venerdì , Novembre 22 2024

LA PARTENZA… IL RITORNO… L’EMIGRAZIONE…

La partenza...il ritorno...l'emigrazione racconto di Valentina Pignatta

La partenza…il ritorno…l’emigrazione

di Valentina Pignatta

Ho preparato le valigie, tutto è pronto per la partenza, non credevo che questo momento sarebbe arrivato così velocemente quando un anno fa mio marito mi disse prima di partire: “non ti preoccupare Maria un anno vedrai passerà in fretta!”
È giunto il momento di raggiungerlo in Francia, qui non è più possibile vivere non c’è lavoro, non potrei mai dare un futuro ai miei figli, sfamarli, farli studiare.
Questa mattina ho salutato la mia casa per l’ ultima volta, ho guardato in tutte le stanze, ogni singolo ninnolo, ogni mobile… le lacrime mi rigavano il viso… per chissà quanto tempo non avrei rivisto i miei genitori, i miei fratelli, le mie sorelle, i miei nonni… chissà se al mio ritorno lì avrei ritrovati tutti… Ma soprattutto, una domanda vagava nella mia mente e rattristava il mio cuore: sarei mai tornata?
Presi i miei due bambini per mano e la valigia, mi feci coraggio e andai a prendere il vecchio mezzo che dalla Porta del Paese faceva servizio fino alla stazione di Rimini.
Era una bella giornata di sole, ma quel cielo azzurrino che preannuncia l’estate per me era velato di malinconia, tutto sembrava sbiadire mano a mano che ci si avvicinava alla stazione, l’immagine del monte, i campi lavorati, i volti delle persone conosciute, i luoghi vissuti, gli amici e i parenti… tutto lontano… tutto come in un sogno…
Salimmo su un treno, insieme ad altre due famiglie che avevano la nostra stessa destinazione e che ora sono qui, addormentati, vicino a me e ai miei figli.
Prima sosta: Bologna. Controllo passaporti e cambio treno.
Seconda sosta: Parigi, dopo ore ed ore interminabili su questo treno dove ci sono solo quattro panche per stare seduti e un mucchio di paglia su cui dormire siamo quasi giunti a destinazione, in quel piccolo paese del Nord della Francia.

Arrivammo il 1 Maggio 1947 dopo tre giorni di viaggio, eravamo stremati ma la gioia di rivedere mio marito dopo un anno fu enorme, ci aspettava con tutti gli altri emigrati alla stazione.
Il paese non è brutto, è un po’ freddo, non è casa nostra ma c’è gente che sta peggio di noi.
E’ un piccolo ghetto, ci sono le baracche della miniera, mio marito lavora in miniera e così loro ci danno delle agevolazioni, carbone per scaldarci, una baracca e un buono per il pane, tutte le mattine dobbiamo andarlo a prendere, così mi hanno detto le altre donne, fortunatamente ce ne sono tanti di emigrati, vengono da ogni dove, molti sono italiani, almeno con loro ci capiamo un po’, chissà quanto tempo ci metteremo ad imparare il francese; mio marito ancora, dopo un anno, non l’ha imparato perché in miniera sono tutti misti: polacchi, algerini, tunisini, italiani e ognuno cerca di farsi capire come può o di parlare con qualcuno che conosce la sua lingua.

La casa è piccola c’è una grande stanza con la stufa e due camere da letto, tutto l’arredamento è vecchio ma questo non è importante, basta che ci sia un letto su cui dormire, i bagni invece sono all’esterno insieme alle docce.
La vita qui è difficile ma siamo felici, siamo insieme, possiamo sfamare i nostri figli e mandarli a scuola. La nostalgia arriva la sera prima di chiudere gli occhi, si pensa a cosa abbiamo lasciato, agli
affetti, si immaginano i volti e le voci ed è proprio in questi momenti, che ti manca tutto. I pranzi con i parenti dove ci si ritrovava in quindici o venti a tavola, dove non c’era nulla da mangiare ma
c’era l’allegria, l’affetto e la voglia di stare insieme, i bambini che giocavano nell’aia, che urlavano e correvano dietro alle galline.

Qui invece sei isolato, hai solo la tua famiglia e devi cercare di non farli sentire diversi dagli altri specialmente i piccini. Loro sono quelli che hanno più problemi perché vanno a scuola ma non
parlano la lingua, li prendono in giro, li chiamano Maccaronì. Questo gli fa male perché sono bambini come gli altri, con i loro sogni e i loro desideri, ma allo stesso tempo non lo sono, perché
sono di seconda classe cioè figli di emigranti che non hanno nulla, che vanno a prendere il pane con i buoni dello Stato e che parlano una lingua diversa dagli altri, che la mattina come merenda hanno il pane con il sughetto fatto in casa, mentre loro, i francesi, hanno il panino con il prosciutto, le caramelle, i cioccolatini.

I giorni passano i problemi anche e questo è il primo capodanno che passiamo qui. Ho cucinato quello che avremmo mangiato a quella lunga tavola tutti insieme a casa dei miei. Le lenticchie
sarebbero state bollite nel caldaio sul focolaio, le avremmo mangiate col il cotechino messo da parte appositamente per l’occasione come ogni anno dopo l’uccisione del nostro maiale, cresciuto
amorosamente con le ghiande che raccoglievamo nel bosco una per una da terra per lui, con la piada che mia mamma, io e le mie sorelle avremmo fatto.

Qui con noi ci sono altre tre famiglie di emigranti, insieme ci si fa più coraggio e ci si sente più forti e meno indifesi.
L’ultimo giorno dell’anno è quello dove si fanno i bilanci, si pensa agli errori fatti, ai cambiamenti attuati, un po’ a tutto insomma. Sono diversi mesi che siamo qui iniziamo ad imparare la lingua,
mio marito lavora sempre in miniera, i bambini sono più felici. Io mi arrangio facendo qualche lavoretto. Tre volte la settimana mentre i bambini sono a scuola faccio i bucati per le famiglie benestanti, le altre due faccio la pasta e i ragù fatti in casa, in fondo noi italiani siamo famosi per questo no? Inizio ad avere molti clienti, le francesi non sanno cucinare queste cose, è una specie di scambio noi impariamo da loro e loro imparano da noi.

Mia nonna aveva ragione quando, salutandomi per l’ultima volta prima della partenza, non sapendo se mi avrebbe mai più rivisto, mi disse: “figliola non avere paura, sii forte, col tempo tutto si aggiusta.” Aveva ragione col tempo tutto si stava aggiustando…
Sono passati ventidue anni da quel giorno, molte cose sono cambiate. Mio marito ora lavora in una fabbrica di saponette, mia figlia si è sposata e fa l’impiegata, mio figlio fa il camionista, io ho
imparato a scrivere e a leggere con i miei figli, sì perché quando sono arrivata qui non sapevo né leggere né scrivere, non abitiamo più nelle baracche delle miniere abbiamo comprato una casa con
un piccolo orto e un piccolo giardino e abbiamo un cane e un gatto.

Maggio 1947…1 Maggio 1977 dopo trent’anni stiamo tornando a casa…

La storia si ripete… Ho preparato le valigie, incartato tutto, fatto le casse da caricare sul treno merci che ci riporterà a casa, tutto è pronto per la partenza… io che non volevo venirci qui ora non riesco ad andarmene… con le mie amiche ci promettiamo di telefonarci, di scriverci… ma succederà?
Questa mattina ho salutato la mia casa per l’ ultima volta, ho guardato tutte le stanze… Oggi è stata una bella giornata di sole, ma quel cielo azzurrino che preannuncia l’estate per me era velato di malinconia, tutto sembrava sbiadire mano a mano che ci sia avvicinava alla stazione, le miniere, le montagne di carbone, le baracche, tutto quello che per quasi trent’anni avevo visto ogni
singolo giorno… questa volta però sono meno triste, torno nella mia terra…

Prima sosta: Parigi. Controllo passaporti e cambio treno.
Seconda sosta: Bologna, siamo arrivati in Italia… c’è lo sciopero delle ferrovie.

Maggio 2017… Oggi sono quarant’anni che siamo tornati, posso dire dopo tutto questo tempo che fu molto più difficile tornare che partire perché oramai quel piccolo paesetto del Nord della Francia era diventato la nostra casa e il nostro paese. Fu ancora più difficoltoso riambientarsi, qua la mentalità era diversa, era ancora quella bigotta di paese, la gente non aveva mai visto nulla, non aveva mai viaggiato o preso l’aereo; là invece era tutto diverso, in estate si andava in vacanza, c’era modo di confrontarsi con persone dalle mentalità e dalle culture differenti.

Tornammo in un paese in cui non ci riconoscevamo più e dove per tutti eravamo i francesi tornati a casa.
Ancora oggi quando si parla di qualcosa e usiamo l’espressione: “da noi si fa” o “da noi è così” con quel “da noi” non intendiamo San Marino ma la Francia.

Dopo più di trent’anni che viviamo nuovamente nel nostro paese natale non ci siamo ancora ambientati e ci sentiamo quasi più francesi perché per noi quello è stato il nostro paese, dove
abbiamo vissuto bene, con sacrifici, ma che sono valsi la pena e dove ci siamo fatti amicizie con cui ancora ci sentiamo.
I primi anni abbiamo anche pensato di ripartire ma come mi disse la mia povera nonna all’epoca: “figliola non avere paura, sii forte, col tempo tutto si aggiusta.”
Per trent’anni in Francia con la mia famiglia siamo stati chiamati Maccaronì, da quarant’anni io e la mia famiglia a San Marino siamo chiamati i Francesi.

La partenza…il ritorno…l’emigrazione racconto di Valentina Pignatta

 

Il racconto ha partecipato al concorso “Raccontami una storia: parlami di te”

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