Vacanze d’estate
di Lou Damiano
Era dalla nonna da soli tre giorni a già si annoiava a morte. Non è che a casa sua non si annoiasse, ma almeno lì poteva stare davanti alla TV senza essere disturbata, aprire il frigo a suo piacimento, prepararsi latte e Nesquik. Qui no.
C’era la nonna, la nonna era sempre triste o impaurita, o lamentosa riguardo qualcosa.
Il nonno dopo pranzo andava al circolo a giocare a carte con gli amici, spesso vinceva e portava a casa qualche dolce comprato al bar del circolo, solitamente i biscotti per la colazione. Lei restava in casa con la nonna. La nonna non esisteva. Poi il nonno tornava e iniziava a borbottare: «Perché quella fjola[1] sta ancora davanti alla TV?»
Lei ci sarebbe volentieri cresciuta davanti alla TV, senza pensare e muoversi fino all’ora di morire.
Il nonno vedeva che la sua osservazione non faceva nascere nessuna reazione nella moglie e iniziava a rivolgersi direttamente a lei.
Nonno e nipote non avevano nessun tipo di confidenza, si vedevano poche volte all’anno e ogni volta lei andava in quella casa con riluttanza. Quella casa puzzava di pesce cucinato e aria viziata, sempre e inesorabilmente. A lei faceva schifo appoggiarsi alla ciambella del WC, come bere dai bicchieri. Non c’era evidente sporco in giro, ma dall’odore lei capiva che nulla era veramente pulito lì dentro. Anche la casa dell’altra nonna era trascurata, con capelli sulla saponetta che le facevano tanto ribrezzo, infatti non voleva mai lavarsi le mani e il padre non capiva perché e la rimandava subito in bagno con strilli e sberleffi. Ma quello era uno sporco che conosceva, le era familiare.
Qui lo sporco era la depressione della nonna, che tutto permeava.
Se la ricordava la nonna qualche anno prima all’ospedale, nel reparto psichiatrico. In vestaglia, scarmigliata, non riconosceva sua figlia e questa ne era rimasta sconvolta.
Lei non aveva capito bene cosa fosse successo, perché il padre si fosse permesso di dire tutte quelle cose al nonno e di urlare in ospedale, ma tanto il padre urlava sempre. Era solo un motivo in più per lei per non voler andare in quella casa.
Neanche il padre ci voleva andare perché non andava d’accordo con il nonno. Anche la madre in fondo non andava d’accordo con quelle persone, ma doveva andare a trovarli per sentirsi normale come tutti gli altri.
Così in estate lei era sbattuta un po’ di giorni lì, perché bisognava fare un po’ per uno e dopo la colonia con l’altra nonna le toccava entrare in quell’antro puzzolente.
Anche lo zio viveva lì. Era simpatico, lei ci poteva giocare, ma faceva l’università, doveva studiare e non si poteva disturbare.
Ora era venuta a chiamarla l’amichetta del piano di sopra, anche lei in visita dalla nonna, ma sua nonna era normale.
Quella bimba parlava in modo strano e questo l’affascinava. Era di Bolzano. Avere un’amica che veniva da così lontano la faceva sentire in un certo modo speciale; questa sua inclinazione del pensiero non sarebbe cambiata negli anni e spargere amicizie per il mondo sarebbe stato sempre un suo grande desiderio, il sogno di avere finalmente una famiglia da lei scelta nel come e nel dove.
Andarono a giocare a palla sotto il colonnato davanti casa, che era lungo e ombreggiato. A lei quel gioco faceva sempre lo stesso effetto: partiva entusiasta perché giocare a palla era il massimo, tanto quanto passare le ore in acqua al mare. Poi iniziavano a giocare, lei spesso non prendeva la palla ed era tutto un correrle dietro. Sapeva che se avesse saputo giocare la cosa sarebbe stata divertente come immaginava, ma passando tutto l’anno da sola non aveva modo di mettersi alla prova e sviluppare quelle doti che sapeva di avere. Per ora era solo una gran fatica e il fatto che lei fosse in carne non l’aiutava certo. E poi le veniva subito il fiatone.
Il padre diceva che, come lui, lei soffriva di soffio al cuore. Nessuno aveva mai visitato entrambi, ma se la cosa le permetteva di poltrire lei non osava certo contestarlo.
Arrivò una bimba più grande e lei si sentì subito triste: si era rotto l’incanto, ora c’era un’altra persona a cui la sua amica poteva rivolgersi e lei si sarebbe sentita esclusa. Come al solito. Solo nei rapporti a due si sentiva bene perché l’altro non poteva schivarla.
Andarono tutte e tre verso la campagna, uscendo di poco dal piccolo centro abitato posto tra mare e collina.
Lei cercava d’inserirsi nella conversazione e ridere al momento giusto.
«Giocheremo alle dee.»
«Alle idee?» chiese lei stupita, ché era un gioco che non aveva mai sentito nominare.
«No, alle dee.» E già le due ridevano.
“Ecco” pensò lei “mi prendono in giro. Ma che gioco è alle dee?”
«Dobbiamo far finta di essere dee dell’antica Grecia …»
Un grande punto interrogativo aleggiò sopra la sua testa ricciuta.
“Ma che schifezza è?” pensò lei e avrebbe voluto andarsene. Aveva capito che era uno di quei giochi dove bisognava recitare e la cosa la metteva in imbarazzo, in quelle situazioni si sentiva una cretina e non le piaceva per niente.
«Tu sarai Diana, la dea della caccia.»
«E che devo fare?»
«Fai finta di cacciare.»
Che porcheria di gioco. Si allontanò un po’ verso gli alberi, per poter evitare di recitare il suo ruolo, ma poi capì che le altre due stavano chiacchierando tra loro e si riavvicinò.
Loro due erano quasi coetanee, lei era più piccola. Quando la sua amica stava con l’altra diventava più distaccata. Lei desiderò che l’ultima arrivata avesse scelto di passare l’estate altrove, molto lontano.
Poi grazie a Dio quel brutto gioco finì e tutte e tre se ne tornarono a casa. Lei si fermò un piano prima della compagna di giochi e già sul pianerottolo la puzza della cucina della nonna la investì, mentre si avvicinava alla porta socchiusa.
Odiava passare il tempo lì, odiava la sua famiglia, ma non realizzava questo nella sua mente, che cercava velocemente fuga nelle immagini della TV accesa. Finalmente era ora di cena.
[1] Bambina in dialetto anconetano
Il racconto ha partecipato al concorso “Raccontami una storia” organizzato dalla Carlo Biagioli srl.