LA VIA DELLA LUCE
di Renata Rusca Zargar
Nella fresca penombra del monastero di Hemis, i monaci, accovacciati a terra, avviluppati d’estate e d’inverno nel loro saio porpora, suonano le lunghe trombe a fiato ed i damaru, piccoli tamburelli colorati. Di fronte a loro, altri monaci inspirano profondamente riempiendo, a tempo, l’addome, il torace e la gola di aria e quindi emettono, esalando, un lungo: “Aaaaaaaa…Uuuuuuuu…Mmmmmmmm”. L’incenso purifica l’ambiente e le persone, mentre le divinità dipinte su stoffa appesa alle pareti, le raffinate tangka, sembrano sorridere. L’atmosfera, che rimbomba di suoni, colma il cervello e l’anima e anche Ahmad china la testa come gli altri fedeli assorti in preghiera. Al suo fianco, i giovani studenti del monastero, copie quasi perfette dei monaci adulti, girano, a una a una, le lunghe pagine di carta di riso sulle quali sono stampate le preghiere e recitano compunti le parole di Padma Sambava:
“Nel tempo dell’ingiustizia, nell’ultimo periodo del Kaliyuga
Ogni mattina, ogni sera per la salvezza del Tibet verrò.
Verrò cavalcando la corona fatta coi raggi del sole nascente,
Ma il settimo giorno verrò sotto forma di luna crescente.”
Alla fine della funzione la gente esce lentamente dal monastero e si sparpaglia a destra e sinistra, sulle vie sterrate e aride, tra case bianche e negozi. Il giovane forestiero non può fare altro che chiedere ai passanti dove poter trovare un alloggio a basso prezzo. Nella sua tasca non vi sono che poche rupie, rimanenza della somma donatagli da alcuni benefattori per pagare il funerale del suo amico Vyas.
Ahmad era il terzo di cinque fratelli e, fin dall’adolescenza, aveva intrapreso un florido commercio: ogni mattina portava con il suo carrettino la frutta fresca alla stazione e, durante la giornata, la vendeva ai viaggiatori che, sui lunghi treni fumanti transitavano di là. Lucknow era, infatti, una grande città e un nodo di passaggio tra molte direzioni per cui parecchie vetture, trainate dalle nere locomotive a carbone, entravano nella stazione e si fermavano abbastanza a lungo da permettere ai viaggiatori di scendere a rifocillarsi e a fare provviste. Da oltre cento anni, la ferrovia univa anche i più sperduti villaggi indiani, il mostro “mangia fuoco”, che dapprima spaventava la gente che non aveva mai visto nulla di simile, si era moltiplicato tanto da produrre più di 2000 convogli al giorno che si spostavano sulle rotaie un po’ dappertutto. Molte delle locomotive a vapore erano state quindi sostituite da treni ad alta velocità, mentre il miliardo e trecento milioni di indiani, quasi piccole formichine dentro e fuori il formicaio, affollava i vagoni e le stazioni del Paese. Ecco perché gli affari di Ahmad andavano molto bene e più volte, durante il giorno, egli tornava nel magazzino a ricaricare la frutta che via via aveva esaurito.
Ahmad non si era ancora sposato perché, insieme ai suoi fratelli, aveva pensato prima a sistemare adeguatamente le tre sorelle, come si conviene in ogni rispettabile famiglia musulmana, assicurando loro dei mariti che fossero in grado di farle vivere abbastanza agiatamente. Questo aveva richiesto anni di sacrifici per accumulare la dote e per comprare i costosi regali in oro che dovevano essere offerti alla famiglia dei futuri mariti, durante le molte occasioni festive. Poi, i
fratelli più grandi avevano portato a casa la loro sposa e ormai, senza dubbio, toccava a lui.
D’altra parte Ahmad aveva già ventotto anni e i dettami del Corano, prescrivendo che tutti debbano prendere moglie e nessuno rimanga solo, lo facevano sentire ormai a disagio. Quando il venerdì, durante la preghiera, si affiancava, spalla contro spalla, ai suoi conoscenti alla moschea, coglieva sguardi curiosi e frammenti di discorsi:
-Allora, Nazir, finalmente ti è nato un figlio.
-Sì, – continuava un altro- Allah ha benedetto la sua casa ed era tempo!
-Certo,-rispondeva il Nazir interpellato- ormai ho venticinque anni ed è giusto che anch’io inizi una numerosa famiglia…
– Bismelah rahmani rahim- le parole della preghiera interrompevano la conversazione dei fedeli ma non i pensieri di Ahmad, anche se sapeva che sua madre si stava interessando, attraverso un intermediario, per esaminare eventuali ragazze che potessero essere adatte per lui. Qualche volta, la sera, l’uomo veniva a casa con fotografie di giovani fanciulle delle quali vantava la dote e le qualità. In quei momenti, Ahmad abbandonava la stanza perché non toccava a lui scegliere la sua sposa. Rimanevano, invece, i suoi fratelli più anziani e la più vecchia delle sue cognate, Shugufta. Durante il giorno successivo, poi, Shugufta riferiva tutto quanto alle altre cognate mentre, insieme, preparavano il riso e le verdure per il pranzo.
-Sapete, -spiegava- la famiglia di Taslima sarebbe favorevole a dargliela in sposa. Porterebbe in dote un grande magazzino dove Ahmad potrebbe accumulare la merce e ingrandire il suo commercio. A me, però, -aggiungeva sussurrando- non piace. Preferisco Shamima anche se porterebbe meno denaro. Quando la incontro alla moschea, i suoi occhi e il suo sorriso mi incantano e credo che anche lei sarebbe contenta di venire a vivere qui…-
Le chiacchiere erano interrotte, ogni volta, dall’ingresso della madre che non amava i pettegolezzi e non aveva ancora informato il figlio delle varie offerte, desiderosa com’era di trovare per lui il partito migliore.
Quindi, il giovane si sentiva tranquillo: -Avrò presto moglie,- pensava- dei figli miei, tornerò a casa la sera e tutti insieme mi accoglieranno. La mia sposa non dovrà mai soffrire la fame come ha patito mia madre quando noi eravamo piccoli! Né dovrà essere maltrattata in casa: decideremo insieme ogni cosa e non la lascerò mai sola.-
Qualche volta, però, dubitava che fosse soltanto quello il vero scopo della vita: lavorare, tornare a casa, mangiare, dormire…
Una mattina, il sole era ancora basso sull’orizzonte e il convoglio nero e polveroso di carbone stava entrando come il solito in stazione, un saniasi, cioè un monaco dalla lunga tunica arancione e dalla bianca barba incolta, gli si era avvicinato. Nel chiedergli, come sempre succedeva, un contributo che gli permettesse di condurre una vita da pellegrino glorificando Dio e avvicinandosi alla fine della catena delle incarnazioni, il saniasi l’aveva guardato a lungo, quasi a leggergli dentro, e gli aveva raccontato:
-C’era una volta un maharaja. Nel suo enorme palazzo si trovavano centinaia di stanze che ospitavano nobili persone affaccendate tutto il giorno ad abbigliarsi, chiacchierare e partecipare a feste e banchetti. Il principe, però, non si trovava più a suo agio e un giorno, varcati i cancelli del suo enorme giardino, si era avviato per una delle molte strade che si diramavano verso la campagna. Cammina cammina, il paesaggio si stendeva rigoglioso a perdita d’occhio, interrotto qua e là da arbusti ricoperti di fiori. L’orizzonte verde si univa, in fondo, alla sterminata profondità del
cielo solcato solo da qualche lembo arricciato di nubi. Egli sapeva di dover procedere su quel sentiero polveroso mentre i suoi abiti di raffinate sete e broccati erano divenuti ormai falde di stracci scoloriti dal sole. A tratti, incontrava villaggi le cui casupole dal tetto di lamiera o di paglia si affacciavano ai lati dell’unica via. Ai loro abitanti, poveri contadini, egli doveva chiedere una tazza di riso in elemosina e un giaciglio di paglia. Dopo mesi e mesi di cammino, mentre la terra intorno si era fatta brulla e desertica, era arrivato alla famosa Città Rosa. Elefanti e cammelli animavano il traffico, trascinando i loro carichi di uomini e di merci ed egli avrebbe potuto, finalmente, chiedere ospitalità al famoso Maharajah che viveva nel Palazzo del Vento. Il suo pellegrinaggio si sarebbe concluso e la vita sarebbe ritornata splendida come una volta: cibi e abiti raffinati in compagnia di persone del suo rango. Ma, proprio mentre si introduceva nel portone e stava per presentarsi alle guardie, una strana certezza aveva colpito la sua mente. Voltandosi, aveva ripreso la strada che conduceva fuori dell’abitato e si era avviato là, dove gli Dei e l’uomo s’incontrano: sul sentiero polveroso, nel silenzio, raccogliendo una ciotola di riso dalle mani di chi non ha nulla dalla vita. Sali su questo treno – aveva concluso l’uomo- e troverai quello che cerchi.-
La locomotiva gettava gonfi sbuffi di vapore bianco ed emetteva il suo fischio, mentre le ruote stavano ricominciando lentamente a girare.
Ahmad volgeva, incerto, lo sguardo dai vagoni al suo carrettino di frutta; il monaco, imperturbabile, aveva già preso posto in una delle carrozze come se tra di loro non ci fosse stato nulla in sospeso. Ma quello sguardo dolce e fermo ardeva ormai dentro di lui. Buona parte degli altri viaggiatori erano risaliti velocemente sul mezzo, anche se molti si aggrappavano ancora alle porte o alle sbarre dei finestrini, incuranti dell’andatura del convoglio che si faceva più sostenuta, quasi come api operose che ronzano posandosi all’esterno dell’alveare.
Un giorno, adesso gli tornava alla mente, quando egli aveva circa dieci anni, un darwesh, un uomo che viveva solo in una grotta in aperta campagna pregando e meditando, era giunto alla loro abitazione per incontrare suo padre Mohiudin. Guardando il bambino intensamente, il santone, dalla lunghissima barba e capelli bianchi, aveva predetto per lui un cammino spirituale intenso:
– Questo ragazzo-aveva spiegato al padre- potrà condurre molte altre persone sulla via della luce, potrà insegnare la rotta a chi è confuso perché Dio è con lui. Saprà sempre come guadagnarsi la simpatia e l’appoggio degli altri e il suo ruolo non sarà comune.-
Ahmad non aveva mai dimenticato l’espressione di quegli occhi anche se, dopo pochi anni, sia il guru che suo padre avevano lasciato la vita terrena e lui era stato assorbito soprattutto dalle responsabilità familiari.
Ma ora gli sembrava di aver ritrovato quello sguardo…
Dunque, proprio all’ultimo istante, Ahmad si era afferrato a una maniglia chiamando a gran voce uno di quei ragazzetti che si trovano dappertutto nelle strade, alla ricerca di qualche piccolo lavoretto da fare. Porgendogli qualche rupia, mentre la velocità del treno aumentava ancora, – In fretta! – gli aveva gridato – riporta il carrettino a mia madre, avvisala che parto, ma tornerò presto!-
“Fra i credenti, quelli che saranno rimasti nelle loro case, senza esporsi a pericoli, non verranno considerati eguali a quelli che, invece, avranno combattuto nella via di Dio, con le loro sostanze e la loro vita… Dio accorderà ai combattenti, a preferenza di quelli che rimasero nelle proprie case, una mercede insigne…” Corano, Sura IV , v.97.
Capitolo II
Ecco, dunque, l’aveva fatto: era diventato un combattente anche lui, così come predicava il Corano: aveva messo a rischio la sua intera vita per trovare… che cosa? Non lo sapeva, ma, certo, in cuor suo, da anni, aspettava un segno diverso e migliore…
Per un lungo periodo aveva seguito il saniasi Vyas Giri Gi per le strade che si snodavano polverose e accidentate sotto i loro sandali. Ovunque le vacche riposavano tranquille in mezzo al traffico, mentre la gente, anche quelli che morivano di fame, non osava toccarle. La casa di un santo è l’India ed egli viaggia vivendo di ciò che gli altri gli offrono. “Chi non ha un guru non può trovare Dio”, si diceva.
Ahmad non aveva paura perché affrontava un percorso deciso non da lui ma dal destino e sentiva un grande bisogno di pregare per comprendere il vero senso della realtà.
-L’uomo può essere matto ma non il suo spirito!- pronunciava lentamente il maestro. -Devi avere fiducia e non porti troppe domande: non a tutto la mente dell’uomo può trovare spiegazione. Qualcosa succede, che era nel tuo destino, e ti conduce lontano da ciò che tu pensavi. Vedi, io ero un proprietario terriero: molte persone faticavano nei miei campi e il denaro non mi mancava. Ogni giorno, attraversavo le mie terre e incontravo i contadini, gente pelle e ossa, che si trascinavano lungo le zolle ad arare, seminare, sarchiare. Incontravo le donne chine a terra a raccogliere le spighe di riso, o i bambini a tagliare l’erba e a raccogliere la frutta… Non m’importava di loro e della loro fatica, non mi interessava se guadagnavano abbastanza per vivere. Quando qualcuno moriva, inviavo un cesto di cibi alla famiglia e mi sentivo in pace. Poi, un giorno, Dio ha voluto provare il mio coraggio: mio figlio, il più docile dei miei figli, si è ammalato. Non c’è stato medico in grado di salvarlo! Se n’è andato dolcemente, così come aveva vissuto. E io mi sono chiesto molte volte come potevo continuare a calpestare la terra! Da allora ho lasciato tutto e attraverso il mio paese vivendo di elemosina, per comprendere il senso della vita. Non sono più un proprietario terriero e non possiedo nulla, se non la mia anima.-
Dopo alcuni mesi di spostamenti, quasi tutti a piedi, erano giunti a Delhi. Vyas non aveva intenzione di fermarsi molto in città perché la sua meta era il monastero di Hemis, nel Ladakh, dove avrebbe potuto parlare con un grande saggio buddista, il lama Rimpoche. Ma per quei pochi giorni erano stati ospiti di Ram che viveva, con la moglie e i sei figli nel portone di un palazzo nella parte vecchia della città.
-Venite pure,- aveva detto loro Ram gioiosamente, indicando una stanzetta che aveva ricavato dall’androne -Qui c’è tutto: frigorifero, televisore e videoregistratore. Alla sera, poi, stendiamo alcuni materassi in terra e dormiamo. Vedrete, ci sarà posto anche per voi. Piano piano – asseriva soddisfatto -sto risparmiando per costruire la mia casa. Gli affari vanno bene: compro e vendo batik e ho trovato molti clienti tra i commercianti che si spostano da un luogo all’altro dell’India. Mia moglie mi ha dato, grazie a Dio, già sei bambini e posso mandarli a scuola. – Intanto, la televisione diffondeva musiche da film animate da bellissime danzatrici riccamente abbigliate e le figlie di Ram accennavano le mosse e gli atteggiamenti delle danze…
“Tutti i bambini in India- pensava Ahmad- sognano di diventare ballerini e cantanti, di avere bei vestiti, trucchi, gioielli… Poi, la vita li riconduce al dovere.”
Anche sua sorella Rubina, da ragazzina, girava per la casa provando i passi di
danza di una famosa canzone. Spesso si ravvolgeva in scialli e dupata colorati e modulava lietamente qualche parola: -Kadam kadam badahie gia khushi ke geet gayei gia; cammina avanti, piede dopo piede, cantando una canzone di gioia… – Egli sorrideva alle immagini dei suoi pensieri: Rubie era ormai mamma di due bambini piccoli e ancora canticchiava per farli dormire! Ma Munni, la figlia più grande di Ram, andava davvero due volte la settimana a prendere lezioni di danza, un vero lusso!
La mattina, Vyas, Ahmad e Ram uscivano presto dal portone, ognuno per seguire i suoi impegni.
Il traffico di Delhi, intenso e rumoroso, non aveva stupito Ahmad: i vari tipi di veicoli su ruote, dai risciò a pedali, fino agli enormi camion carichi di mercanzie che avanzavano in fretta superando semafori rossi, gialli e verdi indifferentemente e suonando rumorosamente i clacson, riportavano la sua memoria alla città che aveva sempre abitato.
-Sono sfinito,-gli diceva uno dei fornitori quando arrivava al magazzino sul suo grande mezzo proveniente dal sud carico di frutti di papaya, mango, arance succose e dolcissime -ma facciamo presto a scaricare perché devo ripartire. Se non torno entro domani, il padrone mi diminuirà il salario!-
Così Singh ripartiva dopo poche ore, riprendendo la faticosa strada verso il sud. I fumi dei tubi di scappamento rendevano l’aria bianco-opaca, quasi una spessa nube di nebbia mattutina a coprire la confusione del paesaggio.
“Delhi- spiegava, anni addietro, il libro di scuola di Ahmad- è la città più bella e più pulita dell’India sin dai tempi dell’impero Moghul, fino ad arrivare ai giorni nostri.” Ora però i quindici milioni di abitanti, di cui molti provenienti dal circondario e dai villaggi alla ricerca di un lavoro, gremivano vie nuove e vecchie. Le baracche si stendevano in diverse zone e molti bambini spesso erano intenti a raccogliere i rifiuti accumulatisi nelle strade.
Qualche volta, così come era ancora molto comune nelle grandi città dell’India, uno degli uomini che svolgeva servizio di taxi con il carrettino tirato da una bicicletta, offriva loro un passaggio. Tutti, infatti, rispettavano un guru e, quando potevano, lo aiutavano garantendosi minori sofferenze nella prossima incarnazione.
-Grazie, fratello,- gli spiegava allora Vyas – vedrai che sarai ricompensato della tua gentilezza. Un giorno, i diavoli volevano uccidere Khrisna per conquistare tutto l’universo. Ma non ci sono armi capaci di eliminare un Dio e nel mondo c’è ancora tanta bontà.- A tratti, quando la carreggiata era troppo impervia e il carico umano diventava troppo pesante, l’autista smetteva di pedalare e conduceva a mano il suo risciò, trascinando sia il carro che le persone. Quando si tergeva il sudore della fronte con uno straccio, Vyas gli ricordava che quando sarebbe tornato al mondo, avrebbe avuto anni più semplici:
– Oggi se devi faticare tanto è perché devi scontare tutto ciò che hai sbagliato in una vita precedente. Il tuo karma conosce ogni cosa del passato e del futuro: nella catena delle incarnazioni nulla avviene a caso, ma ogni evento è conseguenza dei fatti precedenti. Se oggi fai qualcosa di buono sarai ripagato nella prossima incarnazione.-
Anche i tori, così come le mucche, attraversavano pacificamente la carreggiata o sedevano tranquillamente persino nelle zone più animate: gli automezzi li evitavano perché gli animali, cari alle divinità, avevano, comunque, sempre la precedenza. E, qualche volta, nella luce verde del semaforo, nel caos di ogni tipo di automezzi e folle di pedoni tra le quali era difficile anche solo muovere i piedi, si poteva leggere la scritta: -Relax.-
Spostandosi tra i templi e i luoghi sacri della città, né Ahmad né il suo maestro si erano però fermati a curiosare nelle vie dello shopping dove, a fianco delle eleganti vetrine, convivevano centinaia e centinaia di bancarelle che offrivano ogni articolo: scarpe, mutande, giocattoli, tessuti, vestiti… Chi non poteva neppure disporre di un banco o di un tavolo, teneva tra le braccia la merce mostrandola, pezzo per pezzo, ai probabili acquirenti. Nessuno, però, tentava di vendere nulla ai due viandanti, ben sapendo che sarebbe stato tempo sprecato.
Ma, qualche volta, i venditori interrompevano i loro affari per ascoltare una delle meravigliose storie che il monaco raccontava: -Un tempo lontano lontano, c’era una terribile guerra tra gli Dei e i Diavoli. La lotta era crudele e disperata perché chi avrebbe vinto avrebbe posseduto l’intero Universo. Se il predominio fosse toccato ai Diavoli, tutto sarebbe precipitato nel caos del male e del dolore senza speranza. I combattimenti invadevano tutto il creato distruggendo ogni cosa. Sulla Terra regnava un potentissimo sovrano: l’imperatore Muchkund. Egli possedeva ogni ricchezza, aveva mogli e figli, sontuosi palazzi e sudditi fedeli. Però aveva lasciato ogni cosa per correre in aiuto degli Dei. Sul suo carro di guerra aveva inseguito attraverso ogni dove, in ogni spazio, alto o basso, i più crudeli Diavoli. Il suo arco sapeva distruggere frotte di nemici e neutralizzare le loro armi. Quando scoccava una freccia, lassù, nel cielo, nugoli di altre frecce venivano disintegrate mentre i Diavoli cadevano vinti in gran numero. Su e giù attraverso aria e terre, infine, il suo aiuto aveva permesso agli Dei di sgominare i cattivi. Allora, Muchkund era comparso al cospetto degli Dei. “Chiedi quello che vuoi, ti daremo un grande premio per ciò che hai fatto.” gli aveva detto il Dio Indra. “Non ho bisogno di nulla,” aveva risposto il sovrano “ho già tutto quello che desidero. Ringrazio tutti gli Dei, ma mi basta di tornare al mio palazzo, rivedere i miei figli e le mie mogli, vivere con i miei fedeli sudditi.”
“Ciò è impossibile,” aveva chiarito Indra “non c’è più nessuno per te, in terra. Tu sei stato un anno a combattere per noi. Ma sulla Terra, un nostro anno è un’era. La marcia del tempo è continuata inesorabile e tutto quello che hai lasciato è finito. Solo Dio è imperituro.” A queste parole Muchkund aveva perso le forze. “Va bene,” aveva concluso “allora desidero come premio solamente di potermi riposare e dormire. Voglio solo dormire.” Indra lo aveva accontentato. Sulla terra, in una grotta nascosta agli occhi di tutti, Muchkund avrebbe riposato e se qualcuno lo avesse disturbato avrebbe dovuto essere incenerito dai suoi occhi. Era la volontà degli Dei. Molti secoli erano passati. Muchkund dormiva tranquillo nell’antro buio dove mai nessuno osava avventurarsi. Un giorno, tanto tempo dopo, il grande generale Kalyavan che inseguiva per monti e valli il Dio Khrisna allo scopo di ucciderlo, era penetrato nella grotta e, credendo di colpire Khrisna, l’aveva svegliato! Kalyavan, per dono degli Dei, era invulnerabile, cioè non avrebbe mai potuto essere colpito da un’arma. Era arso vivo, però, colpito dalle fiamme degli occhi di Muchkund! Per gratitudine, di nuovo, un Dio, Khrisna, chiedeva ora a Muchkund che dono volesse per avergli salvato la vita. “Una volta,” aveva risposto il re “desideravo incarnarmi di nuovo in un imperatore, possedere mogli, figli, ricchezze… Ormai non desidero più queste cose, ma solo essere tuo fedele, Shri Khrisna e servirti.” Sorridendo, nella sua dolcezza, il Dio gli aveva concesso il premio definitivo: “Nelle tue vite hai ucciso molte persone. Devi, dunque, espiare. Vai, solo, sulla montagna, a pregare e vivere di elemosina come tutti i nostri santi. Lassù troverai i sacri fiori della meditazione e questo sarà la conclusione delle sofferenze terrene perché, finalmente, hai saputo distaccarti dal desiderio di possesso materiale.”-
I due pellegrini avevano poi visitato il tempio indù più grande e moderno della metropoli e assistito alle preghiere. “Chi è calmo e sereno nel suo cuore si rechi nel luogo del sacrificio. Questo luogo si trova dovunque il cuore è pieno di pace e di serenità ed è pronto a compenetrarsi con il Signore supremo. Solo così, e non altrimenti, può essere descritto il luogo del sacrificio.” sentenziava il filosofo Abhinavagupta.
Ahmad, inoltre, aveva fatto una breve visita alla moschea gremita di credenti. Intorno allo splendido edificio, tra vicoli scuri e chiassosi, la gente e i topi si accalcavano in un fermento di vita continuo. Di fronte, due ristoranti all’aperto accoglievano frotte di mendicanti in fila, in attesa che qualche fedele pagasse almeno 50 rupie per il loro pasto. Come tutti i poveri, anch’egli si era ordinatamente inserito. Quando qualcuno faceva l’offerta, la prima riga di uomini si avvicinava e si sedeva ben disposta per terra per consumare il pasto, mentre gli altri rimanevano fuori ad aspettare la successiva donazione. Così, vestiti di stracci, sporchi, seduti uno accanto all’altro, gli uomini e i ragazzi si scambiavano informazioni: -Nel quartiere c’è un uomo che dà lavoro. Si tratta di caricare secchi di terra per la costruzione di una casa.- La mattina dopo, il capomastro avrebbe avuto decine di richieste per una lunga giornata di fatica a scaricare pietre, mattoni, sabbia.
Non lontano, sui marciapiedi, c’era chi viveva per la strada: le donne avevano raccolto su di uno straccio allargato a terra tutto quanto possedevano e conducevano così la loro esistenza, insieme a mariti e figli. Al mattino, tutti usavano i grossi bocchettoni dell’acqua, presenti un po’ dappertutto nelle vie, per lavarsi. Allora si insaponavano con energia i capelli, il corpo, e il misero straccio che li ricopriva, spesso l’unico posseduto, risciacquandosi poi al getto dell’acqua corrente.
Ma nel portone di Ram, in un angolo tra due muri chiusi da una vecchia porta di legno, c’era il bagno: un foro nel pavimento che andava a sboccare in un canaletto che raggiungeva e costeggiava il marciapiede, raccogliendo gli scarichi dei palazzi. Là dentro, quindi, si poteva, con un grande secchio d’acqua, lavarsi comodamente.
Capitolo III
Dopo diversi giorni, finalmente, una persona generosa aveva pagato loro il viaggio in autobus per Hardwar: un piccolo villaggio a circa duecentocinquanta chilometri da Delhi.
Al loro arrivo, poi, avevano subito trovato asilo in una stanzetta modesta ma pulita.
Ad Hardwar, la mattina presto, tutti i pellegrini, sani o ammalati e mutilati, giunti là da ogni località dell’India, facevano le loro abluzioni nel sacro fiume Gange che attraversava pacificamente l’abitato. C’era chi si bagnava vestito e chi lavava i propri indumenti, chi lasciava alle acque barchette di foglie e fiori che avrebbero portato direttamente le richieste degli uomini agli Dei. Immergersi nelle sacre acque del Gange, infatti, alleviava la catena delle incarnazioni anche se il sollievo totale era solo per chi, morendo, avrebbe avuto le sue ceneri disperse tra le onde. Ma molti raccoglievano in bottiglia l’acqua per poterla avere a casa, nel momento finale della vita. Allora, un sorso, avrebbe reso il passaggio più semplice.
Tutto intorno, tra la folla, alcuni ragazzi tenevano chiusi, nei loro cestini, serpenti cobra e pitoni e li mostravano, in cambio di poche rupie, specialmente ai
turisti non indiani che amavano farsi fotografare con l’animale arrotolato intorno al collo! Poi, tutti insieme, fedeli e turisti, imboccavano la lunga scalinata che portava al tempio, fiancheggiata da lebbrosi che vivevano di elemosina e da simpatiche scimmiette. Lassù, offrivano agli Dei riso soffiato, cocco, fiori e decorazioni colorate. Il sacerdote, dopo la preghiera, dispensava a tutti dell’acqua santa da bere e spalmava la cenere sulla fronte. -È semplice vivere pensando in alto.- affermava e il ritmo incalzante delle preghiere recitate in coro ad alta voce sembrava fargli eco. Alla fine delle celebrazioni, la teleferica aveva riportato i due pellegrini in paese, mentre la sera scendeva sulle acque sacre del Gange e lumini votivi scivolavano leggeri sulle onde verso la volontà di Dio.
“Capiti quel che deve.” pensava Ahmad che seguiva l’insegnamento di Vyas.
Era estate, periodo in cui si celebra, tra l’altro, la festa del Dio Shiva (il distruttore, uno degli Dei più importanti nella religione indù). In paese, molti fedeli indossavano la tunica arancione, lo stesso abbigliamento di Vyas e Ahmad si chiedeva come mai fossero così numerosi.
-Namasté. Veniamo da Delhi,-gli aveva spiegato allora uno di quei pellegrini- per raccogliere l’acqua santa che servirà alle celebrazioni in onore di Shiva. Siamo tutti operai, commercianti, artigiani… Per qualche tempo, abbiamo lasciato il nostro lavoro per onorare Dio. In sette giorni dobbiamo andare e tornare, altrimenti, se non arriviamo in tempo, il viaggio sarà stato inutile. Tre giorni sono ormai conclusi dalla nostra partenza dalla città così stiamo caricando, su questi lunghi bastoni adornati di bandierine colorate, i contenitori dell’acqua sacra. Oggi stesso ci rimetteremo in cammino a piedi per raggiungere nuovamente Delhi ed adorare Shiva.
-Come riuscirete ad arrivare in tempo se non avete cibo, provviste, luoghi dove riposare?
-Non è così: grazie a Dio, lungo il percorso sono state montate delle grandi tende dove potremo mangiare e dormire un poco. Sia fatta la volontà di Dio. Arrivederci.-
La mattina dopo, lasciata la cittadina sacra, il lungo camminare di Vyas e Ahmad per le strade era ripreso: qualche volta una jeep o un camion dava loro un passaggio, ma spesso procedevano a piedi, senza fretta né angoscia, come se tutto il tempo del mondo fosse nelle loro mani.
-Con l’acqua si lavano le vesti,- ripeteva Vyas- la mente si lava con la verità e con l’innocenza l’anima; l’intelletto si lava con la conoscenza.-
I canti religiosi si snocciolavano dalle loro labbra come grani di un rosario: Ahmad aveva imparato le lunghe preghiere indù e spesso Vyas recitava le sue.
– Lo so,- gli diceva l’anziano maestro -che ancora ti tormenti per comprendere la ragione del viaggio. Ma non si può sapere tutto! Non c’è sempre qualcosa da dire, una ragione chiara da esporre. Molto resta ignoto e si cammina accettando che qualcosa di più grande ci attenda.-
Capitolo IV
Nell’ultimo tratto verso Srinagar, qualcuno aveva di nuovo pagato loro il biglietto dell’autobus e i 239 Km. da Jammu a Srinagar erano scivolati via in sole 12 ore. Dai finestrini della corriera, Ahmad poteva scorgere il fondo delle gole con le acque del fiume e i campi ordinati delle risaie. Le capanne di terra o di lamiera si raggruppavano insieme, miseri villaggi, dove baracche all’aperto offrivano ai viandanti un piatto di riso e una tazza di tè. Poco prima della città sorgeva una piccola moschea dalle molte cupole: diversi passeggeri avevano lanciato qualche rupia e una preghiera dai finestrini mentre l’autobus procedeva senza fermarsi. Poi, finalmente Srinagar: un compagno di viaggio, Manzur Pala, li aveva invitati in una casa-barca sul lago, proprio di fronte alle possenti vette dell’Himalaya.
-Sarete miei ospiti per tutto il tempo che vorrete! Noi sappiamo che è necessario aiutare chi ha bisogno. Oggi, poi, mi aspettano, hanno appreso che tornerò a casa e avranno preparato molte leccornie. Sono lieto di poterle dividere con voi.-
Appena arrivati nella sua casa, una modesta imbarcazione ormeggiata sul lago fornita di stanze da letto e da un grande soggiorno dove tutti usavano riunirsi insieme, era stata loro servita la cena. Enormi piatti stracolmi di riso, sui quali si aggiungevano le verdure cotte e accomodate in varie maniere e, soprattutto, la carne di pollo e agnello, cotta con spezie e aromi o yogurt, erano stati posati sui tappeti. Alla mensa c’era anche un povero e anziano viandante che si trovava spesso a passare di là e sempre veniva ospitato come un familiare. Anzi, alla fine del pasto, l’uomo, proveniente da uno sperduto villaggio tra le cime dei monti, aveva danzato un ballo tipico della sua gente e tutti gli avevano battuto le mani in coro. Non era mancato neppure il kebab (salsicciotto di agnello) e la guashtaba (polpettina di carni) proprio perché la famiglia aveva preparato un pranzo speciale in attesa del ritorno di Pala da Jammu. Spesso un ospite, un viaggio o una festa erano occasioni buone per mangiare e fare quattro chiacchiere seduti a terra intorno alla tovaglia, con le schiene appoggiate a pesanti cuscini. I discorsi si susseguivano accesi mentre Ahmad ascoltava in silenzio: non sapeva ancora perché avesse lasciato la sua famiglia e perché si trovasse là, sul lago, anche se ogni esperienza cresceva silenziosa dentro di lui…
-Una volta,- raccontava Vyas che sapeva ogni cosa – al posto della Valle del Kashmir c’era un grande lago circondato da montagne dove viveva un enorme mostro divoratore di tutti quelli che capitavano da quelle parti. Un Dio giunse allora in forma di uccello e, staccata una cima con il becco, con quella schiacciò il mostro. Là dov’era la montagna, si formò la valle del Kashmir e ben presto gli uomini si recarono ad abitarla, cosicché prese il nome da uno dei suoi re, Kassiap Reshi.-
Infine, il padre di Manzur Pala aveva preso la parola:
-Tanto tempo fa, questo paese era così ricco di ogni ben di Dio che alla gente non mancava nulla. Qui a Srinagar, che anche allora era la città più importante, i monti, che sembravano quasi toccare il cielo, si specchiavano nelle acque verdi azzurre del lago Dal mentre nei campi, i contadini potevano raccogliere a piene mani i frutti del loro lavoro. In autunno, poi, il paesaggio era ritoccato dalle corolle gialle dei kong posh, fiori dello zafferano, che i mercanti vendevano un po’ dappertutto, a est e a ovest. Naturalmente, il maharaja viveva in una reggia sontuosa e i suoi nobili passi si smorzavano sui tappeti, provenienti dalle grandi città della Persia, che ricoprivano i pavimenti così come tutti gli oggetti che lui usava erano adornati di zaffiri locali. Sembrava, dunque, che nel Kashmir, così si chiamava già lo stato, tutti fossero felici. Un anno, però, ci fu una terribile carestia. La terra non riusciva più a dare i suoi abbondanti prodotti come una volta, le pecore non trovavano più neppure un filo d’erba e tutta la popolazione soffriva la fame. Il maharaja decise allora di diventare pellegrino e di percorrere le strade del mondo. Si ricordò di aver intrattenuto, in altre circostanze, affari commerciali con la Persia e decise di raggiungere sul suo fedele cavallo, proprio quel paese. Là le città erano molto animate e, dalle cupole delle moschee, il muezzin lanciava ai fedeli il suo richiamo cantilenante: “Allah u Akbar, Allah u Akbar, Dio è grande!” Il califfo lo aveva ricevuto con grande affetto e aveva ascoltato seriamente i problemi dei suoi sudditi.
Quando il maharajah era ripartito non era solo, portava con sé esperti artigiani che avrebbero insegnato ai Kashmiri a lavorare la lana e la seta e a produrre soffici e delicati tappeti che avrebbero garantito occupazione e ricchezza per molti secoli a venire. E avevano insegnato anche a pregare Dio. Chi viaggia qui nel Kashmir, e voi pellegrini potrete vederlo, trova, infatti, bellissime moschee e un popolo che, memore di un insegnamento ricevuto, trascorre ore e ore al telaio per creare, secondo la volontà di Dio, ammalianti tappeti mentre nel suo cuore innalza una preghiera ad Allah, il Misericordioso. Bismillahir rahmanir rahim, alhamdu lillahi rabbil alamin, nel nome di Dio, tanto misericordioso, totalmente misericordioso, lode a Dio, Signore dei mondi, tanto misericordioso, totalmente misericordioso!-
I giorni passavano velocemente: il cibo era abbondante e vario e, all’alba, era solo il canto degli uccelli a sollecitare la preghiera. Più tardi, quando tutti erano svegli e il fervore dei mestieri aveva inizio, si potevano ascoltare le voci dei venditori di frutta e verdura che combinavano gli affari sulle shikara, piccole imbarcazioni dove era ammassata la loro merce, il vocio dei bambini che sguazzavano nell’acqua e il chiacchierio delle donne intente a lavare gli indumenti nel lago. Gli orti galleggianti, le piantagioni di ninfee, i giardini splendidamente decorati da ogni tipo di fiori, le cime più alte della catena dell’Himalaya: non si poteva dubitare che Dio fosse più vicino agli uomini lassù, nella Valle dell’Eden!
-Allah-u-Akbar, Allah-u-Akbar!- Il cantilenante richiamo del muezzin all’ora della preghiera interrompeva affari condotti con lunghe contrattazioni dove la vera soddisfazione era, appunto, nel discutere il prezzo.
A Srinagar, in attesa del tempo propizio per l’ultima fase del viaggio, si erano fermati due mesi. Molti erano i luoghi sacri così, camminando nella grande città, Ahmad aveva pregato con la fronte a terra nella grande moschea Jam-e-Masjid, quasi tutta in legno, attorniata anch’essa da bancarelle zeppe di ogni tipo di mercanzia e da negozi dove gli affari fervevano in ogni momento della giornata.
-Ti prego, Dio, fammi comprendere il senso della vita: il lavoro, la famiglia, gli affari e poi… Che mi attenderà poi? Ed è abbastanza la casa, il lavoro, la famiglia? O, forse, c’è altro in attesa della morte? Mia madre mi sceglierà una sposa. Mi capirà, sarà capace di condividere con me la vita? Ti prego, Dio, perdona i miei peccati e mostrami la ragione di tutto e ciò che devo fare nel mondo.-
Subito dopo, accompagnato da Manzur, aveva attraversato il ponte Zana:
– Vedi, -gli aveva spiegato l’uomo, fervente musulmano come la maggior parte dei Kashmiri- questo ponte è stato dedicato al re Zaimul Abadin perché ha fatto giungere dalla Persia gli esperti per insegnarci l’arte della manifattura dei tappeti e altre lavorazioni di lane e oggetti. Tutto il benessere del nostro paese è merito suo!- Quasi a far eco alle parole, i negozietti aperti si susseguivano gli uni agli altri esponendo ogni tipo di mercanzie, dai tappeti pregiati agli oggetti in carta pressata dipinta a mano, agli scialli in lana kashmir.
Procedendo sul ponte e volgendo lo sguardo a sinistra, in un luccichio di acque che attraversavano pacificamente l’abitato, Ahmad aveva poi scorto la tomba di Shah-i-Hamdan.
-Seicento anni fa, – aveva aggiunto Pala – Hamdan ha attraversato, predicando, la Valle del Kashmir e ha convertito gran parte degli abitanti, allora induisti, all’Islam. Nessuno ha obbligato i nostri avi a cambiare religione, solo ne sono stati convinti dalle brucianti parole e dalla sincerità del predicatore.-
Da un lato e dall’altro, nella luce dolce del giorno che andava a concludersi, scivolavano leggere sulle acque le preghiere di ogni diversa religione confuse all’atmosfera della vita pratica
quotidiana che è, come prescrive il Corano, cercare di essere felici lavorando, amando la propria moglie o marito e pretendendo il giusto.
“Ma, – pensava ancora Ahmad- è solo questo la vita? O c’è altro? E i dubbi da dove giungono?”
Procedendo ancora nelle viuzze strette e animate, visitato il tempio Sik e il grande tempio Indù, prima dell’immenso forte medioevale che, costruito dagli imperatori Moghul, dominava dall’alto tutta la città, Ahmad e Manzur avevano raggiunto la tomba del santo Makhdoom Sahib. Luci colorate si accendevano e si spegnevano nel calare della sera mentre i fedeli, soprattutto uomini, giravano decine e decine di volte intorno al sarcofago del sufi, chiedendo aiuto. Le donne in preghiera erano assai poche: Ahmad ricordava bene che le sue cognate, le sue sorelle e sua madre stessa apparivano di rado in pubblico perché occupate con i figli, con gli anziani o con gli impegni domestici. Ma il giorno dopo, le donne che avrebbe incontrato sarebbero state assai più numerose.
-Andremo a visitare la tomba di Babareshi.- aveva affermato, infatti, Vyas alla sera. -Ci accompagneranno i nostri ospitanti perché anche loro desiderano rivedere il santo luogo di pellegrinaggio.-
I 35 Km. da Srinagar erano stati compiuti senza difficoltà in un pulmino affittato per accogliere tutta la famiglia, mentre il paesaggio si inerpicava verso le cime dell’Himalaya e affiancava verdeggianti piantagioni di riso e donne che trasportavano enormi carichi sulla testa.
-Quando giungeremo a Gulmarg, – gli raccontava Shubie, la moglie di Manzur – che è un villaggio a 2600 m. di altitudine, vedrai frotte e frotte di turisti che si rallegrano della libertà di passeggiare tra gli ampi spazi verdi e possono, poi, arrivare ancora più in alto, dove c’è sempre la neve, usando la seggiovia o il cavallo. Anche noi ci fermeremo un poco per riposare.-
Mentre le famiglie allargavano le loro tovaglie colorate da pic-nic sull’erba e i bambini sguazzavano qua e là nei ruscelli, decine e decine di bancarelle si trovavano schierate sull’unica strada del villaggio. Dopo un abbondante pasto servito sul prato e un buon tè aromatico arricchito da cannella e cardamomo, tutta la famiglia si era messa in cammino per giungere, attraverso il bosco, alla tomba del famoso santo chiamato BabaReshi. – Baba – aggiungeva ancora Shubie -si era ritirato nella giungla, tra orsi e tigri, per pregare. Poi aveva compiuto molti miracoli per aiutare la povera gente. Da allora, se una donna non riesce ad avere figli, che è la più grande disgrazia che possa capitare, può recarsi in pellegrinaggio da Lui. Là deve ripulire una vecchia cucina in argilla, come quelle che usavano tanti anni fa, e quindi otterrà ciò che desidera. Io devo tornare da lui per ringraziarlo perché ho avuto sei figli! Ma mia cognata Umera deve fare questo pellegrinaggio perché, fino ad ora, ha avuto solo tre femmine. Anche lei ha bisogno di un figlio maschio che possa aiutare il padre e contribuire ad accumulare la dote per le sorelle. Altrimenti come faranno?-
Per penitenza, le donne della famiglia avevano compiuto il tragitto senza scarpe sul sentiero sassoso bruciante sotto il sole. Una volta giunti al santuario, dopo le preghiere di rito intorno alla sacra tomba, la gita si era trasformata in una simpatica vacanza: tutti insieme si erano seduti sul prato a mangiare la porata e a bere il tè, chiacchierando del più e del meno mentre i bambini correvano e giocavano.
Al ritorno, il pulmino aveva attraversato una zona di campagna dove enormi estensioni di frutteti producevano soprattutto mele, mandorle e noci. Allora, avevano incontrato alcuni uomini e donne che, muniti di una grossa scatola riempita con pietre, camminavano sotto gli alberi creando fastidiosi rumori e urla per spaventare gli uccelli che altrimenti avrebbero distrutto il raccolto.
Qui e là, appena fuori dell’abitato o anche nei giardini delle abitazioni stesse, si scorgevano piccoli cimiteri: spazi naturali dove le erbe crescevano spontanee intorno a qualche semplice lapide a ricordo delle persone. Come prescrive il Corano, il corpo viene sepolto nella terra, avvolto da un lenzuolo bianco, con il viso rivolto alla Mecca e la sepoltura deve essere molto modesta. Tra le tombe, dunque, spesso pascolavano tranquille vacche o bambini rumorosi giocavano al pallone, simboli dell’esistenza che continua.
I ritagli di vita di ogni giorno riportavano Ahmad alla sua città, a sua madre… Ma si doveva andare avanti.
“La conoscenza garantisce il benessere dell’uomo.” aveva enunciato il Dio Khrishna molti secoli prima.
Alla fine, anche il momento di ripartire era giunto e non era stato facile lasciare la famiglia Pala: la shikara aveva traghettato, nella luce chiara dell’alba, Ahmad e Vyas al di là del lago, con alcune borse zeppe di provviste e indumenti caldi. I rumori del giorno che nasce stavano per animare le acque nelle cui onde si specchiano le cime più elevate del mondo insieme agli alberi alti e rigogliosi stipati di uccelli di ogni forma e dimensione. Intorno, compivano i loro larghi giri decine e decine di aquile, alla ricerca di qualche agnello da catturare.
Capitolo V
La strada tra Srinagar e Leh, aperta solo per tre mesi durante l’estate, era stretta e affiancata dal fiume Sind. Vyas ed Ahmad procedevano soprattutto a piedi, così come molti altri saniasi, tutti miseramente vestiti con longhi di tessuto arancio consunto, nonostante il freddo pungente. La strada si inerpicava sulla catena dell’Himalaya e numerosi erano i convogli di jeep, taxi, autobus che trasportavano indigeni e turisti verso il Ladakh, il Piccolo Tibet. A Sonamarg tutte le carovane dovevano fermarsi e attendere il turno, perché più avanti la strada era a un solo senso e quindi si sarebbe potuto procedere solo alternati. Nello slargo di sosta, dove si rimaneva per molte ore, qualche baracca riparava i viaggiatori da una pioggerella insistente mentre in enormi pentole bolliva l’acqua e il latte per il tè. Alcuni turisti offrivano volentieri poche rupie, insieme a tè e biscotti, a molti pellegrini che, come Vyas, affrontavano il lungo viaggio. Certuni non avevano neppure un paio di sandali ai piedi. La temperatura era piuttosto bassa, pur essendo luglio, ma i santoni non sembravano sentire il freddo.
Un uomo risciacquava sommariamente dei bicchieri che poi riempiva di nuovo di tè e di latte per offrirli agli acquirenti; qualcuno, intanto, si preparava una sigaretta sistemando il tabacco nelle cartine. Qualche altro, invece, accendeva il bidi, un piccolo sigaro aromatico che spandeva nell’aria il suo profumo. Vyas amava raccontare storie di Dei mentre affrontava il cammino: Shiva, Brahma, Khrisna prendevano vita dalle sue labbra, popolavano di nuovo la Terra come nei tempi antichi, l’atmosfera pareva quasi tingersi di bellezza e serenità.
-Spesso Radha chiedeva a Khrisna se lui l’amasse. Non si può amare chi fa parte di se stesso, rispondeva lui che non aveva mai subito nessuna tentazione. Io e te siamo una stessa realtà e viviamo in ogni coppia che si ama, così come le onde e il mare, i petali e il fiore. Non si può domandare alle bianche nuvole che si arricciano candide se amino il cielo: esse non avrebbero senso e vita se il cielo non esistesse. Non si può immaginare la Primavera senza il profumo e i colori dell’erba e dei fiori, tutto questo è Amore. Così tutto il cosmo esiste dal Pensiero degli Dei e tu, Radha, sei il mio pensiero. –
Il freddo e la pioggerellina insistente non esistevano più: davanti agli occhi si apriva uno splendido paesaggio primaverile, l’aria profumava di essenze e Ahmad ascoltava incantato. Ecco cos’era l’amore! Lo stesso amore per la terra e gli uomini che accendeva ancora lo sguardo di Vyas e l’amore che avrebbe voluto per sé negli occhi di una donna.
Il cammino si snodava lungo una strada scavata nella montagna. Spesso gli autobus, le jeep, i taxi che l’affrontavano dovevano procedere a guado e sembrava sempre che la carreggiata dovesse cedere.
I due pellegrini procedevano lentamente a piedi, insieme a molti altri. A tratti intonavano canti e preghiere e, quando Ahmad allungava lo sguardo in basso, poteva scorgere resti di automezzi precipitati negli anni precedenti o travolti da qualche valanga. Le cime si stagliavano, man mano che avanzavano, più imponenti e aride: nulla di simile si poteva incontrare altrove in India.
A Mulbek un enorme Budda di quattro metri scolpito nella roccia li aveva accolti insieme alle bandierine del gompa.
-Le preghiere scritte sulle bandiere sventolano al vento spargendo, – così diceva Tsering Nerbo, un loro compagno buddista – pensieri buoni nel mondo. Questo Budda rappresenta il futuro. C’è un Budda passato, uno presente e Chamba, il Budda futuro. Per vedere quello presente potete venire con me a Gel. Là c’è un monastero dove potrete capire molte verità.-
Il Budda, dall’alto della roccia, li osservava impassibile.
-Un mese fa, – aveva aggiunto Tsering Nerbo – una slavina ha trascinato giù nel fondovalle camion e corriere uccidendo mille persone.-
Ma la vita non si era fermata per quello. Inarrestabili i mezzi arrancavano con i loro carichi incuranti (o forse rassegnati?) del pericolo. Lentamente, appoggiandosi a un lungo bastone, i tre viandanti avevano imboccato uno stretto sentiero dove si poteva procedere solo a piedi.
– Per distruggere la tenebra interiore- era Vyas a spiegare- a nulla serve la conoscenza che si esprime in parole: davvero non si distrugge il buio dissertando di una lucerna!-
Dunque era necessario compiere un percorso interiore, un viaggio alla scoperta della sapienza e, anche se mancava il fiato per l’altitudine e la testa doleva, era bello procedere fiancheggiando rocce ricche di resti fossili. Un tempo lontano, infatti, al posto delle cime alte migliaia e migliaia di metri, c’era un grande mare animato da creature acquatiche che, infine, erano rimaste imprigionate nella pietra. Dopo circa un chilometro di salita, i viandanti avevano scorto un villaggio appollaiato sul fianco della montagna. Gli abitanti, agghindati con grandi collane, anelli e orecchini di turchese e corallo fossile, osservavano senza interesse i nuovi arrivati abituati, come erano, a una vita in un luogo che sembrava al di là del tempo e dello spazio. Ma del monastero, costruito completamente nella roccia, si potevano scorgere solo le finestre: il monaco che custodiva l’eremo non c’era ed era quindi impossibile entrare. Tsering Nerbo si era fermato nel minuscolo paese ad attendere il rientro, forse dopo un mese o forse dopo un anno, chissà, del monaco. Vyas aveva deciso, invece, di tornare sulla strada principale e di proseguire verso Leh. Giorno dopo giorno, salendo sempre più in alto, il freddo si era fatto ancora più pungente: l’acqua scorreva lungo la strada rendendola più malferma e la pioggia aveva ripreso il suo insistente martellare. I passi tra le montagne si susseguivano l’uno all’altro: Zojila Pass (3529 m.), Namkila Pass (3718 m.), Fatula (4094 m.). La carreggiata si affiancava, poi, al fiume ed era un po’ meno pericolosa. A Kargil,
grosso villaggio che segna il confine tra il Kashmir e il Ladakh, si erano aggirati tra i banchi del mercato dove venivano esposte ogni genere di mercanzie: colori vegetali, riso, tessuti pesanti, pecore, galline. Chiedevano che la gente mettesse nel loro kashkole un’elemosina per comprare qualcosa da mangiare e poter riposare su di una tavola in uno dei miserabili alberghi alla portata degli ospiti più poveri. L’autista di un camion che trasportava polli e uova aveva offerto loro un passaggio. Nella cabina di guida si stava un po’ stretti, forse, ma, finalmente, al riparo di freddo e acqua, si poteva anche dormire.
La radio del mezzo trasmetteva a tutto volume canzoni indiane:
“Uccello va, questo paese è diventato estraneo per te. Tu hai fatto una casa con i rametti che hai raccolto uno per uno sotto la pioggia e il sole bruciante; ma non ti preoccupare se questa tua fatica non è servita a nulla. Sarà destino così che tu hai dato tutto senza ricevere niente. È finita la vita del ramo dove c’era il tuo nido…”
A Leh, Vyas era volato in cielo stroncato dalle privazioni e dagli stenti. Sulla terra, appoggiato alla parete dell’edificio dell’Ente del Turismo, era rimasto solo il suo misero corpo, quel rigido pacchetto d’ossa con gli occhi sbarrati rivolti alle stelle, lassù. Forse, il suo viaggio nel mondo, lungo l’inesorabile catena delle incarnazioni, era concluso… o, forse, domani Vyas sarebbe tornato ancora sotto forma di uccello a percorrere gli spazi liberi del cielo o sarebbe stato una pacifica mucca intenta ad assaporare la sacralità dell’esistenza…
Ahmad non lo sapeva, ma aveva dovuto faticare parecchio per trovare abbastanza denaro per bruciare nel forno il corpo del suo amico: purtroppo la catasta di legna, che ogni indù desidera per il suo funerale, aveva un costo troppo alto.
Diverse volte aveva anche provato a telefonare a casa senza riuscirvi, perché la linea era disturbata dalla pesante cappa di nubi. Ora, era rimasto completamente solo a decidere. Ma ormai si trovava lassù, tra i monti delle nuvole, e tanto valeva continuare il viaggio.
Capitolo VI
Il bus locale, che sembra alquanto traballante, carica persone fino a pigiarle in ogni spazio possibile. Molti viaggiano sul tetto aggrappati al portapacchi e, alle varie fermate, saltano giù senza difficoltà. Il tragitto, comunque, da Leh a Hemis non è lungo: laggiù nel fondo valle scorre l’Indo attorniato dalle verdi oasi ordinatamente coltivate. A destinazione si scorge il bianco villaggio sperduto nel paesaggio lunare e, su per il sentiero, manca il fiato a causa dell’altitudine e dell’aridità del luogo. Ma i Ladakhi, con i loro visi rugosi e i loro abiti pesanti che usano in tutte le stagioni per ripararsi dal freddo o dal sole e dalla polvere, pare non se ne accorgano. Finalmente, Ahmad giunge al monastero, dimora estiva di un importante lama tibetano, Tungsey Rimpoche, reincarnazione di Padma Sambava o Guru Rimpoche, il preziosissimo maestro che diffuse il messaggio buddista nel Tibet sconfiggendo i demoni. La costruzione è molto grande, composta di vari templi riccamente dipinti e adornati di tangka e mandala narranti la storia delle divinità e dell’universo. Ahmad si sposta da una sala all’altra chiedendo del Lama: tra le mani stringe il khatak, la sciarpa bianca che gli donerà quale simbolo di rispetto e venerazione. -Il prezioso maestro Rimpoche non c’è, – gli spiega un giovane allegro monaco dal viso arrossato -sta compiendo un viaggio nei villaggi come è suo impegno di capo spirituale.-
Ahmad rimane perplesso, aveva sperato di trovare qui lo scopo del suo lungo pellegrinaggio. Lentamente esce dal monastero mentre i colori e i suoni sono
ancora vivi nei suoi sensi e, senza badare, si ferma a fianco di una bancarella dove un ragazzo dalla pelle olivastra e gli occhi a mandorla vende oggetti ricordo ai visitatori. Prima ancora che Ahmad possa rivolgere le sue domande, il giovane lo interpella gentilmente:
-Immagino che tu non sia di qui e non credo neppure che tu sia un fedele di Buddha…
-No, infatti, vengo da Lucknow.
-Eppure non mi sembri neppure un turista.
-Un giorno, un saniasi mi ha spinto a iniziare un lungo viaggio ed eccomi qui. Per un tratto abbiamo condiviso lo stesso cammino: il santo camminava e pregava, usava il treno e l’autobus, e siamo così giunti insieme fino a Leh. Poi l’uomo ha raggiunto la sua pace…
-Come ti chiami?
-Ahmad.
-Allora sei musulmano. Eppure hai seguito l’insegnamento di un indù… Bene, io sono buddista come la maggioranza della gente qui, e mi chiamo Dorje. Nella mia famiglia non si fanno differenze ma non è sempre così per tutti. Qualche anno fa, ad esempio, il Ladakh era in subbuglio: gli scioperi si alternavano al coprifuoco e le strade di Leh erano popolate di soldati e di poliziotti armati e protetti da enormi scudi che avrebbero dovuto sedare le agitazioni. Come hai capito, visto che sei arrivato fin qui, il Ladakh mantiene rapporti con il mondo quasi esclusivamente durante l’estate, quando è aperta la strada che lo collega a Srinagar e il piccolo aeroporto tra le montagne. Poi, durante l’inverno, quando la temperatura scende in media sui quaranta gradi sotto zero, la strada, una delle due più alte del mondo, quella che tu hai percorso, non è più accessibile e anche i voli sono molto più rari. Così tutto il paese rimane isolato e le nostre uniche possibilità di vita sono nel lavorare nella bella stagione, quando i turisti affollano le nostre montagne compiendo lunghi trek e visitano i monasteri alla ricerca della nostra cultura. Ora sembra tutto tranquillo ma nessuno può dire quando scoppierà, qui o altrove, per un motivo o per l’altro, un periodo di odio tra genti che provengono da diverse culture. Io sono amico di tanti musulmani venuti quassù per lavorare, potrei raccontarti di tante persone che hanno però un solo scopo: mantenere una famiglia numerosa, maritare le proprie sorelle, lottare per la sopravvivenza…
-Conosco storie come queste, comuni anche nel mio paese, forse, pensavo, chissà… che qualcosa sarebbe cambiato per me, che avrei avuto un’altra sorte… Sempre ho aspettato un destino diverso, così, quando il guru mi ha detto: “Vai!” ho pensato che il momento giusto fosse finalmente arrivato. Ma ora non so, non so più che fare: sono a migliaia di chilometri da casa mia, senza denaro, e non ho incontrato nulla che mi abbia fatto comprendere di aver trovato qualcosa di speciale.
-Abbi fiducia in Dio, ciò che cerchi accadrà. Intanto stasera sarai mio ospite e poi vedremo.-
La notte scende velocemente tra le montagne aride, somiglianti a monti della Luna e Ahmad si sente sereno. Pare che anche il Budda riposi, dopo aver insegnato al mondo ad annullare l’“insensato dolore della vita”. Intanto che Dorje raccoglie la sua mercanzia e la deposita in un magazzino, prima di riprendere la strada di casa, una strana processione di Ladakhi perfettamente vestiti e addobbati di gioielli passa proprio davanti al banchetto. Diversi suonatori accompagnano il gruppo intonando canti e musiche, mentre alcune persone reggono una corta cassettina di legno.
-È un funerale, – risponde Dorje allo sguardo interrogativo di Ahmad- qui non abbiamo legna perché la vegetazione, come avrai visto durante il viaggio, è quasi inesistente. Allora il defunto viene accomodato in una piccola bara, dopo avergli spezzato braccia e gambe per accorciarlo. Poi, tutti insieme, parenti e amici lo accompagnano in un luogo deserto sulla montagna: là, dopo che la minuscola cassa sarà consumata dal fuoco, gli animali elimineranno i resti.
-Lo so, – conclude Ahmad- anche gli animali sono creature degli Dei e tutto deve tornare a Dio. Nella mia città ci sono alcuni gruppi di parsi e loro, invece, depongono i loro cari cadaveri in un luogo isolato perché vengano divorati dagli uccelli. Ognuno ha le sue abitudini.-
Conversando, intanto, si avviano alla casa di Dorje che si trova proprio appena fuori della strada principale.
Prima di entrare nella stanza, tinteggiata di azzurro intenso, i due giovani si tolgono le scarpe. Quindi, Dorje invita Ahmad ad accomodarsi per terra sui cuscini ricoperti da una pesante stoffa scura. Dopo pochi attimi, una fanciulla dalle lunghe trecce nere e gli occhi dal taglio a mandorla entra nella stanza. Il suo abbigliamento è simile a quello di tutte le altre donne del Ladakh: un abito pesante e scuro. Solo per un attimo, gli occhi dei due giovani si incontrano poi lei torna ad abbassare i suoi, sbrigando le faccende domestiche. Un’abbondante cena viene servita: riso e verdure, rotolini primavera, un dolce e una tazza di gurguri tea, cioè tè arricchito di sale e burro. Dopo aver accontentato l’ospite e il fratello, la fanciulla, torna a mangiare in cucina insieme alla madre.
Dorje parla del suo paese che ama, dei problemi della famiglia, dei suoi sogni: in Ahmad ha riconosciuto un amico.
-Anni fa, volevamo essere più indipendenti e avere diverse agevolazioni dal grande Stato indiano. Solo che il nostro movimento, come spesso succede, è diventato una guerra di religione: la maggioranza buddista ha deciso di eliminare la minoranza musulmana che è sempre vissuta qui, convertendosi all’islamismo seicento anni fa, e la piccolissima percentuale di cristiani della regione. Allora, appunto, si verificavano continuamente disordini e anche i lama non disdegnavano di picchiare chi non era buddista, se lo trovavano solo. Anzi, i monasteri che tu vedi come esempio di spiritualità e amore di Dio, erano diventati il principale rifugio degli estremisti rivoltosi capaci di dare fuoco alle case nei villaggi o ai camion che faticosamente portano la merce su e giù per la lunga e pericolosa strada o addirittura di colpire persino gli stranieri che transitavano da queste parti. Spesso proprio nei monasteri venivano nascoste armi e bombe. Avrai visto, a Leh, una serie di piccoli negozi di artigianato indiano, uno in fila all’altro… Ebbene, questi esercizi sono gestiti da Kashmiri musulmani che vengono qui durante l’estate, affittano i locali e vendono la loro merce ai turisti. Quell’anno, minacciati dai buddisti furono costretti a fuggire e, per salvare la vita e le loro sostanze, dovettero organizzare un centinaio di camion che li avrebbero riportati tutti insieme a Srinagar. I terroristi non ebbero il coraggio di attaccare una così imponente massa di persone ma essi quell’estate persero la possibilità di condurre i loro affari e di tornare alle loro famiglie con un guadagno. Ora la situazione è tornata alla normalità, i Kashmiri sono rientrati nei loro negozi, ma chi può sapere quando l’egoismo dell’uomo userà di nuovo la religione per scavare abissi tra di noi e distruggere la nostra vita?-
Eppure, l’ospite, che ha affrontato un lungo e difficile cammino per parlare con un famoso lama, si sente finalmente tranquillo e al sicuro: quando Dolma rientra nella stanza per ripulire, il suo sguardo le sorride. Le guance rosse di lei aumentano il suo fascino semplice, di ragazza sana e serena. Infine tutti si ritirano nelle stanze per la notte. Sdraiati sul materasso per terra, i due giovani continuano i loro
discorsi. Ahmad viene a sapere che Dolma ha diciotto anni e che, essendo la più piccola di tre sorelle, non è stata ancora promessa a nessuno. Diverse sono però le famiglie del luogo che l’accoglierebbero volentieri in casa anche perché porterà una discreta dote accumulata, giorno per giorno, da suo fratello.
La mattina dopo, durante la colazione a base di pane non lievitato e tè col burro, Ahmad rivolge qualche domanda a Dolma. Mentre Dorje tornerà a lavorare, Ahmad chiede alla fanciulla di accompagnarlo da una famosa medium che vive in un villaggio là vicino. Dopo un breve tragitto tra i campi, Ahmad e Dolma arrivano a una casa di pietra imbiancata come tutte le altre. In una stanza c’è una ragazza giovane inginocchiata in terra. È in trance. Intorno, diverse persone assistono e un monaco buddista guida la seduta.
-Secondo il buddismo, – sussurra Dolma- un atto rituale deve essere compiuto da un monaco regolarmente consacrato altrimenti potrebbe non avere effetto o, addirittura, ottenere risultati nefasti.-
Davanti alla medium, che indossa costume e cappello tradizionali buddisti a colori vivaci e un fazzoletto variopinto sulla bocca, c’è una grossa stufa molto bella sulla quale bollono alcune pentole e la teiera. Dietro di lei, un uomo tiene un piccolo braciere in cui bruciano erbe aromatiche e balsamiche e incenso che hanno proprietà purificatrici ed espiatorie. In alto, c’è un quadrato aperto nel soffitto da dove penetra un raggio di sole che cade sulla fanciulla in trance e verso il quale sale, bianco, il fumo della stufa e del braciere. Questa, per i tibetani è la porta più alta verso la vetta del mondo, la via all’eternità. E lei, la protagonista, ha il viso rivolto verso lo spazio che è al di là dell’apertura, pieno di forze spaventose in agguato che possono essere placate e sconfitte dalla forza magica del rito compiuto secondo le prescrizioni e dall’incomparabile superiorità della parola sacra del Buddha. Canta una nenia di preghiere e risponde soltanto alle domande del monaco che tiene i contatti con le persone che sono giunte per consultarla. Nella mano sinistra ha una piccola bandiera bianca e il dorje, il fulmine, principio maschile, attivo, la forza indistruttibile, la purezza e l’eternità. Nella mano destra ha un cucchiaino. Sembra che faccia molto sforzo ma l’atmosfera è serena. I postulanti pongono domande e, in qualche momento, ridono e scherzano. La spiritualità in Tibet, infatti, è qualcosa di vivente e vissuto che si esprime con gioia in ogni istante della giornata. Ella prende delle bandiere da un secchio di riso e le passa al monaco che, intanto legge le preghiere.
-Sai, Ahmad- spiega Dolma sottovoce – Lama Govinda, un nostro importante maestro, ci ha insegnato che la preghiera non è rivolta a una potenza esterna ma cerca di risvegliare le forze che riposano in noi. Il monaco, invece, che suona il campanello vuole rappresentare il principio femminile, la saggezza trascendentale che rafforza la potenza e l’efficacia dei desideri delle persone.-
A tutti viene offerto il tè con i biscotti, mentre la seduta continua con identica intensità. Davanti alla fanciulla sono poste le offerte tradizionali nelle coppette: l’acqua, il riso, le essenze. A un certo punto, la medium porta il cucchiaino in un contenitore e lo getta per aria. Alcune gocce cadono su Ahmad. Davanti alla donna, si presenta una madre con un bambino piangente: ha delle ulcere spaventose sulle braccia. La donna soffia sulla parte malata. Un altro paziente viene avanti ma lo spirito, che vive nel corpo della maga, si arrabbia e quindi l’uomo viene picchiato. I pazienti si alternano davanti alla guaritrice: ella cura dolori, piaghe, opera ulcere, appendiciti, calcoli, tonsille, con la sua bocca, senza aprire ferite. Finalmente è il turno di Ahmad: egli non sa chiedere altro che di comprendere la via.
-La forza di tutto l’universo è solo nell’amore.- risponde la voce del Dio attraverso la bocca umana della veggente- Là solamente si può avere pace. Il successo arriderà a chi saprà rispettare e capire senza distruggere.-
Intanto la medium sembra che soffra e porta le mani alla schiena. Dopo essersi di nuovo inginocchiata e dopo essersi battuta molti colpi sulla schiena, si toglie due sciarpe bianche che indossava intorno al collo e si riprende faticosamente dalla trance. Le offrono da bere e sembra che soffochi. Piano piano, gli occhi che aveva girati in su, tornano normali e dolcissimi. Si siede vicino al monaco. Tra poco, tornerà ai consueti lavori della casa e dei campi. La seduta è finita.
Allontanatisi dalla casa, Ahmad vuole recarsi a un telefono pubblico.
Tra lui e Dolma non sono necessarie molte parole: qualche timida occhiata e i loro cuori battono più velocemente.
Quando Ahmad, finalmente, riesce a prendere la linea e sente la voce della madre che è corsa, alla sua chiamata, presso un vicino di casa che ha il telefono, le lacrime sgorgano dai suoi occhi.
-Torna, figlio mio, – può solo ripetere la mamma. -Qui, senza di te la vita non è più la stessa, le stagioni si susseguono estranee, sulla strada mancano i tuoi passi e le feste non sono state feste. Tuo fratello Siddiq ha continuato il tuo lavoro e gli affari vanno bene, ma torna, figlio mio, è tempo che tu prenda moglie…-
Gli occhi arrossati di Ahmad si volgono ancora al viso fresco di Dolma che, timidamente tiene lo sguardo abbassato e solo il suo colorito più acceso rivela la sua emozione. Ecco quello che cercava: un’esistenza diversa, una donna con la quale condividere pensieri, gioie e dolori… Oh, anche solo sfiorare la sua mano sarebbe il Paradiso… Per questo, adesso comprende, ha affrontato un viaggio così lungo, guidato dalla mano di Dio, forse, e la risposta alle sue speranze non sarà nelle parole di Guru Rimpoche ma nella vita di ogni giorno con lei…
Prima però che lui possa parlare e spiegare alla madre al di là del filo, la comunicazione cade e solo il silenzio fa eco ai suoi pensieri. “Non sposate donne politeiste, finché non credano nell’unità di Dio…” Corano, Sura II versetto 220. Ai musulmani, infatti, Ahmad non può dimenticarlo, non è permesso sposare donne non credenti o credenti in molti Dei: una donna buddista, politeista, non può essere ammessa nella comunità musulmana! Solo chi crede in un solo Dio può essere presa in moglie da un musulmano.
Ma non è questo che cercava, né l’esempio che riuscirà a dare a molti altri nel mondo. Non lascerà Dolma, né le chiederà di convertirsi.
Lentamente, con lei, la fanciulla ladakhi dagli occhi a mandorla, che lo segue a qualche passo di distanza, così come tutte le femmine seguono un uomo in India, imbocca la strada assolata e polverosa, affiancata da un misero ruscello dove le donne sono intente a lavare i panni sbattendoli molte volte, con energia, sui sassi. Lassù, nel cielo, le nuvole nere si stanno addensando e rendono l’atmosfera pesante. I cani randagi abbaiano e si rincorrono negli spazi aperti.
La via della luce, aveva predetto il darwesh, un giorno.
Forse la via della luce passa attraverso la diversità e, se non si può sapere tutto, come sempre gli ricordava Vyas, bisogna imparare a seguire i passi che Dio ci mette davanti.
Renata Rusca Zargar è autrice del libro “Pietre e piante: portafortuna, talismani e benefici effetti curativi per ogni SEGNO ZODIACALE”
Lo sapevate che l’uso di lenzuola color rosso vivo fosse un sistema semplice e sicuro per mantenersi giovani?
E che bruciare una candela verde favorisse gli affari?
Portare una collana di angelite, ad esempio, ci avvicina alla pace e alla serenità, mentre un anello di corniola allontana il malocchio e i piccoli teschi di osso tibetano portano fortuna. Oppure, sapevate che il quarzo rutilato, abbinato alla labradorite, aumentasse il fascino personale e l’autostima? O che un rametto di acacia appeso dietro la porta tenesse lontano chi non ci vuole bene?
Il testo è, dunque, un manuale di curiosità pratiche sui benefici effetti delle pietre secondo i SEGNI ZODIACALI o secondo l’attrazione personale. Illustra i vantaggi che ci offrono alcune piante, spiega la terapia dei colori e, infine, insegna a fare per sé il profumo che ci renderà ancora più affascinanti e felici.
Chi è Renata Rusca Zargar
Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.
Tra gli ultimi nati c’è una raccolta di lavori delle signore anziane che hanno seguito i suoi corsi gratuiti di Lettura e Scrittura Creativa: “Leggere e scrivere …per divertimento, raccolta di racconti, poesie, disegni, calligrammi dei Corsi di Lettura e Scrittura Creativa”, pubblicato da Amazon.
Si occupa della Biblioteca di volontariato Libromondo e, prima del Covid, portava i libri in prestito nelle Scuole. Cura un blog di cultura, ecologia e società Senzafine: Arte, Cultura e Società di Renata Rusca Zargar link