giovedì , Novembre 21 2024

Raccontami una storia: “18/05”

18/05

di Martina Giugno

Non so cosa sto facendo, ma so che ho bisogno di scrivere, di sfogarmi, di distrarmi; di qualunque cosa possa tenermi la testa occupata.

Sto per impazzire.

Sono tornata a casa e ho passato gli ultimi quaranta minuti bloccata, seduta sul letto con lo sguardo vitreo fisso sulla libreria; poi sono arrivate le lacrime.

Le ho lasciate fluire come fossero un fiume in piena, ho iniziato ad annaspare.

Le ho lasciate scorrere insieme ai pensieri, così tanti da essersi fusi in un’unica, sola, grande matassa.

Sto male, al punto che non riesco a respirare, al punto che scrivere si sta rivelando l’unica cosa in grado di lenire leggermente la bruciante ferita che il veleno delle mie lacrime ha solcato sulle guance.

La settimana scorsa sembrava stare bene: era strano, è vero, ma non più strano del solito. Ci siamo sentiti, anche se poco; ho percepito ci fosse qualcosa che non andava, ma con lui è sempre una costante incognita: oggi sta bene e ci vediamo, domani litiga con suo padre e non vuole sentire nessuno, me compresa.

Non so più in che modo fargli capire che vorrei solo stargli accanto, che se ha bisogno di sfogarsi io sono qui per lui. A volte ho la sensazione che si dimentichi della mia esistenza. Ho sempre saputo fosse un tipo difficile: lo sapevo anche sette anni fa quando ci siamo conosciuti, quando per lui ho avuto una delle mie prime, pazzesche cotte da terza media, quando lui, bellissimo diciassettene di tre anni (e tre giorni) più grande di me mi lanciava mezza occhiata lasciva e io mi scioglievo in litri di cera calda; l’ho sempre saputo anche nel corso di tutti questi anni, tra i vari tira e molla di una relazione che non era mai nata fino a qualche mese fa; lo sapevo mentre lo vedevo litigare con la sua ragazza storica, e mi ribolliva il sangue per la pressante voglia di dirgli di lasciarla andare e guardare, finalmente, verso la mia direzione, verso la ragazza che, in fondo, aveva sempre sperato, aveva sempre creduto, aveva sempre aspettato e a cui non era mai passata per davvero. E proprio quando riuscii ad andare avanti, a guardarmi attorno dopo tutti quegli anni di parziale asservimento, lui mi fece ricadere nel vortice di ingenue trepidazioni che solo una ragazzina può provare quando scorge, anche solo da lontano, il suo primo amore. Dopo un anno di lontananza e dopo mesi di delicati gesti, sono nuovamente caduta nella sua trappola: mi sono fidata, ho creduto che questa volta potesse essere diverso, di avere finalmente le basi (e l’età) per poterla affrontare in modo maturo e consapevole. Ma, come volevasi dimostrare, io non capisco ancora nulla di relazioni e lui, all’alba dei suoi ventiquattro anni, è rimasto lo stesso ragazzino confuso e volubile che ho conosciuto a mare nell’estate tra le medie e il liceo.

Tutto è un deja-vu, e non intendo soltanto tra noi.

Tutto è un deja-vu di quasi due anni fa quando, per la prima, dolorosissima volta, non sono stata all’altezza delle aspettative.

Non ero abbastanza per il mio primo vero ragazzo, quello che per la prima volta mi aveva fatto dimenticare questa travagliata cotta, e non lo sono oggi per il protagonista delle mille fantasie che il mio cervello ha elaborato mese dopo mese, anno dopo anno.

Ho davvero creduto, stupidamente, ingenuamente, che l’esserci ritrovati dopo tutto questo tempo, dopo la mia storia con Simone, dopo la sua storia con Ambra, dopo una stupida lite che ci ha divisi per quella che mi è sembrata un’eternità, significasse qualcosa, qualcosa di importante, bello, significativo, duraturo.

E invece non singificava assolutamente nulla, a quanto sembra.

Non avrei mai pensato di perderlo per davvero, non ero pronta, non sono pronta. Non voglio tutto questo, non l’avrei mai voluto.

E per cosa, poi?

Sono qui a scrivere dopo più di un’ora da quando ha voluto parlarmi e chiudere tutto guardandomi negli occhi, eppure mi sento ancora frastornata e confusa.

So solo che questa mattina ho ricevuto un suo messaggio nel quale mi chiedeva di vederci per parlare; gli ho domandato se stava bene, ma non ha risposto fino a mezz’ora prima dell’incontro; ho sentito il cuore in gola durante tutta la giornata; mi sono vestita tra i singhiozzi; sono uscita di casa cercando di rimanere il più possibile composta e serena; ho girato l’angolo; l’ho visto; mi sono seduta accanto a lui su una panchina troppo fredda e mi sono messa a sua disposizione per ascoltarlo, ancora una volta.

Ha iniziato a vomitare una marea di parole, frasi su frasi che mi hanno soltanto amareggiato e confuso. Ha iniziato a spiegarmi cosa, secondo lui, ha provocato la lite di pochi giorni fa, quella che ha scatenato una sorta di mutismo selettivo per il resto della settimana e che mi ha fatto pensare che avesse soltano bisogno di sbollire un attimo (ma, ovviamente, mi sbagliavo).

Le mani e la voce hanno tremato per tutto il tempo mentre era immerso nel suo lungo, lunghissimo monologo.

Aveva gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole, le operose dita sempre affaccendate a cercare il pacco di sigarette nelle tasche della tuta. Non ho idea di quanto abbia potuto fumare in nemmeno venti minuti.

Parlava e annaspava e tirava una boccata e poi di nuovo parlava e sistemava gli occhiali da sole sopra il naso e tirava un’altra boccata e cercava il mio sguardo e finiva la sigaretta e ne accendeva un’altra e parlava e giocava con l’accendino.

Io, dal canto mio, ho provato, più volte, a guardarlo in faccia, ma non ci sono riuscita. Ero ansiosa e fin troppo consapevole di dove il suo discorso sarebbe andato a parare per poter restare lucida e anche solo tentare di guardare oltre le lenti scure. Tutta quella situazione non aveva assolutamente nulla di normale; non sono neanche riuscita ad ascoltarlo.

Ho capito la metà delle cose che ha detto sopratutto perché, complici frustrazione e tentennamenti vari, ha parlato tanto, davvero davvero tanto e, a un certo punto, ho iniziato a stancarmi.

Ho cominciato a pensare: “Ti prego basta, mi stai torturando. Che ho fatto di male? Lasciami andare, ho capito dove vuoi arrivare, non farmi restare qui un minuto di più”.

Ma sono rimasta lì, inerme, a fissare il verde cespuglio davanti la panchina e a stuzzicare uno dei due elastici neri che tango al polso, quello che mi ha dato quella volta in cui non stavamo facendo nulla di speciale, se non stare bene.

Poi, quando ha smesso di parlare, ho provato a dire qualcosa, ma dalla mia bocca sono usciti pochi rantoli sommessi, forzati da uno stretto nodo alla gola.

Mi ha detto le cose che si dicono sempre in questi casi, cose tipo: “Non mi hai fatto nulla di male, sei una brava persona, ho sempre tenuto a te, mi sono sempre trovato bene con te” e poi io mi sono bloccata perché era veramente arrivato il momento di salutarlo, dirgli addio e chiudermi quella storia alle spalle; ma non ero pronta. Così sono rimasta qualche secondo ancora a fissare il cespuglio, in silenzio, sperando che la sua diarrea di parole tornasse a spezzare quel pesantissimo rumore di nulla; Ma niente, aveva terminato la sua scena madre, perciò toccava a me fare qualcosa. Mi sono finalmente alzata, l’ho salutato e sono andata via, senza mai voltarmi indietro.

Nel tragitto dal parchetto a casa ho ripensato alle ultime cose che ha detto e mi sono infuriata. Non trovo una logica nel dire delle frasi così carine ad una persona con la quale non vuoi più avere niente a che fare, e il motivo è molto semplice: se davvero non avessi fatto nulla di male, se davvero fossi una così brava persona, se davvero avesse sempre tenuto a me, se davvero si fosse trovato così bene con me adesso, semplicemente, non mi ritroverei a scrivere tutto questo mentre piango e, minuto dopo minuto, mi rendo conto di averlo perso sul serio, di averlo perso per sempre.

E questa volta non riesco a non darmi colpe.

Non perché ne abbia davvero, ma, insomma, per la seconda volta sono stata meravigliosa ma non abbastanza da contare qualcosa nella vita di qualcuno che per me significava tanto. Dovrà pur contare, no? Evidentemente sono io quella che non va bene. Evidentemente sono io quella sbagliata, quella che merita di rimanere da sola, di non trovare qualcuno che possa farla sentire desiderata, voluta, amata.

Non ho mai avuto bisogno di una relazione per sentirmi completa, ma le uniche volte in cui ne ho avuto una mi sono buttata con tutta me stessa e non è stato abbastanza.

Come posso credere di non esserne io stessa la causa?

Non so cosa accadrà in futuro, ma so che non permetterò che tutto questo mi distragga dagli esami, dalle mie ambizioni, dal mio futuro. Non un’altra volta, non questa volta.

Mi concedo qualche ora di pianti disperati e cliché da film americano strappalacrime e poi basta: domani si torna a regime, si studia e si smette di stare male.

Sono io il mio peggior nemico, ma sono anche il mio più grande supporto. Non mi permetterò di distruggermi di nuovo.

Non mi permetterò di dimenticare quello che sono stata fino ad oggi e che ho costruito con tenacia, dedizione e sofferenza.

Adesso sto un po’ meglio, perciò smetto di scrivere e mi preparo psicologicamente per raccontare a Cristina tutto quello che è successo. So che da un lato ne sarà felice, ma so anche che avrà paura di vedermi distrutta ancora una volta; ma ancora non sa che oggi qualcosa in me è scattato; ancora non sa che non sono la stessa persona che ha conosciuto due anni fa, proprio nel momento in cui ero più fragile e sperduta; ancora non sa di cosa sono in grado.

In realtà non lo so nemmeno io, però sento il cambiamento, sento la voglia di rivalsa.

E il fatto che io la senta mentre assaggio ancora le mie lacrime mi fa ridere e sperare allo stesso tempo.

Sono io contro me stessa, sono io contro qualcuno che non mi ha voluto. Sarà difficile, ma non ho intenzione di crollare.

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