Due anime
di Pietro De Siena
La mia mano si era appoggiata sul dorso di lei, all’altezza del cuore. Un gesto spontaneo quanto inaspettato in mezzo al gruppo di compagni raccolto in silenzio davanti al tempio di Shiva. Lei mi raccontò, in seguito, che un momento prima era sommersa da un turbinio di emozioni così potente da spaventarla profondamente. Ci trovavamo nella scuola brahminica di Thrissur, in Kerala, un luogo uguale a se stesso da migliaia di anni.
Se mai le nostre anime avessero varcato i confini dello spazio e del tempo, sicuramente, avevano attraversato quel luogo. Eravamo tornati a visitare il tempio, all’interno della scuola, qualche giorno dopo, forse alla ricerca delle stesse emozioni, per incontrarne invece altre, ritrovandoci nel bel mezzo di una rappresentazione di katakali organizzata per pochi intimi, che conserviamo come uno dei regali più belli di quel viaggio ayurvedico in India.
In questioni d’amore io ero indeciso, timoroso, rigonfio della paura che un dolore antico potesse tornare a ferirmi. Un cuore ovattato che non permetteva il pieno fluire di un fiume d’amore che pure conoscevo. Crosta dura che, forse, cominciava, molto lentamente, ad incrinarsi. Lei aveva deciso di riprovare a fidarsi degli uomini, ascoltare il suo istinto, il suo cuore più volte tradito. Aveva paura, certo, ma ne aveva terribilmente bisogno.Io vivevo una situazione familiare chiusa, apparentemente senza sbocchi. Mi ero ritrovato capofamiglia, di una famiglia sui generis: una sorella che non era mia moglie ed un fratello, bisognoso di cure, che non era mio figlio.
Lei era attraversata da una diversa maniera di vivere. C’erano semplicità, gioia, volontà, forse frutto di sofferenze e battaglie combattute sin da ragazza. E poi c’era sua figlia, amata e cresciuta in solitudine, a darle luce e allegria. A casa, finita la vacanza studio, erano tornati, i miei fantasmi, le paure, la quotidianità di una vita che risucchiava i giorni, pressoché tutti uguali, con qualche rara impennata d’orgoglio che si traduceva più che altro in inutili invettive.
Lei era un po’ più sicura del nostro amore, da quando aveva sentito la mia mano riscaldarle il cuore alla scuola brahminica.Due anime che vagavano sospese alla ricerca l’una dell’altra per fondersi in un abbraccio cominciato sicuramente in un cielo anteriore. Il viaggio in India aveva rappresentato forse la nostra ultima occasione. Quarto anno per me, quasi diplomato. Secondo anno per lei, il primo in India. A scuola, a Milano, ci eravamo visti, invano, in qualche occasione, dopo quella volta dei tacchi. Avevamo addirittura passato una giornata insieme, in gruppo, seguendo un corso sull’energia, organizzato ad integrazione dell’attività didattica di Ayurveda. Quel giorno l’avevo classificata, nel mio schedario mentale, come una gran bella ragazza, pure simpatica, ma comunque lontana dalle caratteristiche mediterranee che andavo, vagamente, cercando.
A lei, forse io già piacevo, ma le apparivo ancora troppo lontano, a tratti irraggiungibile. Il grande abbracciatore ayurvedico era di tutti, e non poteva essere di nessuna in particolare, le aveva detto un giorno la sua amica Francesca.La verità era che mi impegnavo ad essere di tutti per evitare il rischio di dolore che avrebbe potuto comportare l’essere di qualcuna in particolare, dolore che avevo già provato e non volevo assolutamente che tornasse.Era stato comunque grazie a quel corso sull’energia che ci eravamo avvicinati durante il viaggio studio in India, o meglio, era stata lei ad avvicinarsi, perché io non mi muovevo neanche sotto minaccia.
Mi aveva chiesto, il giorno dopo l’episodio al tempio di Shiva, di fare un po’ di pratica energetica, scambiandoci i trattamenti durante qualche pausa di studio. Aveva accettato di buon grado, probabilmente perché non vedevo nella cosa alcun rischio di avvicinamento pericoloso. Si trattava, d’altronde, di una semplice e proficua attività di studio.Ci fu per entrambi, durante quello scambio di trattamenti, un’apertura di cuore, una luce, difficili da spiegare a parole. Fu come se la nostra conoscenza, fino ad allora superficiale, fosse stata superata, travolta da una conoscenza primordiale che raggiungeva profondità oceaniche, lontana da qualsiasi filtro o condizionamento. Un amore che nasceva in un tempo maturo per entrambi, scevro da qualsiasi smania o pretesa di possesso. Avevamo raggiunto da tempo la consapevolezza che, nella migliore delle ipotesi, si appartiene a se stessi, ammesso che si riesca a districare la fitta matassa delle proprie emozioni e delle proprie paure. Il nostro grande amore, era esploso in tutta la sua potenza al cospetto dell’Oceano Indiano: due puntini colorati impressi in un sole grandissimo che si avvicinava inesorabilmente all’acqua, nel mezzo di una spiaggia sterminata. Ci eravamo abbracciati a lungo, accompagnando il tramonto. Poi, un bacio dolcissimo, interminabile.
Cercavamo una risposta da anni ma fu in quel momento che capimmo che non si impara niente, se mai ci si ricorda e che non si va da nessuna parte, se mai si torna. Dopo un lungo, estenuante, viaggio ci sentimmo come tornati a casa. E non importava per quanto tempo. Quel momento, in fondo, era tutto il tempo di cui avevamo bisogno, tutto il tempo passato e tutto il tempo che avevamo ancora da vivere.