venerdì , Novembre 22 2024

Raccontami una storia: “Mumi”

Mumi- Anna Musci

MUMI

di Anna Musci

 

Mi sveglio, è ancora buio ed ho gli occhi talmente gonfi, che non riesco ad aprirli più di qualche millimetro. Non so se ho dormito o meno, la testa mi scoppia e mi bruciano le palpebre. Le mie orecchie fischiano e avvertono la pressione provocata da un senso di vertigini e tremore. Cerco di capire dove mi trovo e per convincermi dico a me stessa: «Anna sei nel tuo letto, tranquilla, hai solo avuto un incubo…no, aspetta, non sento il suo russare, non sento versare i cereali nella tazza, non sento un leggero rumore di chitarra…Non è stato un brutto sogno».  Inizio a recuperare lucidità, ricordando ogni istante dei due giorni passati. Prima, rivedo davanti a me gli zii che arrivano inaspettatamente a casa nostra, poi le loro assurde parole dirette a me e mia mamma: «Paolo ha avuto un infarto mentre era in bicicletta, non ce l’ha fatta, è morto». Allora ancora assonnata, ho un senso di smarrimento e paura e le mie mani, come d’abitudine, vanno in cerca delle sporgenze delle mie ossa per rassicurare la Bestiolina, la vocina maligna che mi controlla. Mi arrabbio con me stessa: «Tuo babbo è morto e tu Anna sei qui a sentire se hai troppa ciccia alla vita e a contarti le costole? Fai schifo, sei una persona orribile, allora è vero che non volevi bene a tuo babbo». Tento, senza risultati, di piangere e in totale balia dei sensi di colpa uniti a fortissimi dolori allo stomaco, mi domando tra me e me: «Perché ieri sono rimasta fredda alla situazione? Io sto troppo bene per tutto ciò. È come se nulla fosse successo, non riesco a versare una lacrima. Continuo, come sempre, a pensare solo al cibo, al grasso, al mio corpo». Sudando freddo tra le lenzuola umide, cerco una misura, un respirare giusto, senza affanno.

Mio babbo si alzava al mattino presto. Io dormivo, forse, perché ormai da quattro anni non capivo quanto dormivo, sognavo o stavo sveglia nel sogno. Quindi, sentivo i suoi passi, le sue lunghe traiettorie ciabattine e alla fine, il chiudersi della porta verso il quasi-giorno fuori. Poi tornava la sera, che per me era sempre un momento molto difficile: il caldo dei fornelli in cucina, il ruminare di tutti i pensieri, il pasto quasi impossibile da finire. Mio babbo, allora, raccontava le cose di quella giornata, o quelle che venivano dai suoi giorni andati. Iniziava con i tanti oltraggi subiti dalla vita, ma li presentava come nuvole buone, come un tappeto di foglie da raccogliere ogni giorno, perché il pavimento fosse pulito. Io non riuscivo a sopportare quell’implicito ottimismo così, puntualmente, gli rispondevo a tono e lo riprendevo per ogni minima cosa.

Con un filo di voce dico a me stessa: «Come sono stata cattiva, lui avrebbe fatto di tutto per salvarmi, io lo punivo trattandolo male, quando invece non se lo meritava. Spero che sappia che in realtà io gli ho sempre voluto un mondo di bene…molte volte era la Bestiolina a parlare per me». Quando ci punzecchiavamo, stava ad occhi chiusi, stringeva i pugni e si toccava il sopracciglio. Si muoveva sempre in questo modo quando s’arrabbiava molto, si metteva come di spalle al mondo. Ho sempre pensato che ci fosse il fuoco dietro quelle palpebre. Si esercitava a contenere la rabbia, glielo avevano insegnato, ma a volte non riusciva, era troppo per lui vedere sua figlia autodistruggersi. Tutti mi dicono che ora devo guarire per lui, ma a me sembra la cosa più sbagliata. Se cosi fosse, avrei come l’impressione di fargli un dispetto, non un piacere, di dimostrare palesemente gli attriti che c’erano tra noi due e che lui era il problema da estirpare per farmi rifiorire. Mi chiedo con un filo di voce: «Cosa sto provando?» e la risposta è sempre un soddisfacente «non lo so». Devo imparare a sentire, come diceva mio babbo, a piccoli passi, con la pazienza, qualità che racchiude la passione, intesa sia come spinta ad agire sia come capacità di sopportazione per essa.

In quella confusione di pensieri e colpe assegnate, sotto il peso delle mie tre coperte, ricordo i pochi ma sentiti abbracci. All’improvviso, sentii come l’odore di mare e sale e mi tornò alla mente uno dei giorni più brutti e allo stesso tempo più importanti della mia piccola esistenza. E lui c’era.

Dopo un periodo buio a causa della Bestiolina, un giorno, per caso, mi capitò di “uscire” dal mio corpo per vedermi da fuori. Mi accorsi che buttavo via il cibo e l’integratore, che mi aveva prescritto la mia nutrizionista. Mi feci paura da sola e mi vergognai tantissimo. Non volevo dirlo ai miei genitori, ma avevo continui attacchi di panico e ansie, allora, tra le lacrime, gli confessai tutto. Comprensibilmente si sentirono traditi e presi in giro. Loro mi avevano dato fiducia ed io l’avevo sprecata. Ad ogni parola che pronunciavo, provavo sempre più disprezzo per la mia persona. Era una domenica pomeriggio ed io continuai a piangere e tremare per molto tempo. Mia mamma eresse un muro tra me e lei, non voleva essere disturbata, invece mio babbo mi prese, mi caricò in macchina contro voglia e mi portò verso il mare, la sua grande passione. Mentre scendevamo le scale di casa, si girò più volte, non per guardare indietro, ma per vedere qualche attimo, da dietro, dove stava andando. Sulle strade già fatte la percezione della realtà è tutta diversa, perché c’è già un po’ di quella luce che si posa e rimane fissa. Io e mia mamma gli abbiamo sempre rimproverato il fatto di “scappare” dai momenti di difficoltà, ma era più forte di lui, non riusciva a sopportare quella luce sospesa che ci invadeva da anni, così timida e accesa di polvere, che avrebbe voluto saper soffiare via. Salimmo in macchina e rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto, tra un sospiro e una lacrima. Trovato parcheggio, ci dirigemmo verso il porto, sempre senza parlare. Io misi il muso e serrai le braccia incrociandole, “arrabbiata” con lui per avermi portato via dalla mia gabbia d’orata. «Ecco, siamo al mare, sei contento? Alla fine sei venuto dove volevi venire te!», gli dissi con un tono acido. Mio babbo sospirò e trattenne tutte le parole di disappunto, che mi sarei invece meritata.

Lo guardai e sentii di non riuscire a capirlo. Aveva sempre la faccia di chi non c’entra, di chi è inadeguato al momento. Camminava tra la folla e ascoltava quello che la gente si diceva, sorrideva, a volte, ma niente di personale. Cambiava spesso strada all’improvviso, non perché avesse qualcosa contro la vecchia che faceva, solo che gli piaceva sbagliarla, ogni tanto. Ecco, questo io non tolleravo di lui: uscire dai piani. Dovevo avere tutto stabilito in precedenza, rispettare orari, ai quali erano associati precisi “riti”, fondamentali per zittire qualche minuto la mia Bestiolina. Arrivammo ad una panchina, con vista sul mare. Il sole autunnale picchiava sulle teste dei passanti sorridenti e scaldati, invece, a me, fece venire subito un terribile mal di testa. Mio babbo mi guardò e trovò il coraggio di parlare, rompendo la mia spessa corazza. «Abbi cura di te» mi disse, « di te e degli altri, ascolta la loro onda, ascolta l’eco delle loro tracce». Mi misi in ascolto e per la prima volta, dopo tanto tempo, guardai l’esterno, ciò che si presentava fuori dal mio corpo, che ormai sentivo solo come un contenitore di nostalgia di futuro. Seguivo, con lo sguardo, alcuni tra coloro che camminavano a passo svelto e pensavo: «È spietatamente preciso il passo deciso, con un sincronismo perfetto di piccoli movimenti, ognuno con un suo implicito significato». pensai, senza volerlo, ad alta voce. Mio padre allora continuò: «Perdi il passo, ma non il cammino, perché il viaggio vaga e s’infrange a riva come le onde sugli scogli, mostrando comunque la dignità della loro natura». I miei occhi incrociarono per qualche secondo i suoi e non riuscirono a trattenere la disperazione che avevo dentro. Nonostante odiassi il contatto fisico, mi avvicinai e appoggiai la testa sulla sua spalla, per tentare di farla ritornare ad un peso normale.

Ho vissuto un’intera infanzia nello stare nell’attimo prima della parola e ancora, non riuscivo ad uscirne. Ho bloccato tutto in una grande bolla di sapone, per non rischiare di mettere davvero le ali e diventare ciò che ancora ero solo in potenza. Sulla sua spalla mi sentivo sicura, il suo odore si mischiava con il mio, come in quell’abbraccio che avevamo paura di darci, poiché poteva dimostrarci l’immenso affetto reciproco. Percepii il battito accelerato del suo cuore e dopo un sospiro, mi disse:« Non dar retta a ciò che dico ogni tanto, parto per la tangente e non so nemmeno io cosa sto facendo, ma ascoltami. Va bene anche a testa bassa. Ascoltami quando cerco di capirti, così magari riusciamo ad abbattere quel muro così spesso, che abbiamo a poco a poco costruito tra di noi. Impariamo a percepire il silenzio dell’uno e dell’altro, poiché così si crea un posto neutro, dove tutto s’incontra e si riflette. Forse c’è ancora una speranza per noi». Riapparve un sorriso sul suo volto, che si specchiò nel mio. I due testardi e perfezionisti di casa avevano trovato il contatto d’avvio. «Ho imparato che le lacrime aiutano a crescere, che i ricordi non si dissolvono mai, che le parole al vento feriscono, che è più importante amare che essere amati, che perdonare non è facile e che i vuoti non sempre possono essere colmati. Ma so anche che i nostri sogni nessuno li può rubare, neanche la tua Bestiolina!».

Mumi- Anna Musci

Continuammo a parlare di vari argomenti, dalle piccole cose inutili in fondo alle nostre tasche, a tutte le polveri rimaste depositate negli anni sul nostro cuore. In questo discorso, rimasi abbagliata dal suo gesticolare. Aveva mani grandi e dita affusolate, segnate dal lavoro di direttore di un’azienda casearia, fatta di tante carte da rispettare, ma anche di numerose macchine che iniziavano a subire lo scorrere degli anni e che, nottetempo, dovevano essere riparate con solo l’intuito a disposizione. I calli, le cicatrici e le unghie raccontavano così la sua vita. Sono la parte del corpo che mi mancherà di più perché, sebbene tra noi mancasse un’affettività esplicita, quelle mani erano sempre disponibili per me. Da piccola le dita tremanti di gioia mi hanno accarezzato appena nata, mi hanno rinfrescato la fronte quando avevo la febbre, mi hanno fatto giocare “alla pizza”, dove io ero l’impasto e mio babbo il pizzaiolo. Crescendo, mi hanno dato la forza per affrontare il primo giorno di scuola elementare, mi hanno tenuto il sellino della bicicletta mentre ricercavo l’equilibrio, mi hanno salvato quando tentavo di guidare per la prima volta la macchina,che si spegneva in continuazione e mi hanno aiutato a sistemare la mia stanza da studentessa universitaria fuori sede. Quelle mani purtroppo, a causa mia e della Bestiolina, hanno asciugato lacrime, tirato penne, sbattuto porte e a palmo completamente aperto hanno enfatizzato tutto il suo dolore nelle parole di padre, come se tramite esse volesse farmi dono di una parte della sua vitalità. Nell’ultimo periodo le amavo e le odiavo allo stesso tempo. Erano queste che mi davano un senso di azione-reazione alle difficoltà che si presentavano, ma avevano anche le sembianze di mostri mitologici che, con forchette e cucchiai, divoravano cibi caldi ed odorosi, che io vedevo come il fuoco proibito, a cui dirigevo il mio grido muto attraverso il rifiuto. Mi piace pensare che mio padre con le sue dita possa guidarmi, sapendo accordare le mie corde stonate e imprevedibili, come nel jazz, che amava suonare ed ascoltare, steso sul letto, abbracciando la chitarra.

Il sole stava lentamente calando e l’aria si faceva più pungente, anche se ancora gradevole. Avevo ancora la testa appoggiata sulla spalla di mio babbo, completamente bagnata dalle mie lacrime, ma ora ero più tranquilla. Sentire il suo battito regolare mi rilassava. Data ormai l’ora di cena e i primi segnali di fame di mio padre disse: « Anna, tu sarai come una torta portata a tavola da chi l’ha fatta. Dentro ci senti il profumo dell’ostinazione del comporre, tagliare, cuocere e assaggiare. Tu credi di non essere forte, ma per me lo sei e tanto». Mi misi a ridere per l’originalità della similitudine, tanto fuori luogo quanto illuminante per una persona con il mio disturbo, fatta apposta per essere messa sulle sue labbra e continuò: «Tu non sei anoressica di cibo, ma di sentimenti. Ora ti sembra grande il mondo, troppo di tutto. Troppe pedalate, troppe buche, poi fatica, cose che non fai in tempo a compiere, clacson, indifferenza, sorrisi, messaggi non inviati, cose che hai dentro ma che svaniscono tra la folla. Allora fermati. Da ferma hai tutto il tempo. Trova la tua personalità nelle piccole cose, cerca con pazienza, credi nel caso, fidati di chi ti è vicino e fai brillare i tuoi occhi curiosi. Trova un modo, un percorso, così raggiungerai la grandezza e riuscirai quasi a sfiorarla». Era ora di alzarci, stava finendo il biglietto del parcheggio. Penso che entrambi saremmo volentieri rimasti lì per un tempo illimitato, perché sapevamo che una volta tornati a casa, avremmo perso nuovamente il contatto d’accensione tra noi due. In quelle poche ore eravamo stati noi, senza pregiudizi o strane sovrastrutture. Erano Anna e Paolo, una figlia e suo padre, che dopo tanto tempo riuscivano nell’atto della condivisione, con il mare, che gli offriva una piccola scintilla di speranza negli occhi. «Mumi, Mumi…forza!», mi sussurrò all’orecchio, con la tenerezza del nomignolo che mi aveva donato fin da piccola. É una bella responsabilità assegnare un nome. Lo vogliamo caricare di significato, per alleggerire un po’ all’altro la fatica di iniziare un cammino, per dare come una prima spinta.I nostri nomi ci vengono in soccorso ricordandoci personaggi virtuosi, santi a cui appellarci, nonni che ci ameranno incondizionatamente. Mi hanno chiamata Anna, come la mia bisnonna, poi, il tempo mi ha dato nuovi titoli tra cui Mumi, quello che mi ha gentilmente donato mio padre. Chi ti ama, chi ti vuole bene, sente di doverti intitolare un’altra volta, per stringerti più forte di una firma sul documento, per darti una storia nuova da scrivere insieme, parallela a quella ufficiale.

Ritorno con la mente al mio corpo, pesantemente vuoto sotto le coperte. A volte ti chiedi cosa siano quelle luci che immagini davanti a te, nel buio della stanza, quando sei in quella terra di mezzo tra il sonno e l’esser sveglio. Alzandomi piano piano, mi convinsi che per me, poco fa, erano stati degli occhi. Negli ultimi anni quegli occhi erano i miei, per ragioni antiche e inconsce di un gioco di specchi e potevo aprirli o chiuderli, ma poco cambiava, poiché erano sempre giudicanti. «Ma questa notte non ero io a guardarmi…» mi ripeto in testa, mentre mi preparo la colazione. Tra un cucchiaio e l’altro di yogurt, rigorosamente bianco con 0% grassi, continuo a riflettere. Erano occhi di fuoco acceso, carezze che scompigliavano i miei capelli, note senza suono e brezza leggera. «Allora quegli occhi erano suoi!», dissi tra me e me.

Il mio cuore si scalda e smetto di tremare. Nessuno può vederti bene come gli occhi che ognuno da’ a chi non può più vederti. Questi mi stavano sussurrando che potevo mettere tutta me stessa ad isolare emozioni e sapori, ma il cuore sarà sempre teso a tornare rosso, per intraprendere la rivoluzione del cambiamento.

 

Il racconto ha partecipato al concorso “Raccontami una storia: parlami di te”

 

 

 

 

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