venerdì , Novembre 22 2024

“Cosa te ne fai di un’altra femmina?” di Renata Rusca Zargar

Cosa te ne fai di un’altra femmina?

di Renata Rusca Zargar

Io ti vedo,

piccola figlia mia,

giocare ignara nel mio ventre.

Non ti aspetti dolore da nessuno,

indifesa e muta creatura,

e ti amo,

anche se non sei ancora nata,

e ti aspetto,

per amarti di più

e consolarti tra le mie braccia.

Qui nessuno ti vuole,

e tanti teneri bimbi,

non desiderati come te,

sono morti, senza nome,

nel silenzio.

Vorrei poter cullare

tutti quanti,

tra le mie braccia

lunghe come il mondo,

perché possano dormire,

senza paura,

almeno una volta.

 

Poche settimane fa, ho saputo che la creatura che aspetto è una femmina.

Mia madre, alla notizia, è rimasta sconvolta: -Tu, una figlia ce l’hai già, cosa te ne fai di un’altra? Sono sicura che hai rischiato questa gravidanza perché pensavi che sarebbe stato un maschio. –

No, mamma. Noi non aspettavamo questo figlio e io ero padrona della vita e della morte di un piccolo essere indifeso che, ignaro di tutto, cresceva dentro di me. Così va il mondo: i più forti possono fare tutto ciò che vogliono sui più deboli, ma non è giusto. Ho visto battere il cuore di quella creatura informe nelle immagini dell’ecografia, ho scelto la vita e l’ho amata senza pensare a quello che sarà.

Tempo fa, ho letto che a Bombay migliaia di persone, ogni anno, si sottopongono all’amniocentesi solo per sapere il sesso del nascituro e abortiscono se è femmina. Conosco bene l’India, so quanto denaro costa maritare una figlia, so che la maggior parte delle donne ancora non lavora fuori casa e quindi non collabora alle spese. Ricordo il mio amico Gulam piangere alla nascita della sua terza bambina e capisco le difficoltà di una particolare situazione economica e sociale.

Anche qui, però, questo pregiudizio è assai radicato: il maschio continua il cognome, dicono, ma io penso che lo desiderino, in realtà, perché lo credono ancora un essere superiore. Poche settimane fa, una donna giovane, si è messa a urlare di gioia per la strada perché aveva saputo che il nascituro sarebbe stato maschio. Non è cambiato nulla nel tempo e tu mamma, sei tranquilla. Avresti potuto essere moglie di un re perché hai dato a mio padre, oltre a me, il sospirato erede uomo.

Adesso, però, qualcosa di terribile è successo! Ancor prima del sesto mese di gravidanza, si è rotto il sacco amniotico e mi trovo qui, immobile, in un letto d’ospedale per cercare di impedire, quanto più a lungo possibile, che il meccanismo sconosciuto del parto si metta in moto. L’angoscia mi opprime, perché non so cosa succederà; tutto è in gioco e non so se, quando nascerà, darò la vita o la morte a questa creatura.

Ogni mattina, arrivano i medici in visita e mi danno coraggio: un altro giorno trascorso è un passo sulla strada della speranza.

La vita è solo questione di tempo.

E tu sei venuta a trovarmi, mamma, alla domenica, com’è giusto, nel giorno di festa. Ben vestita, con i tuoi tacchi alti, ti sei seduta, elegante, con le mani sulla borsetta e mi hai chiesto quando finirà questa storia. Ti ho spiegato tutto e quanto sia importante resistere perché la bambina possa vivere. Ma tu, in confidenza, da donna a donna, mi hai chiesto: -Visto che è successo, perché lotti così, perché non l’hai lasciata andare? –

Non ci sono parole.

Dentro di me, ritorna l’immagine della bambina che ero, un po’ timida, che non osava chiederti il gelato quando vedeva gli altri che lo mangiavano.

Non ci siamo mai capite molto, io e te, mamma, eppure, quando tu sei stata all’ospedale, io, femmina, sono rimasta con te giorno e notte.

Ho tanto desiderio di essere consolata da un’altra mamma che possa capire la mia sofferenza. E mia suocera, così lontana, semplice creatura, mamma di tanti figli, mi viene in mente. Vorrei che fosse qui ad abbracciarmi per poter piangere sul suo grande seno mollo. Vorrei che anche mia cognata fosse qui, so che pregheremmo insieme anche se non capiamo niente della lingua l’una dell’altra. Ma l’amore non ha bisogno di parole.

Le ore passano lente ma regolari, come sempre, nell’ospedale: la sveglia per le pulizie, la colazione, la visita dei medici, l’ora dell’antibiotico, il pranzo, la visita dei parenti, il sonnellino, la visita dei volontari, la cena, l’ora dell’antibiotico, il sonno.

Mi sembra persino di avere tante cose da fare: controllare la flebo, chiedere la padella, pensare…

E penso ancora alla bambina che ero, con i bei vestitini puliti e stirati, sempre sola, perché tu, mamma, credevi che gli altri bambini non fossero abbastanza perfetti per giocare con me. Anche tu, del resto, non avevi tempo, perché dovevi tenere pulita la casa come uno specchio. Ti dava fastidio che io volessi parlare, giocare a vendere e a comprare o alla cicogna.

Ma quando, poi, avevo imparato a leggere e mi isolavo con un libro (sempre lo stesso, perché ne avevo uno solo), anche quello non andava bene e mi chiamavi in continuazione.

Ricordo che avevo una bellissima bambola, grande quasi quanto me. La guardavo da lontano, perché troneggiava in mezzo al divano e non la potevo toccare.

Allora pensavo che fossi cattiva, rinchiusa in un duro castello inespugnabile.

Adesso riconosco nel tuo sguardo la debolezza e la paura.

Sei stata felice mamma?

Restando qui, nell’ospedale, non posso vedere, da molti giorni, la figlia che mi aspetta a casa con i suoi grandi occhi profondi pieni di ragionevolezza e di amore. Mi manca il suo abbraccio, con la testina reclinata sulla mia spalla, la sua gioia di vivere, la sua vocina tenera.

E adesso considero che forse un domani le mie figlie scriveranno parole critiche su di me, perché questa credo sia una disputa naturale tra mamme e figlie.

Non importa.

Io le amo tanto, giocherò con loro e le lascerò parlare.

Quello che conta, adesso, è salvarne una, adorata, che ancora vive dentro di me.

Quando la prenderò tra le mie braccia, saprò che sono stata come deve essere una mamma.

 

Quando ti prenderò

tra le mie braccia

che gli aghi dei dottori

hanno torturato per non lasciarci morire,

il mio cuore impazzirà di gioia

e ti amerò più del mio respiro.

Tu sarai così piccola,

indifesa davanti al mondo,

tenero corpicino

assetato d’amore.

Ed avremo lottato insieme,

in questo letto d’ospedale,

ostinate a carpire la vita,

dimentiche di chi getta

i figli nella spazzatura.

 

 

Renata Rusca Zargar è autrice del libro “I numeri del destino e dell’amore”

Fin dai tempi più antichi, l’uomo ha cercato di sfruttare le vibrazioni dei numeri (del proprio nome, della data di nascita, dei periodi della vita ecc.) per vivere meglio e gestire a proprio vantaggio le energie presenti nell’Universo. Con questo semplice Manuale il lettore potrà fare tutto da solo: cambiare il proprio nome in numeri, comprendere il proprio numero del destino come pure i diversi periodi della vita. Così, potrà conoscere meglio sé stesso e agire sempre in modo favorevole ai propri interessi e sentimenti. Potrà capire se il partner sia quello giusto, come pure gli amici, i colleghi ecc. Soprattutto imparerà a muoversi nei momenti più opportuni per avere successo nella vita. Potrà fare la cosa giusta al momento giusto e trovarsi nel posto giusto con la persona più adatta. La Numerologia non prevede nulla ma ci aiuta ad affermarci e ad avere fortuna nella vita. Copertina a cura di Zarina Zargar.

Disponibile sulla piattaforma Amazon, sia nel formato ebook (euro 4,00) che cartaceo (euro 6,76).

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Chi è Renata Rusca Zargar

Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.

Tra gli ultimi nati c’è una raccolta di lavori delle signore anziane che hanno seguito i suoi corsi gratuiti di Lettura e Scrittura Creativa: “Leggere e scrivere …per divertimento, raccolta di racconti, poesie, disegni, calligrammi dei Corsi di Lettura e Scrittura Creativa”, pubblicato da Amazon.

Si occupa della Biblioteca di volontariato Libromondo e, prima del Covid, portava i libri in prestito nelle Scuole. Cura un blog di cultura, ecologia e società Senzafine: Arte, Cultura e Società di Renata Rusca Zargar  link

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