampata bella: se non fosse piombata dritta dritta sulla tenda del verduraio, ci avrebbe rimesso le penne. Altro che cavarsela con una spalla lussata e un femore rotto. Sul femore rotto c’è poco da scherzare, ma in effetti si può considerare fortunata. In un modo o nell’altro, è riuscita ad attraversare. E poi l’esame glielo hanno fatto direttamente qui, in ospedale.

In futuro, però, meglio non correre rischi. Sarà anche una valle di lacrime, ma vista dall’alto ha il suo fascino. La prossima volta, per attraversare il maledetto incrocio prenderà un taxi.

Francesca Mairani

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