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Le feste nella tradizione sammarinese

Le feste nella tradizione sammarinese

Hanno lunga tradizione a San Marino alcune feste religiose e civili al medesimo tempo, legate a momenti particolarmente significativi della storia del paese.

Un culto particolare è stato sempre attribuito al Santo, al quale tradizionalmente sono state attribuite anche le facoltà di Fundator ed Auctor Libertatis.

La festa celebrata il 3 settembre, secondo la Vita Sancti Marini giorno della morte del Santo, ha il suo momento culminante nell’esposizione delle sacre reliquie.

Al pomeriggio la festa profana era già in tempi molto antichi, animata da gare di balestrieri ed archibugieri.

Un luogo connesso al culto del Santo è la grotta della Baldasserona, suo primo e poco ospitale rifugio.

Giuseppe Rossi  in un suo scritto del 1940 racconta: “E’ tradizione che mentre i lumini consumano di fronte al simulacro del Santo, i devoti distendano le loro membra e pregano che il sonno riparatore giunga a essi foriero di grazie e di perdono al tempo stesso, e di oblio per le passate sventure”.

Altra festività, civile e religiosa al contempo, è quella di Sant’Agata che si celebra il 5 febbraio, in memoria dello scampato pericolo dell’occupazione alberoniana.

Nella pieve una cerimonia religiosa, istituita sin dall’anno seguente il temibile evento, si ripete fino ai giorni nostri. Dalla chiesa del Borgo una processione di devoti, recante innanzi l’immagine della Santa, si muove salendo la Costa: alla Porta del Paese viene accolta dal Corpo bandistico e da un drappello della Milizia, quindi s’incammina alla volta della Basilica, dove è già attesa la Reggenza.

G. Crocioni, raccogliendo una leggenda ancora viva alla metà del Novecento, racconta che molti anni or sono la stagione fu così inclemente da impedire la consueta processione; ebbene- nella notte oscura Sant’Agata, a piedi scalzi, seguita da un lungo corteo di Santi e di Angeli, passando per la Costa giunse alla Pieve.

E’ indubbio una festa civile quella dell’ingresso dei Capitani Reggenti, ma non esclude il momento religioso quando dal Palazzo i vecchi e i nuovi Reggenti, preceduti da banda, milizia e guardia nobile si recano alla Pieve, dove si celebra una funzione religiosa propiziatrice al Santo affinchè conceda i più ampi favori.

Queste cerimonie pubbliche si ripetono da secoli e fanno parte della memoria storica dei sammarinesi.

Molto antiche le tradizioni legate alla cultura contadina: ancor ieri parte della memoria collettiva rischiano di finire dimenticate.

Le feste religiose e quelle legate al ciclo agrario si sovrapponevano e alternavano.

Il Natale, di certo la più importante, era considerata festa della famiglia riunita: “Nadel s’i tu, Pasqua sa chi t vu”.

Dopo la vigilia, momento di preparazione all’evento della Natività- tutti intorno al ceppo “e’ zòch”, che si lasciava acceso tutta la notte, perché si credeva che dopo la mezzanotte sarebbe giunto a scaldarsi il Bambino Gesù. Poi alla messa, sotto un freddo cielo stellato o su una morbida coltre di neve.

Il giorno dopo tutti intorno al tavolo: anche chi era costretto a sfamarsi con piada di granoturco poteva contare su qualcosa di maggior gusto; per molti i cappelletti e il cappone.

Il primo dell’anno era giorno di auguri e di auspici. Cattivo presagio era considerato incontrare un povero, buono se l’incontro avveniva con un ricco; meglio incontrare un uomo che una donna, perché questo caso era segno di sventura.

Ci si augurava che il tempo fosse buono, i primi dell’anno perché “s’è piov e’ prim e u sgònd e piòv tot e’ més tònd”.

L’Epifania chiudeva il ciclo delle feste natalizie “La Bifanìa tot al fèsti la mèina via”.

Era questa la ricorrenza dell’Adorazione de Magi giunti dall’Oriente a rendere il loro omaggio e doni a Gesù.

L’idea del dono riviveva nella figura della Befana che, cavalcando una scopa, trasvolava per i cieli gelati , nella notte, si calava giù dai camini a portare i doni ai bambini immersi nel sonno.

Di giorno passavano poi per le case i Pasquellari, che, avvolti nelle “capparelle” con in bocca trombe, trombone e clarini, intonavano un’allegra Pasquella, aspettando anch’essi di avere un dono dal padrone di casa.

Con l’inverno non era necessario recarsi nei campi a lavorare: anche il seme riposava sotto la neve.

Per gli uomini era il tempo del Carnevale. Era possibile organizzare veglie dentro le stalle: si parlava di tutto e si raccontavano favole, le donne filavano alla canocchia.

I bambini di giorno andavano in maschera, si recavano agli usci dei vicini sperando in qualche regalo.

Inevitabilmente giungeva poi la Quaresima, un periodo di continenza e preparazione alla Pasqua, ma restava ancora qualche propizia occasione, in Borgo la prima domenica di di quaresima si festeggiava il Carnevalone, e metà quaresima usava una singolare customanza, ai balconi delle case veniva esposta “la vecchia” un fantoccio di grandezza naturale, fatto di stracci e raffigurante una vecchia sdentata adorna però di ricche collane, biscottini, arance, fichi secchi e altre golosità.

Intanto la natura tornava a svegliarsi, vestendosi di colori allegri e vivaci, l’arrivo della primavera corrispondeva più o meno con la festa di San Giuseppe (19 marzo) e della Madonna (25 marzo). La sera precedente era uso accendere i fuochi, gli studiosi del folclore hanno visto nel fuoco il simbolo magico della purificazione, lo strumento che elimina tutto ciò che di cattivo si è accumulato, lasciando sussistere il buono e il santo.

Ormai era vicina la Pasqua, la festa della Resurrezione del Cristo, e più in generale della rinascita spirituale di tutti, quando con la morte di Cristo, le campane venivano legate, i contadini erano soliti con vinchi legare i rami delle piante da frutto per poi sciogliergli quando le campane venivano sciolte: questo nella speranza di maggiore abbondanza di frutti.

Anche per Pasqua era uso fare un buon pranzo: cibi tradizionali erano l’uovo e l’agnello.

L’arrivo di Maggio era festa tradizionale, si era soliti nei tempi passati “portar maggio”, che da noi era costumanza amorosa, in quanto che il giovane si recava sotto la finestra dell’innamorata a dare voce alla sua passione amorosa.

In tempi a noi più vicini sono prevalsi piuttosto il senso di gioco e lo scherzo. I giovani allora davano sfogo alla voglia di vivere esibendo fantasia e buoni muscoli. E. Belisardi racconta “L’indomani accadeva che il proprietario della cascina, spalancando la porta al nuovo giorno, vedesse il proprio aratro sul pagliaio, o i carro del fieno privo di ruote e queste pendenti da un albero come frutti novelli: non c’era da meravigliarsi se uno trovava un albero infilato nel pozzo o lo scorgeva svettare sul tetto issato nel comignolo.

Luoghi tipici della vita contadina: la stalla, l’osteria, il mercato.

Fasi del lavoro: mietitura, fogliatura delle pannocchie di granoturco che costituivano occasioni di canti e incontri tra i giovani.

Giuseppe Macina

 

 

 

 

 

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