Che poi, neanche io so chi sono realmente…
di Marina Palumbo
Non ho mai amato quei terribili e imbarazzanti temi personali che fanno fare a scuola.
Se devo essere sincera non li ho mai sopportati. Per niente.
Insomma, che senso ha obbligare i ragazzi a spogliarsi davanti a sconosciuti di qualunque tipo di protezione che faticosamente si sono costruiti?
Nessuno.
Che senso ha fare la propria presentazione? Sentirsi chiedere cose inutili come: quanti fratelli hai? di che colore è la tua camera? che sport fai? hai animali? quando, per conoscere una persona bisognerebbe parlare, dialogare?
Cosa è per te la vita? E la felicità? Ha un senso l’uomo sulla terra? Ti senti realizzato? Che tipo di persona vorresti diventare? Qual è il tuo ricordo più triste? Sei mai stato deluso? Serve soffrire? Guardiamo le stelle perché siamo umani o siamo umani perché guardiamo le stelle?
Ebbene, premettendo tutto questo, ti starai domandando perché mai io stia scrivendo, volontariamente, per un concorso la cui traccia è “parlami di te”. Perché mai mi stia denudando in questo modo. Cosa mi spinge a spogliarmi, di mia spontanea volontà, di tutte quelle barriere che mi sono eretta in questi anni per tenere lontane le persone, per non farmi conoscere per ciò che sono realmente?
Per sfida.
Perché neanche io so chi sono realmente.
Perché sono appena uscita da un ricovero durato un mese e mezzo.
Perché dopo anni che vivevo seguendo delle certezze che mi facevano sentire al sicuro, la mia vita è stata stravolta.
Perché non voglio fare come Danny Boodman T.D. Lemon Novecento che, per paura dell’immensità della terra non scende dalla propria nave.
No, voglio uscire dal mio guscio, dal mio castello di certezze, dalla mia cosiddetta confort-zone.
E Scoprire il Mondo. E Vivere.
Facciamo un passo indietro.
Poco più di un anno fa ero in vacanza con i miei amici. Fino a qui tutto nella norma: ho da poco compiuto 18 anni, non c’è nulla di strano nel fare le vacanze con gli amici.
Il problema? Il disturbo alimentare che ha iniziato a impossessarsi di me. Ossessioni. Ossessioni che a posteriori definirei inutili, ma che in quel momento erano la mia unica ragione di vita.
All’inizio i pensieri che affollavano la mia testa riguardavano la qualità del cibo: tutto quello che mangiavo ai miei occhi non era abbastanza “pulito”. Così ho iniziato con l’eliminare qualunque cosa fosse prodotta industrialmente, dalle merendine agli insaccati, dalle banane perché contaminate dagli insetticidi, alle olive perché denocciolate meccanicamente; insomma, qualunque cosa che avesse subìto una raffinazione, qualunque cosa che non fosse “pura” e naturale non aveva il diritto di contaminare il mio corpo.
Mi sono ridotta così a nutrirmi di riso, carne, pesce, frutta e verdura.
Dopo aver seguito per pochi mesi un’alimentazione -si- malata, ma comunque sana e abbastanza equilibrata, ho notato un dimagrimento e una ridistribuzione del grasso nel mio corpo non indifferente: avevo iniziato a perdere alcuni chili, quelli che sarebbero stati i primi di una lunga serie.
Da lì, dalla consapevolezza che avevo il potere sul mio corpo, il delirio dell’anoressia.
Piano piano ho iniziato a togliere i formaggi perché troppo grassi, a eliminare totalmente i carboidrati e gli zuccheri.
Questo taglio nella scelta dei cibi è stato accompagnato da ore passate in bagno a vomitare o a sfiancarmi di esercizio fisico per bruciare calorie.
La mia famiglia gioca un ruolo non indifferente in questa storia. Importante. Fondamentale.
Perché è la mia storia, e la mia famiglia.
Probabilmente leggendo sarai rimasto colpito dal fatto che passavo ore in bagno: ma come, i tuoi genitori non se ne sono mai accorti? In che casa vivevano? avrai commentato indignato.
La verità è che senza di loro e il loro amore probabilmente non sarei qui.
Hanno cercato di aiutarmi in tutti i modi possibili, arrivando a sostituirsi a me dove io non riuscivo ad arrivare.
Hanno cercato di rendere tutto il meno pesante possibile, sia per me che per le mie due sorelle più piccole.
Hanno cercato di farmi vedere la felicità in tutte le sue forme più semplici, dimostrandomi in ogni momento cosa vuol dire lottare.
E infine, quando hanno capito che per farmi guarire era necessario un ricovero, si sono fatti da parte e hanno lasciato il lavoro a persone più competenti.
Per questo, e per tutto l’amore incondizionato che hanno saputo dimostrarmi e che mi dimostrano tutt’ora, sarò loro eternamente grata.
Questa follia non nasceva dalla vanità, dell’errata convinzione che a magrezza corrisponda bellezza (perché dopo essere arrivata a pesare 30 kg, posso giurare che non ci si vede più belle, anzi), bensì dalla convinzione che attraverso il calcolo spasmodico e ossessivo delle calorie ingerite e quelle bruciate io avessi il controllo del mio corpo e della mia vita.
Come se quello fosse un’ancora disperata alla quale aggrapparsi, per salvare la propria vita dal caos che vi regnava attorno.
Un caos non indifferente se pensiamo agli anni precedenti, passati a rodermi l’animo, senza trovare risposte al perché io fossi al mondo, a cosa servissi, quale fosse il mio scopo.
Un caos non indifferente se pensiamo agli anni precedenti, quelli delle medie, quelli dell’adolescenza. Un’adolescenza travagliata, passata a leggere e sognare ma che mi ha portata a essere, per questo, rifiutata dai compagni di classe.
Un caos non indifferente se pensiamo agli anni precedenti, in cui i miei ideali di un felice avvenire si scontravano con la dura realtà della società e dei canoni imposti da essa.
Ma dopo un anno di vaneggiamenti non avevo risolto nulla.
Dopo un’estate passata con il freddo nel cuore e nel corpo quello che mi rimaneva era solo la pelle attaccata alle ossa.
Il benessere era fittizio. Falso. Artificioso. Una farsa.
Inesistente.
Me ne accorsi quest’estate quando, durante uno degli ennesimi attacchi di panico, la consapevolezza di non aver – in realtà – nulla sotto controllo, mi colpì come un pungo alla bocca dello stomaco.
Ciononostante questa consapevolezza non cambiò la mia situazione: quel benessere illusorio era l’unico che conoscevo e sapevo darmi, per questo continuai a farmi del male.
Mi ridussi a essere il mio disturbo alimentare. Vivevo di quello. Anzi, viveva quello.
In me tutte le passioni che avevo coltivato fino a poco prima si erano assopite, erano scomparse. Non ero più io.
Così ad oggi, dopo mesi di psicoterapia ho intrapreso un percorso di riscoperta e scoperta personale.
Sto riscoprendo una vecchia me, fatta di passioni archiviate, e sto esplorando parti ancora sconosciute, una nuova me: sto imparando a darmi una dignità, a riconoscere a me stessa i miei pregi, ad ascoltare i miei bisogni e le mie emozioni.
Sto smascherando anche una componente combattiva: ho voglia di accettare le sfide che la vita mi pone, non nascondendomi, ma affrontandole, lottando.
Prima ero fatta di nuoto, libri, musica e curiosità.
Il nuoto è uno sport che pratico da quando avevo 3 anni. Dopo dieci ho iniziato l’agonismo. Ero brava, e mi piaceva.
Mi piaceva sia lo spirito di squadra che pure uno sport individuale come quello poteva offrire, che la competitività prima delle gare.
Ma più di tutto amavo la sensazione di stare in acqua.
La sensazione di galleggiare in un elemento impalpabile, di non sentire il peso del proprio corpo è impagabile.
La sensazione di sentire l’acqua sciabordare sul proprio corpo è incalcolabile.
La sensazione di guardare il mondo da sotto in su, con un indice di rifrazione diverso da quello che siamo abituati ad avere è fantastica.
Ma soprattutto: la sensazione di silenzio, calma, pace interiore è impensabile nel rumore cittadino in cui siamo solitamente immersi.
L’altra grande passione che mi contraddistingue è la lettura.
Lo sconfinato infinito di ciò che è in grado di inventarsi la fantasia è strabiliante.
Un panorama illimitato di personaggi e situazioni, nel teatro della vita.
Così mi sono seduta su un treno tra Myskin e Mattia Pascal, ho viaggiato in 80 giorni con Phileas Fogg, condiviso avventure con Tom, Huck e Giannino, coltivato con Jo il sogno di diventare scrittrice, pianto con Cosette della morte di Valjean, pedalato sulla bicicletta consegnando telegrammi che annunciavano morti e disperazione con Homer, spiegato le ali al vento con il gabbiano Jonathan, mi sono guardata nello specchio e nell’anima con Vitangelo Moscarda, angosciata con Lucia, strappata dal sogno di sposare l’innamorato Renzo, rosa l’anima con Frankenstein, ripudiato dalla società.
A un periodo più recente risale invece la mia storia d’amore con la musica. Ascolto di tutto, dal metal al classico, dal rap al neomelodico, dalle canzoni popolari a quelle che passano in radio.
Ciò che prediligo però, dopo i grandi autori della storia come De Andrè e Guccini, è il rap italiano underground, come Rancore, Bassi Maestro, Claver Gold e Murubutu.
Infatti, più che la melodia, senza dubbio importante, è fondamentale il testo della canzone: senza significato viene vanificata la base strumentale; solo quando si fondono questi due aspetti prende vita un Canzone.
In questo periodo di rinascita sto riscoprendo la scrittura come forma di espressione, per troppo tempo rimasta nascosta.
Per questo, oggi, 10/02/2020 avendo voglia di scrivere, sono andata in cerca di bandi per concorsi letterari e mi sono imbattuta in questo. Che chiamava proprio me. Non potevo sfuggire, nascondermi dietro personaggi immaginari. Dovevo parlare di me.
Forse non parteciperò mai a questo concorso, non manderò mai la mail.
O forse si, perché arde un nuovo spirito dentro di me.
Ma se dovessi partecipare ti ringrazio, proprio Tu che hai letto, per essere entrato un po’ nel mio mondo e non avermi giudicata.